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Pubblicata la prima volta in volume nel 1913, inaugurando la collana Treves Vite di uomini illustri e di uomini oscuri – collana che non ebbe però alcun seguito – il testo era stato composto però sul finire del 1905, quando il D’Annunzio aveva intrapreso la via del “falso-antico” con la Francesca da Rimini e le prime Laudi. La prima pubblicazione avviene in tre puntate precedute da un breve Proemio sul bimensile “Rinascimento” – fondato a Tom Antongini ma con una spiccata ed evidente impronta dannunziana – tra il dicembre 1905 e il gennaio 1906. Dell’intenzione di dedicarsi a quest’opera da parte di D’Annunzio parla già Silvio Benco nel 1902 sull’“Indipendente”.
A parte i primi due capitoli, si tratta di una trascrizione, sunto, ampliamento, ammodernamento della anonima Cronica trecentesca attribuita oggi con solidità di argomenti a Bartolomeo Iacovo di Valmontone; Cronica che D’Annunzio poté leggere in un rifacimento ottocentesco a cura di Zefirino Re; “ridotta a miglior lezione” perché quella anonima del XIV secolo precedeva la scelta del fiorentino come lingua nazionale e indulgeva a particolarità linguistiche marcatamente laziali solo parzialmente emendate da Lodovico Antonio Muratori che ne fece la trascrizione forse più fedele nel 1740 inserendo la Cronica, col titolo Fragmenta romanae historiae nelle Antiquitates Italicae Medii Aevi. Per chi volesse approfondire le vicende dei rifacimenti successivi della Cronica si rimanda all’edizione critica del 1979 curata da Giuseppe Porta.
Certamente il D’Annunzio fu colpito linguisticamente da questo piccolo capolavoro trecentesco – la forza espressiva dell’antico romanesco non è del tutto scomparsa neppure nell’arbitrario rifacimento di Zefirino Re – , ma non mancò di scorgerne le implicazioni ideologiche che ne facevano utile strumento per il perseguimento del suo ideale di “nuovo Rinascimento” al quale assoggetta in pratica ogni sua opera. E, per inciso, va detto che alcune “aggiunte” e libere modifiche rispetto al testo della Cronica sono indicative di quale piega stava prendendo un certo modo di intendere questa idea di Nuovo Rinascimento. Ad esempio nell’epilogo dell’opera, descrivendo la fine disastrosa del Tribuno il cui cadavere viene straziato dalla plebe romana, si legge: “dato alla rabbia [il cadavere] dei giudei sozzi che l’ardessero”; quel “sozzi” è un ampliamento dannunziano rispetto al testo di cui si fa trascrittore. Dopo i primi tre libri delle Laudi nei quali abbiamo il recupero del passato augusteo e le 48 quartine del Bronzo, i quattro sonetti A Roma e infine Merope che, come dichiara l’autore è “tutto dedicato alla figurazione e alla celebrazione del Lazio”, ecco che la Vita di Cola di Rienzo trova la sua collocazione nell’opera dannunziana, dove la ferocia delle lotte comunali, le congiure, la tirannide e i delitti non sono preludio a secoli bui ma anticipazioni del progresso.
Il “mondo caldo di natività urgenti” apre la strada a “quel tirannico spirito” annunciante “l’avvento delle volontà singolari, l’esaltazione della virtù soverchiatrice, l’amore effrenato del predominio e della gloria.” Questi sono infatti i concetti di apertura dell’opera e che, ovviamente, non hanno alcun riscontro nella Cronica trecentesca. D’altra parte il canovaccio all’interno del quale decide di muoversi D’Annunzio è chiaro. All’inizio del Capitolo XXIV si legge: “Certo è bensì, che il dettatore né sapeva vincere né sapeva usare la vittoria.” Come non ricordare a questo punto il noto articolo del D’Annunzio pubblicato su “la Gazzetta del Popolo” del 20 gennaio 1922 intitolato proprio Non sai usare della vittoria e diretto soprattutto agli Stati Uniti, ma che si innesta sul discorso intrapreso dopo la guerra imperniato sul concetto di “vittoria mutilata”. Per questo non è difficile scorgere in questa biografia di Cola di Rienzo una gran parte degli elementi del pensiero conduttore che ha segnato il percorso non solo letterario ma di vita e di azione di D’Annunzio.
Il proemio – che è del 1912 e scritto appositamente per l’edizione in volume, ben diverso da quello molto più breve della prima edizione su “Rinascimento” – è dedicato ad Annibale Tenneroni, bibliotecario in grado di procurare i libri rari che vanno a supporto della scrittura “falso-antica” – mi riferisco soprattutto alle Laudi – oltre che promotore della pubblicazione delle suddette poesie in periodici romani. Ma in quegli anni che precedono la prima edizione della Vita di Cola di Rienzo il Tenneroni è anche impegnato a limitare i danni derivati dalle vicissitudini di vita del D’Annunzio e in particolare dal fatto che i volumi preziosi della sua biblioteca personale erano finiti sotto sequestro. E il Proemio è infatti finalizzato soprattutto a perorare la causa dei suoi libri che i creditori vorrebbero vendere.
Gran parte della critica non fu certamente tenera verso quest’opera del D’Annunzio. Piero Gibellini scrisse che la riproposizione della vita di Cola di Rienzo avveniva “sciupandola però con un neopurismo di maniera antiquaria (produsse, come spesso capita, un falso antico), rivestendo il tribuno coi panni dello psicologismo patologico di certi suoi personaggi”. Aggiunge però in scritti successivi il Gibellini che “la vita di Cola di Rienzo rappresenta una tappa importante nella carriera intellettuale di D’Annunzio: una prova del suo utopico programma linguistico e delle sue discutibili idee politiche, ma anche un segno dell’intuitivo talento critico di lettore-scrittore e delle sue singolari capacità di sperimentazione linguistica”. Riporto questa opinione perché mi pare quella che, più equilibrata, meglio rispecchia i pregi e le ragioni per le quali la lettura di questo testo è tutt’oggi utile, senza tuttavia tralasciare le motivazioni di inevitabile presa di distanza. Altri critici, come Antonio Borgese o Renato Serra furono invece solo molto severi senza riuscire a cogliere nelle varie sfaccettature gli elementi di interesse che si racchiudono tuttavia in quest’opera. Numerose le riedizioni successive, tra le quali segnalo quella di Mondadori digitale in occasione del centocinquantenario della nascita dell’autore, il 2013, che riprende quella dei Meridiani corredata dalle interessanti note di Annamaria Andreoli.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
L’uomo comunale viveva incorporato alla sua famiglia alla sua consorteria alla sua maestranza alla sua parte, in quella guisa che la figura sbozzata di basso rilievo aderisce alla vena del sasso, resta prigione della forza compatta onde nasce. Ma già l’acerrima arte dantesca aveva scolpito figure di tutto tondo, girato grandi ossature umane in attitudini di sdegno solitario, staccato d’ogni banda e fissato in piedestallo la prestanza dell’Eretico disceso da Catilina; ed esso l’artiere grifagno dalla gota macra aveva anco gittato di bronzi, nel più tristo fuoco delle passioni civiche, la sua propria statua e sollevàtala di contro alla Città e al Fato, visibile per sempre sul folto dei secoli come le torri di Dite rosse nella notte infernale.
Il Poema per lui composto era il più duro atto di volontà che compiere si potesse in terra da un eroe rimasto solo con gli Elementi e con i suoi Pensieri. Le due mani della creatura terrestre fatta a imagine della Divina Mente non avevano mai operato nel tempo medesimo un prodigio duplice con tal fermezza. Come il venerando restauratore dell’Impero occidentale e liberator della Chiesa, l’alunno di Vergilio reggeva nell’una mano un mondo chiuso e crociato ma nell’altra non la verga dell’oro, sì bene la chiave protesa ad aprir la porta di un mondo caldo di natività urgenti. Quel tirannico spirito, cui fu bello aversi fatta parte per sé stesso, annunciava l’avvento delle volontà singolari, l’esaltazione della virtù soverchiatrice, l’amore effrenato del predominio e della gloria. Come quel suo magnanimo Uberti dalla cintola in su fuor dell’avello roggio, così dalla fornace scoperchiata degli odii cittadini cominciavano a drizzarsi col petto e con la fronte i dominatori.
Scarica gratis: La vita di Cola di Rienzo di Gabriele D’Annunzio.