Questo romanzo del 1922 racconta, tra episodi e vendette paesane, la figura di un impetuoso repubblicano puro sangue («Dovendo discutere di politica, in Romagna non è mai male disporre di buoni muscoli»), i cui avversari non sono più i clericali della precedente opera letteraria “Uomini rossi“, ma i socialisti delle leghe operaie che insidiano nelle campagne l’istituto della mezzadria. Ebbe un insolito seguito nel 1924 con Le lettere del Cavalier Mostardo.

Dall’incipit del libro:

Pochi eran rimasti della vecchia coorte. I più anziani avevano finito di banchettare e se n’eran iti alla morte, al riposo. Chiuso il libro del dare e dell’avere come privati, se non come uomini di caldo avvenire, avevano compiuta la traiettoria rapidamente, da quei bravi che si eran dimostrati nel mondo, secondo le dottrine loro. Non troppe smorfie e meno indugi. Morire bisognava; dunque fosse rapida la morte e tranquilli coloro ai quali restavano altri anni da vivere nel bel mondo armonioso. Dal più al meno erano stati sodisfatti nel loro legittimo desiderio.
Bortolo Sangiovese se n’era andato una sera, dopo aver bevuto e mangiato a gozzoviglia. Ebbe un primo avviso in casa di amici; avvertì che un ingranaggio non agiva; notò la cosa ridendo ma rise di traverso. La bocca non gli tornò a posto. Si era fermata in una smorfia quasi tragica.
Gli domandarono:
– Che cosa avete?
Rispose:
– Ho… ho… credo di aver finito!…
E aveva ragione. Gli amici attesero, un po’ sconcertati; ma era festa e si beveva. Continuarono a bere. Solo le donne ebbero paura.
– E se muore qui?
– Ma non muore! Ha la pelle dura!
Dissero questo ma vedevano che dentro gli occhi del vecchio celibe c’era un’ombra nuova e il riso di lui incominciava ad essere tetro. Mezza la faccia era già da spavento, per le donne. Allora decisero di condurlo via.

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