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Perché si scrive? Si scrive per liberarsi secondo David Foster Wallace: liberarsi di sé, liberarsi da sé stessi. Mi riferisco al suo libro “Questa è l’acqua”. Quindi ancora una volta scrittura come autoterapia. Se si ha riscontro, si scrive per piacere agli altri. Per Wallace la scrittura è come la masturbazione e quindi inizialmente è atto solitario: c’è quindi dell’esibizionismo in ogni poeta o scrittore riconosciuto. Ma ci sono stati scrittori, iniziando da Virgilio per arrivare a Kafka, che volevano che venissero bruciate le loro opere. Come ci ricorda però il cantautore Leano Morelli: “Non si bruciano i pensieri”, neanche se non sono memorabili.
Nella scrittura non deve mai mancare il divertimento, scrive Wallace. Il carattere ludico della scrittura è ineludibile. Si tradisce il senso originario della scrittura se ci dimentichiamo il divertimento, poiché scrivere significa scoprire e ogni piccola scoperta è una sorpresa.
Rilke in “Lettera a un giovane poeta” scrive che al di là dei pareri dei letterati la risposta se devi scrivere o meno la devi cercare dentro di te. Il parere degli altri deve contare, ma contano prima di tutto la passione, la motivazione, la determinazione dell’autore. C’è tutta una scuola di pensiero che rivendica l’indipendenza dello scrittore da qualsiasi cosa e da qualsiasi persona. La scrittura quindi come atto di libertà assoluta. Ma ci sono sempre le inibizioni, l’autocensura, i modelli di riferimento, la tradizione che riducono la libertà d’azione.
Uno scrittore che si rispetti non dovrebbe abbassare troppo la sua qualità, né la sua intellettualità per piacere agli altri. Uno non può accettare questo compromesso tutto interiore, pensando di scrivere ciò che piace alla gente: uno scrittore deve essere sé stesso e non deve snaturarsi. Poi scrivere pensando a quello che alla gente piace non significa indovinarci sempre: non ci riescono neanche i più raffinati sociologi della letteratura! Un autore deve venire incontro al lettore, però evitando intellettualismi inutili. Scrive Libero Bovio: “Come è facile scrivere difficile, e come è difficile scrivere facile!”. Per piacere agli altri bisogna entrare in sintonia con gli altri. Ci vuole “telepatia” tra autore e lettore: questa è la condizione ideale per Wallace, ma uno scrittore non deve mai piegarsi alle mode del momento; deve essere sé stesso e non deve mai venire a patti con nessuno. È anche questione di fortuna intercettare i gusti del pubblico. Fortunati quegli scrittori che sono italiani medi (nel senso che hanno una mentalità comune) con il dono della parola perché loro è il successo e loro è il futuro. I migliori autori di bestseller non studiano i loro libri a tavolino. Non credete che ogni bestseller sia frutto solo di ricerche di marketing. Spesso non c’è niente di artefatto, di calcolato. Piacciono alla gente perché fanno parte della gente e sono la gente Fabio Volo, Massimo Bisotti o Gio Evan. Gli autori di successo sono persone comuni con la giusta dose di furbizia, intelligenza, talento. Non sottovalutateli, dicendo che chiunque può scrivere come loro perché è una menzogna dettata dall’invidia. Non sopravvalutateli, considerandoli dei maestri di pensiero o dei geni, poiché questa è una falsa rappresentazione dovuta alla vostra identificazione. Gli intellettuali che dicono che scrivere un bestseller è facile, ci provino, magari sotto pseudonimo per non infangarsi la reputazione. Si può sostenere legittimamente che molti bestseller non sono letteratura, ma non che sia facile scrivere bestseller. Si può anche avere successo esprimendo il proprio dolore, il proprio disagio perché anche questo è quello che vuole il pubblico: il pubblico ama chi si denuda totalmente per una pornografia del corpo e anche dell’animo. Ci sono comunque sostanzialmente quattro categorie di scriventi a mio modesto avviso: coloro che scrivono prioritariamente per soldi, coloro che scrivono prioritariamente per cuccare, coloro che scrivono prioritariamente per trascendere la morte e coloro che scrivono prioritariamente per pura passione. La dignità letteraria comunque in un autore rispettabile non deve mai venire meno. La scrittura è a ogni modo conservazione del passato e del presente per una futura memoria, è immaginarsi il futuro. La scrittura è conoscenza di sé e del mondo. La scrittura è immersione nel profondo ed emersione da esso. La scrittura è biofila, perché significa lasciare una traccia di sé, male che vada solo ai propri cari. La scrittura inizia sempre con l’express your self (e in molti casi resta tale) per esprimere l’inconscio collettivo, rappresentare il mondo, raggiungere le vette dello spirito nei casi migliori. La scrittura non è inutile o deleteria. Un tempo si diceva che l’ufficio fa l’uomo e questo è vero anche per l’officina, lo studio, etc etc. Il lavoro nobilita l’uomo, ma lo può anche logorare, snervare e talvolta abbruttire. La scrittura può nobilitare nella maggioranza dei casi, perché il piacere di scrivere è molto più forte della fatica di scrivere, a meno che non si ripongano ambizioni sbagliate e pretese eccessive appunto nella scrittura. La scrittura a livello cognitivo e razionale è un modo di vedere chiaro dentro di sé e di spiegare a sé stessi l’assurdità del mondo. La scrittura è anche presa di coscienza; è anche razionalizzazione e non a caso per Freud la razionalizzazione è un meccanismo di difesa dell’io (per Kernberg è un meccanismo di difesa di alto livello). Ma scrivere è tirar fuori anche il lato oscuro, la parte irrazionale, l’assurdo che albergano in noi è nel mondo.
Scrive Mark Twain: “Ogni persona è una luna e ha un lato oscuro che non mostra mai a nessuno”. Negli intellettuali predomina la razionalizzazione. Nei folli domina solo il lato oscuro. I geni riescono a mostrare sia il razionale che l’irrazionale, sia il logico che l’illogico e a coniugarli insieme. Per riuscirci devono disinibire la loro follia, ma devono anche integrarla e dominarla con la lucidità.
La scrittura può alleviare le sofferenze e rendere la vita più godibile, ma è chiedere troppo che possa essere salvifica, sia in senso terreno che ultraterreno. Dire la scrittura “mi ha salvato la vita” è un’ipocrisia sociale per far sapere quanto sia importante scrivere e una falsità nei confronti di sé stessi: significa che non attendevamo altro che farci salvare da qualunque cosa, che avesse una parvenza di vita e che sembrava prometterci qualcosa di buono. E se è vero che scrivere in alcuni attiva l’istinto di conservazione, altri aspiranti scrittori si autodistruggono sperando di diventare famosi una volta morti giovani, perché la scrittura talvolta seduce e illude, ammalia e travia. Conclude S.King in “On writing”: “Scrivere non mi ha salvato la vita […] ma ha continuato a fare quello che aveva sempre fatto: rendere la mia esistenza un luogo più luminoso e più piacevole.”