Il finto medico appartiene al numero delle tante commedie dell’autore napoletano ispirate al teatro di Goldoni e che rappresentano il tentativo di emancipazione di Cerlone dai tipi della commedia dell’arte che però lascia qui un segno ereditario in alcuni personaggi come la servetta furba o l’abate pedante e “gran parlatore”. La commedia è databile al 1769 ed è un libero adattamento della commedia goldoniana La finta ammalata del 1751.

Allargando il campo visivo la commedia appare inserita nel solco che parte dalla primissima commedia di Molière Le médicin volant (“Il medico volante”, 1645) attraverso la rivisitazione del tòpos della donna di buona famiglia che si finge ammalata, o si ammala, per amore. Molière stesso si affezionò tanto a quella narrazione da ritornarvi ne L’amour medicin (“L’amore medico”, 1665) e da qui, dove già è viva e pungente, giungere alla più pura e sanguigna satira contro i medici nel suo Il malato immaginario.

Goldoni riprese la commedia francese omettendo la critica sui medici e scrivendo del suo rifacimento «Molier celeberrimo Autor Francese, nella picciola Commedia sua, intitolata l’Amour médecin, ha toccato quell’argomento su cui la presente Commedia mia è lavorata; se non che la sua Lucinda è per amore ammalata, e la mia Rosaura finge per amore di esserlo: quella ama un giovane, che per averla si finge medico, questa ama un medico, che senza saperlo l’ha innamorata (1)».

Cerlone va oltre Goldoni spingendo decisamente l’equilibrio dell’opera di Molière tra critica dei costumi e commedia d’intreccio amoroso in favore di quest’ultima: nei suoi tre atti la protagonista Camilla si finge malata con la complicità di Leandro, suo spasimante e ‘finto medico’, per sottrarsi al matrimonio già stabilito con Don Saverio.

Dopo di lui, Edoardo Scarpetta, proprio tra gli spettacoli con cui volle celebrare la riapertura del Teatro San Carlino di Napoli nel 1880, riprese il tema e rielaborò Il finto medico di Cerlone (non la commedia di Goldoni) riadattando quell’opera nella sua Nu zio ciuccio e nu nepote scemo che gli valse scrosci di applausi del suo pubblico e entusiastici giudizi dai critici teatrali, non uno però che abbia voluto o saputo rinvenire l’immediato precedente della riduzione di Scarpetta.

La vita artistica di Cerlone fu fortemente travagliata dal giudizio della critica e dell’ambiente intellettuale che non sapeva perdonargli la sua cultura da autodidatta, tanto quanto fu esaltata dal successo indiscusso di pubblico. Per i primi Cerlone aveva parole umili e feroci, scriveva:

“I critici avran ragione di censurarmi ma io scrivo perché mi pagano, stampo perché son comandato e non ho avuto mai né potevo aver mai nessuna presunzione che le mie commedie potessero essere qualche cosa di buono nel mondo. Sono un povero napoletano che non ad altri che ai suoi patriotti e al loro buon cuore debbo l’applauso delle opere mie riportato (2)

ma anche:

“Al feritor superbo, al Critico mordace risponde quel Cerlone, ch’è un ignorante e piace! […] Contro un torrente pieno, che in mio favor discende, il gran sonetto tuo argine far pretende? Ne ho mille in lode, e sono illustri letterati e cavalier sublimi, di te più dotti e grati. Che mal può farmi il tuo d’atro livor ripieno? Cagion per me di gioia diventa il tuo veleno (3)”.

Sulla sua opera, già a poche decine d’anni dalla morte dell’autore, spente le luci sulla grandiosità delle sue scene, divenuta muta la voce dei più amati interpreti, esaurita l’eco delle risate delle facili battute e delle volgarità… era sceso un generale imbarazzo e il silenzio di Scarpetta sul precedente della sua commedia ne è un’ennesima testimonianza.

L’interessante saggio sulla lingua di Cerlone di Giovanni Maddaloni (4) sviluppa in un confronto proprio tra Il finto medico e Nu zio ciuccio e nu nepote scemo l’analisi delle scelte linguistiche e di stile di Cerlone aiutando a comprendere le ragioni del suo successo e al tempo stesso della damnatio memoriae che oscurò la sua fama postuma.

Francesco Cerlone optò per una differenziazione linguistica dei suoi personaggi: i giovani amanti sono identificati da un lessico alto e aulico:

Camilla – Idolo mio! mio bene! mio cuore! Mia vita!
Leandro – Tacete per pietà, mi fate morir d’amore, e quanto sembrate bella agli occhi miei.

Mentre per gli antagonisti e gli altri personaggi, Cerlone adattò il dialetto napoletano, ora in varianti vezzose, ora scegliendo invece il turpiloquio, ma soprattutto rendendo conto di quello che era ai suoi tempi la lingua vivace del parlato:

Saverio – Si bella, si bona, si bona mmaretata.
Rina – Corillo mio, t’avarria da essere io mogliera, quanta carizze te vorria fa mascolo mio.

È qui che l’autore diede libero sfogo alla propria inventiva, il terreno che gli si confece maggiormente, mentre il linguaggio poetico rimane quello esibito e freddo di una lingua importata stilizzata e artificiosa, il dialetto napoletano di Francesco Cerlone “pressato dalle richieste di attori, impresari e pubblico […] scrivendo di getto, registra il parlato spontaneo e offre allo storico della lingua una testimonianza del lessico caratteristico dell’uso colloquiale della Napoli borbonica (5)”.

“Cerlone mostra una creatività non trascurabile, coniando lemmi, espressioni di dileggio, formule di galanteria popolare di sicuro effetto comico, voci verbali, senza arretrare di fronte alle possibilità di suscitare il riso proprie del turpiloquio, di una volgarità non di rado estrema, radicata nella comicità ridanciana e rozza che tanto spazio aveva avuto nella commedia dell’arte e che la riforma goldoniana aveva progressivamente eliminato (6)”.

L’autore non si fa scrupolo di introdurre elementi scatologici in un tentativo maldestro di seduzione:

Saverio – E accossì? Comme state? M’è stato ditto ca no state bona, ch’avite?
Camilla – Io non lo so.
Saverio – Fossero viérme? Fossero effetti di gravidanza?
Camilla – Oh Dio!
Saverio – Ca io pure l’auta sera jettaje, e po schiaranno juorno mme se sciòuze lo cuorpo de manera, che ancora sto co l’ossa delessate…

[Saverio – E così? Come state? Mi è stato detto che non state bene, che avete?
Camilla – Io non lo so.
Saverio – Che siano vermi intestinali? Che siano gli effetti di un malessere dovuto alla pesantezza di pancia?
Camilla – Oh Dio!
Saverio – Perché anch’io l’altra sera vomitai, e poi all’alba ebbi una tale diarrea, che ho ancora le ossa rotte…]

Né di accogliere nelle sue commedie elementi eterogenei di ambientazioni, intrecci, purché fossero graditi al pubblico.

Cerlone fu un autore estremamente apprezzato dal suo pubblico cui offriva commedie animate dalla freschezza e vivacità del parlato quotidiano, allestite in scenari grandiosi; ma nella sua ferma convinzione della necessità di superare i tipi della commedia dell’arte e l’improvvisazione ancorando il teatro dialettale al testo scritto ebbe anche il merito di preparare la fortuna dello stesso teatro che lo rinnegò. Quando Eduardo Scarpetta scriveva “S’abbia a Napoli un buon teatro in dialetto, con libri scritti, con scene distese per intero (7)” non poteva non rivolgere un pensiero grato al suo precursore.

Note:

(1) C. Goldoni, L’autore a chi legge, introduzione a La finta ammalata, in Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, Milano, Mondadori 1955, vol. III
(2) Francesco Cerlone, Commedie, Napoli, Vinaccia 1775, Tomo VIII.
(3) Benedetto Croce, I teatri di Napoli, 1° ed. Napoli, Pierro 1891; ora Adelphi, Milano 1992, pagg. 256-257
(4) Giovanni Maddaloni, La lingua dell’opera teatrale di Francesco Cerlone, Tesi di dottorato in Filologia moderna – Università degli Studi di Napoli Federico II, 2013 http://www.fedoa.unina.it/9226/1/Giovanni_Maddaloni_XXV.pdf
(5) Giovanni Maddaloni, cit., p.38.
(6) Ibidem.
(7) Eduardo Scarpetta, Cinquant’anni di palcoscenico, Milano, Savelli 1982.

Sinossi a cura di Arianna Terzi, Libera Biblioteca PG Terzi

Dall’incipit del libro:

Atto I.
Scena I.
Galleria terrena.
D. Valentino, e D. Saverio con un Sartore, che sta prendendogli la misura dell’abito: poi Ninella con un Perucchiero.
Val. Priesto spicciateve ca non c’è tiempo! Monsù e sollecita a mmalora… Chiamma aggente ca stò vestito lo voglio pe dimane a sera.

Sav. Fratiè e dincello ca mme nzoro pe fà l’arede.
Val. E chisto che nne vò fa?
Sav. E dincello ca mme nzoro pe mprofecà la casa.
Val. E statte zitto, non bide ca sconniette!
Nin. Lo Perucchiero da cchiù de n’ora ch’aspetta nn’anticamera
Val. E datele l’introito.
Sav. Ne ninè? sa lo Varviero ca mme nzoro?
Nin. Non saccio.
Sav. E dincello mo ca jescie ca io mme nzoro cossalute.
Nin. Gnorsì.
Sav. Siente siè? e po piglia acqua volluta, e sapone, ca m’aggio da polezzà.
Nin. Acqua volluta, e sapone? e che s’ha da scotenà qua puorco?

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