Il De natura deorum (in italiano La natura degli dei) è la prima delle tre opere teologiche di Marco Tullio Cicerone scritta nel 44 a.C. ed è composta di tre libri. Le altre due sono De divinatione (La divinazione, 44 a.C.), e De fato (Il destino, 44 a.C.).

Il De natura deorum fu scritto subito prima della morte di Cesare, ed inviato a Bruto. Cicerone orchestra una conversazione tra un epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza. L’ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che sembra rappresentare lo stesso Cicerone. Cotta prende, poi, la parola, per confutare anche il pensiero stoico riguardo alla Provvidenza. Se Cicerone respingeva con certezza il parere degli epicurei al riguardo, non possiamo, invece, sapere con altrettanta certezza cosa pensasse della religiosità dello stoicismo: le parole di Cotta, pervenuteci, tra l’altro, solo in parte, non contengono nessuna riflessione dello stesso Cicerone. Si è però ipotizzato che Cicerone abbracciasse almeno in parte il probabilismo accademico, sebbene suoi ammiratori fossero invece convinti che si fosse allontanato del tutto dallo scetticismo.

Comunque, è importante il poter constatare l’estrema discrezione dell’atteggiamento di Cicerone: egli è persuaso che il culto nell’esistenza degli dei e nella loro azione sul mondo debba esercitare una profonda influenza sulla vita, e che è, dunque, di un’importanza fondamentale per il governo di uno stato. Esso deve, perciò, essere mantenuto vivo nel popolo: sono il politico e l’augure che parlano. Cicerone non trova gli argomenti degli stoici molto convincenti, e li confuta per mezzo di Cotta. Infine, si dice incline a credere che gli dei esistano e che governino il mondo: lo crede, perché è un’opinione comune a tutti i popoli. Questo “accordo” universale equivale per lui ad una legge della natura (consensus omnium populorum lex naturae putanda est). In quanto alla pluralità degli dei, sebbene non si esprima categoricamente su questo punto, sembra che non ci creda, o per lo meno che, come gli stoici, consideri gli dei come nient’altro, per così dire, che le emanazioni del Dio unico.

Concepisce poi questo Dio unico come uno spirito libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all’origine di tutto. Non risparmia, invece, i racconti mitici del politeismo greco-romano; schernisce e condanna le leggende comuni a tutti i popoli. Era soprattutto questa parte dell’opera, il terzo libro, ad affascinare i filosofi del XVIII secolo: non era difficile mettere in luce gli aspetti ridicoli della religione popolare, e si può dire che anche al tempo di Cicerone ciò era diventato un luogo comune filosofico. Gli uni, respingendo con disprezzo queste favole, che giudicavano grossolane, respingevano anche ogni credenza; gli altri adottavano la dottrina stoica. A Cicerone, invece, l’esistenza degli dei appariva come necessaria: tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui. Pressappoco nello stesso modo, Cicerone analizza, poi, il tema dell’immortalità dell’anima, prendendo in prestito molte delle opinioni espresse a questo proposito da Platone.

Note biografiche tratte da Wikipedia
https://it.wikipedia.org/wiki/De_natura_deorum

Dall’incipit del libro:

Quantunque in filosofia sieno molte le materie non bene ancora, e bastantemente dichiarate, pure la più difficile, o Bruto, come tu anche non ignori, e la più oscura di tutte le questioni è quella della natura degli Dei. Questione bellissima al riconoscimento dell’animo umano, e necessaria a modificare la religione. E intorno la quale uomini dottissimi disputano con tanto varie e discrepanti sentenze, che grande argomento ne offrono a conoscere come il principio anzi il fondamento della filosofia esser deggia la pura evidenza. E ben prudentemente gli Accademici in fatto di cose incerte si trattengono dall’acconsentire. Imperciocchè qual cosa esser può mai più sozza della temerità? o che avvi mai di cotanto temerario, e di cotanto indegno della gravità, e della costanza d’uomo sapiente, quanto, o l’approvare il falso, o senza dubitazione veruna difendere quelle sentenze, le quali non sono con sufficiente certezza percepite, e conosciute?
Ora in questa questione, la maggior parte dei filosofi (per quella credenza che ha massimamente faccia di vero, ed alla quale la natura medesima duce ne trasporta) affermarono esservi gli Dei. Protagora mostrò quanto a sè di dubitarne, Diagora di Melo, e Teodoro di Cirene reputarono non esservi Dei affatto. Ma coloro i quali affermarono esservi gli Dei, ne si mostrano in tanta varietà, e in tanta discordanza di pareri, che sarebbe molesto il numerarne le sentenze.

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