«Egli [Thomas Mann] non vorrebbe farLa attendere troppo a lungo per la risposta alla Sua lettera del 13 marzo e mi ha pertanto incaricata di comunicarLe il suo giudizio sull’ultimo romanzo di Bruno Frank. Mio marito ha sempre stimato Frank come autore raffinato e straordinariamente colto e considera la sua ultima opera, “La figlia”, la più matura e la più ricca. I rapporti umani sono avvincenti e presentati in modo plastico, l’opera è ricca di personaggi brillanti e verso la fine si espande in un grande quadro storico».

Così, in una lettera del 23 aprile 1946, la moglie di Thomas Mann risponde ad Arnoldo Mondadori, che, in vista di una possibile pubblicazione, aveva chiesto al celebre scrittore un giudizio su La figlia. Un anno prima, nel suo necrologio “In memoriam Bruno Frank”, Mann si era espresso sull’opera in questi termini: «ha lo status di capolavoro, con il tenero ritratto della moglie, la figlia di Massary, la nostra Liesl». Elisabeth, la “figlia” di Recha e di Pattay che dà il titolo al romanzo, adombra infatti la figura di Liesl, moglie di Bruno Frank, come lei di origini ebraiche e figlia di una famosa cantante: di Recha l’autore scrive: «le dipinsero la sua carriera come quella di Yvette Guilbert o della Massary», citando esplicitamente la propria suocera, Fritzi Massary, celebre diva degli anni Venti.

La “Vienna gioconda e tollerante” del 1913 è l’effimero scenario iniziale del romanzo, dal quale il giovane Franz von Pattay und Schlern, ufficiale di cavalleria di antica nobiltà, viene strappato per volere della ricchissima zia, sua unica parente, per sottrarlo al gioco, alle fugaci avventure amorose, ai duelli (e qui forse Frank si rivede da giovane, dapprima in fuga dalla Scuola Hermann Lietz di Haubinda con la moglie di un professore e in seguito oppresso dai debiti di gioco). Pattay, imprevedibilmente, lascia volentieri Vienna, disgustato dalla vita mondana dopo il suicidio di una giovane da lui abbandonata e, soprattutto, dopo un incontro con il padre di lei, il gioielliere ebreo Siegmund Blau, che imprimerà una svolta alla sua vita: «il nero cappello del gioielliere Blau stava come sospeso fra lui e l’orizzonte limpidamente definito della sua vita passata».

Pattay si ritrova quindi in una piccola guarnigione non lontana da un’imprecisata “città sul Dniestr” di 18000 abitanti, un melting pot di lingue, religioni, culture. Qui convivono contadini ucraini che arrivano in città con i loro variopinti costumi per vendervi i loro prodotti, borghesi polacchi, ma soprattutto ebrei dai caffettani neri, fuggiti dalla Germania durante il pogrom del 1848 ed integratisi, almeno in parte, in quella nuova realtà. Benvoluto da commilitoni e superiori (ad eccezione del capitano, un feroce antisemita), benché solitamente non partecipi ai loro intrattenimenti Pattay una sera eccezionalmente si unisce ai compagni: l’acclamata protagonista dello spettacolo di varietà cui assistono è Recha, un’affascinante cantante ebrea che farà nascere in lui un amore profondo, in grado di colmare “l’abisso del tempo”.

«Le loro vie erano corse cosí distanti che ogni aspetto, ogni esperienza, ogni incontro doveva apparir nuovo all’altro e non direttamente comprensibile. Questi elementi stranieri ed eccitanti, questa mancanza di familiarità e di confidenza avevano origini piú remote di quel che ella potesse spiegarsi. Non erano solo due amanti che parlavano fra loro. Dall’abisso del tempo, oltre deserti di separazione, erano due voci che si ritrovavano, due voci rimaste sempre estranee l’una all’altra.»

Le tragiche vicende che sconvolsero l’Europa dal 1914 al 1939 si riverberano nella vita della cittadina, che passa dal dominio asburgico a quello polacco, dall’occupazione nazista a quella sovietica, e in quella dei personaggi cui sono dedicate le quattro parti dal romanzo: Pattay e Recha, i due giovani innamorati, Chana, zia, protettrice e compagna di vita di Recha, Piotr, unico personaggio presente dall’inizio alla fine del romanzo, dapprima fedele attendente di Pattay, poi devoto servitore delle donne, ed Herkimer, un giornalista statunitense che entra in scena solo nell’ultima parte. Bruno Frank, attraverso questo personaggio che si rivela fin dal primo momento intrepido, altruista, privo di pregiudizi, fervente democratico e difensore dei deboli e degli oppressi, esalta l’intera categoria, facendo trasparire nel contempo la sua gratitudine per il Paese che l’aveva accolto profugo:

«Hanno guardato senza veli nella loro realtà i Governi dei popoli destinati all’olocausto, tutti quei politicanti incerti, impotenti e sottomessi, che segretamente simpatizzavano con il Leviathan. In ogni momento, da per tutto questi giornalisti hanno detto tutta la verità che era loro permesso di dire. Nelle loro camere d’albergo, ora qua ora là, vegliando le notti sulla macchina da scrivere o al microfono, sono essi gli storici e i modesti profeti di questa crisi sanguinosa della civiltà e costituiscono l’onore e l’orgoglio spirituale della loro patria, l’America.»

Nell’ultima parte del romanzo, dopo l’incendio del Reichstag che aveva spinto lo stesso Frank ad abbandonare con la moglie la Germania, la storia irrompe con tutta la sua violenza sulla scena e le appassionate parole del narratore esprimono la sua partecipazione al dramma dei paesi occupati e soprattutto del popolo ebraico («gente eternamente straniera che non apparteneva a nessuno»):

«Tutti avevano riconosciuto nella luce spietata di quel settembre senza nubi che cosa si avvicinava. Non era soltanto un conquistatore straniero come già prima decine di volte nella storia dolorosa del paese, ma qualche cosa di orribile, di mostruoso, che non aveva ancora nome. Un orrore, una lebbra del cervello, un odio contro tutto e tutti; un odio freddo, sordo, cieco contro la vita, contro la felicità. Era generato dalla ritorta di acciaio, l’uomo-belva, l’essere feroce dei tempi primordiali, quando ancora non regnava né legge né norma.»

Nel romanzo la rappresentazione del tempo non è lineare: la narrazione, interrotta da alcuni flashback che rievocano gli antecedenti dei personaggi, si concentra sugli eventi più importanti della vita dei protagonisti e le numerose ellissi vengono colmate con indicatori temporali che segnano il passaggio di Elisabeth da bambina a giovane donna («Da quel giorno erano ormai trascorsi quattro anni e piú di due da quando il maresciallo e nonno aveva cavato di tasca l’occhiale per osservare Elisabeth.», «”Adesso ci avviciniamo di nuovo allo stesso periodo. La bambina ha undici anni.”», «Del resto non era che una ragazza di diciannove anni.», «Una settimana prima Elisabeth aveva finito ventun anni. Era maggiorenne.»

Come Achille diokus podas (“piè veloce”) o il pius Enea nei poemi epici, i protagonisti possiedono una caratteristica saliente che viene spesso evocata, come i capelli color miele di Elisabeth, le spalle robuste e il viso “da contadino” di Piotr, il fisico imponente di Herkimer, l’esile ed aggraziata figura di Recha, la solidità e “gli stivali alti e pesanti” di Chana. Alcuni “oggetti”, nel romanzo, si caricano di un intenso significato simbolico: la pipa di Herkimer, il «vestitino di modello scozzese a quadretti in diverse tonalità di rosso» della piccola Elisabeth, i ritratti di Pattay e di Recha e perfino la caserma della cittadina, le cui pareti passano dal giallo (”Il colore era quello del castello di Schönbrunn»), al bianco («un bianco abbagliante e sopra il portale al posto dell’aquila bicipite degli Absburgo un’aquila bianca su campo rosso.»), al bianco scrostato («L’intonaco bianco dell’edificio si sfogliava e, come macchie ricordo di una passata malattia, traspariva il vecchio giallo imperiale, l’austriaco giallo») che preconizza l’invasione nazista.

L’autore conferisce grande rilievo alle lingue parlate dai personaggi, strumento di comunicazione ma anche marchio, come l’accento yiddisch degli ebrei che sottolinea la loro “diversità”; la predisposizione per le lingue di Elisabeth (parla polacco, ucraino, tedesco, inglese e francese, ed è affascinata dal latino) le permette di parlare con l’ucraino Piotr e con lo statunitense Herkimer, ma soprattutto simboleggia la sua apertura mentale, il cosmopolitismo che la accomuna al giornalista e allo stesso Frank.

Il romanzo, l’ultimo di Bruno Frank, fu pubblicato a Città del Messico nel 1943, due anni prima della morte dell’autore. Nel 1952, grazie a Mann e alla grande germanista Lavinia Mazzucchetti, che avevano convinto Arnoldo Mondadori, uscì nella versione italiana, tradotto da Bruno Arzeni (1905-1954), poeta, lettore nell’università di Erlangen e poi docente di letteratura italiana in quella di Monaco di Baviera. Rientrato in Italia per motivi di salute, oltre a La figlia di Frank tradusse opere soprattutto di Thomas Mann, che dichiarò il proprio apprezzamento nei confronti del suo lavoro, ma anche di Johann Wolfgang Goethe ed Hermann Hesse. Nell’intento primario di rendere in italiano lo spirito, prima che la lettera, dei testi, faceva precedere le traduzioni da un intenso studio preparatorio sull’autore e sulla genesi dell’opera «È sempre uno dei piaceri più raffinati mettere il naso dietro le quinte, aver l’impressione di cogliere un segreto, sorprendere lo scrittore nell’intimità del suo lavoro, vedere le origini di un’opera» (B. Arzeni, introduzione a Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann). Nel tradurre La figlia usa uno stile scorrevole e un linguaggio moderno e talora appassionato, che rende questa edizione del romanzo apprezzabile anche a distanza di quasi un secolo.

Sinossi a cura di Mariella Laurenti

Dall’incipit del libro:

Perfino nella Vienna gioconda e tollerante del 1913, che a un membro dell’aristocrazia dell’impero permetteva, si può dire, qualunque cosa, gli affari di donne, di gioco e i duelli del conte Franz von Pattay avevano a un certo punto toccato il limite che non si poteva piú fingere di ignorare, sicché fu disposto il suo trasferimento in una delle guarnigioni nord-orientali della monarchia.
Il comandante del reggimento dei nobili, presso il quale egli serviva, sarebbe stato forse non contrario a contentarsi una volta ancora di un’ultima o penultima ammonizione. Egli aveva una benevolenza affettuosa per questo giovanotto brillante e, del resto, nelle sue scappate non c’era nulla che fosse del tutto inconciliabile con le tradizionali leggi d’onore dell’esercito e della società. Il trasferimento disciplinare era venuto dal comando superiore, all’insaputa del colonnello.
L’unica parente vicina del giovane trasferito, una sorella della madre, la vedova principessa Weikersthal, dama tirannica e molto bigotta, aveva chiesto udienza a Schönbrunn e dal trono dell’ottantenne imperial regio pedante aveva riportato quella sentenza inappellabile. Ora le procurava un piacere malevolo il poter esser la prima a darne notizia al colpito.

Scarica gratis: La figlia di Bruno Frank.