Iniziamo con questo Eutifrone la pubblicazione delle opere di Platone tradotte, introdotte e annotate da Emidio Martini. Questi intraprese queste traduzioni quando lasciò l’incarico, per raggiunti limiti di età, di direttore della Biblioteca Nazionale di Napoli e lo fece da «espertissimo ellenista e ottimo scrittore di prosa italiana» (Benedetto Croce). Martini era nato a Napoli nel 1852 e nella stessa città morì nel 1940. Nel 1941 fu pubblicata postuma la sua traduzione in versi del Giulio Cesare di Shakespeare per il quale di nuovo Benedetto Croce – che a Martini era legato da solida amicizia – scrisse la prefazione nuovamente elogiando l’amico: «Parco nel suo dire, schivo di esterne manifestazioni, egli in mezzo alle guerre e alle rivoluzioni dei nostri giorni ardeva di passione per le sorti civili dell’umana società». Le traduzioni di Martini dei dialoghi di Platone sono attente al rispetto dell’originale e sono di linguaggio chiaro e moderno. Affiancano adesso in questa biblioteca Manuzio le traduzioni di Francesco Acri, dotte ma datate e forse più interessanti per gli storici della lingua – Acri fu fautore e conservatore delle tradizioni di una prosa artistica che si rifà alla scuola di Basilio Puoti – che non per chi si dedichi oggi alla lettura e allo studio di Platone.
Non ci dilunghiamo sul contenuto del dialogo tra Eutifrone e Socrate, perché è illustrato adeguatamente nella prefazione di Martini (argomento). È sufficiente dire che l’Eutifrone è il primo dialogo della prima Tetralogia; nei primi tre dialoghi di questa Tetralogia Socrate, che ne è protagonista, è in qualche modo identificabile con il Socrate storico. Il quarto è il Fedone e appartiene già a un’altra fase del pensiero platonico. Eutifrone – o dialogo sulla santità – ci presenta Socrate mentre si reca in tribunale per prendere atto dell’accusa, portatagli da Meleto, di corruzione dei giovani e creazione di nuovi dei. Eutifrone che in tribunale si sta recando per accusare il proprio padre di omicidio afferma di saper distinguere perfettamente cosa sia la santità e cosa invece il suo contrario. L’interrogatorio di Socrate è stringente ed Eutifrone è costretto a una serie di ammissioni via via confutate da Socrate. Afferma dapprima che la santità consiste nell’imitare il comportamento di Zeus verso il padre Crono e di quest’ultimo verso Urano; Socrate però obietta sul fatto se esistano davvero le inimicizie tra le divinità. Eutifrone afferma quindi che è santo ciò che è caro agli dei. Ma allora – dice Socrate – esistono davvero le inimicizie tra le divinità? e ancora: è santo ciò che piace agli dei o piace agli dei ciò che è santo? Socrate non esita quindi a prendere in mano le redini del discorso: il “santo” è parte del “giusto” pur tuttavia non tutto ciò che è “giusto” è anche “santo”. Il problema è quindi individuare quale parte del giusto sia santa e questo concetto risulta difficilmente riducibile a nozione certa. Eutifrone, per il quale il metodo maieutico risulta poco digeribile – e Socrate pare volerlo a un certo punto dileggiare – quando si vede ricondotto al punto di partenza decide prudentemente di battere in ritirata e il dialogo si chiude.
Dall’incipit del libro:
Eutifrone, un indovino del demo di Prospalta appartenente alla tribù Acamantide, incontra Socrate in un luogo che non era abituale al filosofo, vale a dire presso il Portico del re, residenza del secondo arconte, nella cui competenza rientravano i processi concernenti la religione, e gliene chiede, sorpreso, il motivo. Socrate gli risponde di trovarsi colà per essere stato chiamato in giudizio da un giovane ignoto, un tale Meleto, come corruttore della gioventù. Eutifrone, indignato, teme che Meleto, accusando un uomo onesto qual è Socrate, faccia opera oltremodo nociva allo Stato; e richiesto a sua volta da Socrate, se anch’egli non si trovi lì per una ragione analoga, gli dichiara d’esserci andato per presentare all’arconte una querela contro il proprio padre, colpevole d’aver cagionato, sia pure involontariamente, la morte d’un colono di lui, Eutifrone, che ubriaco aveva commesso un omicidio. Di questo proposito dell’indovino, così ripugnante al sentimento comune, Socrate si meraviglia molto, parendogli che Eutifrone presuma troppo della sua scienza delle cose divine, e confidi eccessivamente nel proprio giudizio su ciò che è santo e non santo. Ma Eutifrone lo rassicura. In questo campo, la sua scienza è tale da non temere confronti. Sicché Socrate, che si trova colpito da un’accusa d’empietà, ne conclude che il meglio per sé è d’imparare da lui, perché potrà così difendersi vittoriosamente dagli attacchi di Meleto. E gli chiede perciò di volergli definire che cosa sia santo o pio e che cosa non santo o empio (I-V).
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