Chi si ricorda di Renata Viganò? Nata a Bologna il 17 giugno 1900, vi morì il 23 aprile 1976; fu scrittrice precoce. Quando aveva 13 anni pubblicò «Ginestra in fiore», una raccolta di poesie e nel 1916 «Piccola fiamma». I suoi studi, per ragioni economiche, si fermarono al liceo ela Viganò si impiegò come infermiera negli ospedali della sua città, non mancando però di coltivare la sua passione per la letteratura. Collaborò a molti giornali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, militò nella Resistenza come staffetta e infermiera (è lei la «Contessa» alla quale Agnese porterà uno dei suoi messaggi) e da questa esperienza trasse lo spunto per il romanzo di cui ci occuperemo, che nello stesso anno vinse il premio Viareggio. Dal libro fu tratto un film dal titolo omonimo, con la regia di Giuliano Montaldo.
Altri suoi libri dedicati alla Resistenza furono «Donne della Resistenza» del 1955 e «Matrimonio in brigata» del 1976.
Siamo all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943. L’Agnese è una lavandaia e un giorno che ritorna a casa trainando la carriola piena dei panni lavati, incontra un giovane soldato e lo conduce a casa sua, dove l’attende il marito Palita, per sfamarlo. Ma i tedeschi stanno cercando i disertori: «tutti quelli che hanno fatto festa il 25 luglio li porteranno in Germania.» Tenere in casa il giovane è un rischio. Viene a dirglielo la Minghina che abita lì accanto. «In casa mia tengo chi voglio.» è la sua risposta.
Così Agnese vede i tedeschi quando arrivano nella sua corte e scendono in fretta dal camion: «L’aia, la campagna, il mondo furono guastati dai loro aspetti meccanici disumani, pelle, ciglia capelli quasi tutti di un solo colore sbiadito, e occhi stretti, crudeli, opachi come di vetro sporco. I mitra sembravano parte di essi, della loro stessa sostanza viva.» Essi portano dietro di sé la morte, anzi sono la morte. Gli occhi di Agnese li trasfigurano. Non trovando il giovane soldato, che intanto era andato a nascondersi, si portano via Palita, il marito: «Palita non torna. Palita muore. Palita è morto.» Non si rimprovera, tuttavia, di avere dato ospitalità al soldato «che cercava la via di casa»; «era giusto dargli da mangiare e da dormire.»
La scrittura asciutta, netta ha disegnato uno dei risvolti più crudeli succedutisi dopo l’armistizio: i rastrellamenti e le rappresaglie che percossero quella parte dell’Italia ancora non liberata dagli Alleati, seminando morte e disperazione laddove si era nutrito un barlume di speranza: «Sull’argine passò un gruppo di uomini, circondati e spinti avanti dai tedeschi; dietro venivano delle donne piangenti, e pregavano e imprecavano.» L’armistizio, che aveva illuso molti sulla fine della guerra, segnò invece uno dei periodi più tragici per le popolazioni civili. Durò poco più di un anno, ma bastò a spargere il terrore dappertutto.
È il periodo in cui la Resistenzapaga il suo scotto più sanguinoso. I tedeschi, pur di sorprendere i partigiani, mettono a ferro e a fuoco molti paesi, spesso con la complicità delle spie. Si muore nella speranza che dal sacrificio possa rinascere la libertà. Agnese si fa partigiana. Vengono tre uomini a trovarla e le rivelano che Palita era uno di loro e che forse sono state la moglie e le figlie di Augusto Minghina a fare la spia. Agnese si offre di sostituire il marito perché: «Palita non ritornerà.»
Il romanzo esce nel 1949, aquattro anni dalla fine della guerra. Si avverte che il ricordo è ancora vivido, così i sentimenti. Sulla scrittura, la malinconia effonde un delicato lirismo, frutto di una esperienza tragica, ma sentita e corale: «Piangeva. La gatta nera dormiva ai piedi del letto dalla parte di Palita, e lei dormiva poco e piangeva. Al mattino ricominciava a pensare le altre cose della vita, una dura vita tra il pericolo e la fatica, per lei quasi vecchia, sola.»
È così che, quando ne è richiesta, Agnese inizia il suo lavoro di staffetta: «Al mattino presto si mise le scarpe, il paltò da inverno che la faceva ancora più grossa, e infilò la sporta piena nel manubrio della bicicletta. Partì ondeggiando paurosamente sul terreno gelato.»; «Si avventurò traballando sulla passerella, e prese la bicicletta in spalla. A metà credette di cadere nel fiume, le assi oscillavano, e la corrente rapida sotto di lei le faceva girare la testa. Riuscì a star dritta, a raggiungere la riva; trascinò ancora la bicicletta su per la salita dura dell’argine, poi giù dall’altra parte.» Nella sporta ha delle saponette di esplosivo. Se si pensi che questa storia non nasce dalla fantasia ma da un’esperienza di vita vissuta, noi avvampiamo di ammirazione e di stima. Agnese, dai «piedi larghi e piatti»; «larga, pesante»; «piuttosto ruvida e scontrosa.», riassume in sé la parte migliore della Resistenza, quella altruista, di completa dedizione, incurante dei pericoli, pronta al sacrificio. Su quel ponte traballante ci siamo anche noi. Il paesaggio che si muove intorno a lei è di crudeltà e di sacrificio. Non di rado incontra tedeschi e fascisti con le armi in pugno che hanno ucciso e impiccato. Quando si tratta di partigiani, un cartello appeso al collo ne porta la scritta come una condanna che deve servire da intimidazione e monito.
Il romanzo è ispirato da un forte desiderio di testimonianza, in cui la figura del singolo travalica i confini della individualità per divenire parte integrante della storia di quegli anni. La Viganòscrive un’opera di valore anche letterario nel momento in cui la voce della sua storia individuale entra nella coralità di un momento fondamentale della vita democratica del nostro Paese. Fenoglio, Vittorini, Benedetti, Petroni, Tobino, per fare i primi nomi, formano con la Viganòuna sola voce e recano una testimonianza che grazie al loro insieme diventa omogenea nell’ispirazione e corale. È la forza di questo libro: la sua appartenenza alla Storia ne fa una testimonianza di valore universale, come è accaduto ad altri libri quali: il «Diario di Anna Frank», uscito nel 1947; «Se questo è un uomo» di Primo Levi, uscito per l’editore De Silva sempre nel 1947 (pensate: fu rifiutato da Einaudi, che poi comprò i diritti, visto il successo, e lo pubblicò nel 1958) e «Dal liceo ad Auschwitz- Lettere di Louise Jacobson», uscito nel 1989. Ma anche i diari di Noëmi Szac-Wajnkranc e di Leon Weliczker, pubblicati in Italia nel 1962 dall’editore Lerici con il titolo: «I diari del ghetto».
La donna che dal treno che la porterà in Germania mostra la sua bambina morta e chiede invano ai soldati della stazione che sia seppellita, è il simbolo doloroso e impotente di una efferatezza bestiale che si è impossessata dell’uomo fino a ridurlo alla follia. Spinge il corpo della sua bambina fuori del finestrino, «poi lo lasciò andare, e sentimmo il colpo che fece sul marciapiede, e i tedeschi che gridavano. La donna cascò giù su quelli che stavano sotto, la tenevano stretta perché voleva sbattere la testa contro lo sportello, e si strappava i capelli e i vestiti. Finalmente si mise ferma, e sembrò morta anche lei.»
Veniamo a sapere tutto di questo treno della morte – uno dei tanti – dal racconto che «il figlio di Cencio», miracolosamente fuggito, fa ad Agnese, dalla quale è andato per rivelarle che il marito Palita è morto di stenti: «A un certo punto la gente cominciò a morire. […] Trovammo morta per prima la madre della bambina: s’era impiccata con il suo fazzoletto da testa».
Da quel momento Palita comparirà spesso nei suoi sogni, confortando il suo lavoro di partigiana.
Sono quadri che non chiedono lacrime, ma suscitano solo orrore. È il pregio di una tale scrittura: essa rende muta la sofferenza ed innalza a spettro la follia dell’uomo.
Un ritratto preciso dell’ipocrisia e della viltà umane, si trova all’inizio del capitolo IV allorché l’autrice disegna i miliziani fascisti che mettono fuori le unghie solo contro i deboli e quando sono assenti i tedeschi. Vogliono provare a se stessi che contano qualcosa, mentre nella vita normale non valgono niente.
A contrasto troviamo la descrizione di una delle riunioni dei partigiani, riunioni dimesse e clandestine: «Tutti sedevano attorno alla tavola come se giocassero a briscola, e avevano infatti davanti le carte, e il bicchiere pieno. Parlavano a lungo, senza fermarsi mai. L’Agnese non riusciva a tener dietro ai loro discorsi. Si sedeva in disparte, con la calza in mano».
I tedeschi sono inferociti giacché intuiscono la sconfitta e hanno paura di tutto. «L’Agnese capiva bene quella paura. E sorrideva.»
Il romanzo è costruito dentro questa atmosfera di ferocia e di paura. È una tenaglia mortifera nella quale si muove la donna, senza temerne la stretta, fasciata da una invulnerabilità che le si è impressa sulla pelle in forza della sua audacia e del suo sentimento di bene operare. Ci vogliono nervi saldi per rimanere lucidi nell’esasperante attesa dell’arrivo degli Alleati: «Le notizie erano sempre le stesse: «Continua la vittoriosa avanzata delle nostre truppe. Su tutto il fronte scontri di pattuglie», e voleva dire che non avevano fatto niente. «Gli scali ferroviari di X […] martellati», e voleva dire che gli aerei avevano distrutta una mezza città.» L’Agnese fa perfino fatica a dormire «per il disagio di star distesa, così grossa, sul sottile strato di paglia.» Agnese non ha nulla dell’eroina, ha sentimenti semplici, è silenziosa, quando non le è richiesto un lavoro, sta in disparte. Anche quando si celebra il matrimonio di notte tra Tom e Rina, nessuno riesce a vederla. Si chiedono se è presente: «Sono qui, rispose lei. Era una grossa cosa bruna, confusa coll’ombra. Per fare onore agli sposi, s’era tolta la vestaglia e aveva indossato il suo logoro vecchio vestito di casa.»
Nella Resistenza operano anche uomini e donne la cui forte personalità e le grandi qualità strategiche e di comando erano ignote nella loro vita civile. Sono sgorgate nel momento del bisogno. Il comandante del gruppo partigiano che opera nella zona dell’Agnese era «piccolo, scarno, coi capelli biondi e grigi.» La donna stentava a credere che in lui si nascondesse tanta energia e tanta risolutezza. Dava gli ordini ai suoi uomini con una tale lucidità e una tale calma, pur in mezzo all’imminente arrivo dei tedeschi, da meravigliare Agnese. Anche Walter aveva mostrato coraggio e volontà, pur «così piccolo di statura, apparentemente inadatto, inadeguato, e invece tanto forte e onesto e bravo, col suo viso da bambino e i capelli quasi grigi.»
La portano con sé, dopo che ha ucciso un soldato tedesco e per rappresaglia le hanno bruciato la casa e ucciso quattro persone. Il comandante la chiama mamma Agnese. Si sono rifugiati nei canneti delle Valli di Comacchio, descritte in modo mirabile nel primo capitolo della seconda parte. Dormono dentro casupole fatte di canne, martoriati dalle zanzare: «si sentiva il mormorio delle zanzare, e lo sbattere delle mani nei movimenti istintivi per schiacciarle.» Agnese si rende utile, fa loro da mangiare, accudisce il rifugio. Agisce umilmente, sottomessa: dopo aver servito tutti: «prese la sua minestra, si sedette sulla legna, in disparte, e cominciò a mangiare adagio, guardando nel piatto.»
La Viganòci fa vivere dal di dentro la vita partigiana, attraverso questa donna che è vissuta davvero; non è frutto di fantasia, come ci spiega in appendice. Gli uomini sono liberati dal mito e dall’eroismo, e presentati come individui prigionieri di una necessità: «E loro stavano soli, slegati dal mondo come prigionieri.»; «Verso sera cantavano, con voce bassa, perché nessuno li sentisse, e il canto sembrasse poco più del fruscio delle canne, un po’ di vento più forte in mezzo alla valle.»
Spesso devono abbandonare il loro rifugio per l’arrivo dei tedeschi. Così descrive una loro incursione l’autrice, con stile assai efficace: «Un figura bruna comparve sull’argine, un’altra, un’altra, tante. Tanti soldati tedeschi sull’argine. Si vedevano neri contro il cielo meno nero, si riconosceva la forma degli elmetti, il gesto del braccio che teneva il fucile.» Solo chi ha visto queste cose, come è accaduto all’autrice, può descriverle con una tale attenzione ai particolari.
La casa dove Agnese si rifugia dopo essere scampata all’incendio del canneto viene bombardata dagli Alleati: «passarono gli aerei alleati, sopra, al ritorno dal bombardamento, e avevano qualche bomba rimasta.» Sono le folli distorsioni prodotte dalla guerra. La casa era isolata, non costituiva un obiettivo militare. La si bombarda per gioco, per provare la mira («Scommetto che ci prendo in quella casa là»).
Agnese non si lamenta mai, quando può semina ottimismo; è diventata «la responsabile» di un gruppo di staffette; è infaticabile, anche se è stanca: «Da quando lavorava tanto, il cuore le dava noia, faceva fatica a mettersi in sella.»
I partigiani non abbandonano i compagni fatti prigionieri; se vi è una qualche possibilità fanno di tutto per liberarli, come nel caso di Walter e compagni che, presi prigionieri dalla brigata nera, sono picchiati a sangue e torturati. Walter ha i piedi rotti quando giungono i partigiani, i quali non perdonano i soldati fascisti e con una raffica di mitra li falcidiano dentro la loro caserma. Non mancano altre imprese che mostrano un tale risoluto coraggio, come quella di collocare il comando della brigata partigiana in una casa in cui è stanziata anche «una compagnia tedesca di sussistenza.»
Si pensa – siamo nell’inverno del 1944 – che gli Alleati, salendo la penisola, arrivino anche da loro e liberino le città. Non si bada ai rischi e ai sacrifici. Non sempre tutto va liscio: perfino gli Alleati ci si mettono a complicare le cose, come la volta che arrivò un messaggio del generale Alexander con cui si comunicava che quell’inverno gli Alleati non si sarebbero mossi fino alla primavera e che i partigiani sciogliessero pure le loro formazioni per poter tornare a casa. Sarete chiamati in primavera, diceva il messaggio. Ma chi poteva tornare a casa, ricercati com’erano dai nazifascisti? E i partigiani stranieri, come avrebbero potuto tornare a casa? Certe volte si sentivano soli, abbandonati, e che il peso di quella guerra gravava troppo sulle loro deboli spalle: «Ci piantano così, adesso che comincia la cattiva stagione. Ci hanno dato da bere tante «balle». Siamo stati proprio degli stupidi a rischiare la vita per far comodo a loro.» Il morale scende e ci vogliono uomini come il Comandante a imprimere coraggio: «Faremo da noi.», non esita a dire. E Agnese, mentre distribuiva loro la minestra: «Io non capisco niente, ma quello che c’è da fare, si fa.» E lo faceva: «era una brutta vita. Aveva preso molta acqua, in tutto il giorno. Non arrivava in tempo ad asciugarsi i vestiti, lo scialle, che già era ora di ripartire. I piedi li aveva sempre bagnati: anche adesso doveva portare le ciabatte, con le scarpe si stancava troppo.» Non si tirava mai indietro: «Se c’è bisogno, ci vengo.», diceva. Manca poco che la prendono i tedeschi, ed è Clinto che la libera con una raffica del suo sten. Altri invece non ce la fanno più a resistere a quella dura vita, come accade a Tonitti, che si getta fuori da una finestra: «Quelli che non ne potevano più volevano morire.»
Sono aspetti della vita partigiana che spesso restano in ombra lasciando il posto al lato più eroico, appariscente e mitico di quell’impresa: «I tedeschi non sapevano che fra quegli uomini e quelle donne, in giro fra la neve, molti, quasi tutti, erano partigiani. Staffette inviate con un ordine nascosto nelle scarpe, dirigenti che andavano alle riunioni nelle stalle dei contadini, capi che preparavano l’azione dove nessuno l’aspettava. La forza della resistenza era questa: essere dappertutto, camminare in mezzo ai nemici, nascondersi nelle figure più scialbe e pacifiche.» Ma a molti, i quali ebbero la fortuna di non morire, costò una prova di nervi non indifferente, una resistenza contro la paura e la fatica che pesò su di loro più della morte. Quest’ultima rappresentò in molti casi una liberazione anzitempo; chi restò misurò invece tutta l’arditezza di una volontà continuamente scossa dalla fatica di vivere. I quattro tedeschi, «giovani, biondi, ragazzi dell’ultima leva.», che avevano disertato e si erano uniti ai partigiani, ora cercano di fuggire anche da loro; si portano dietro «quattro mitra e due sten», vengono presi e fucilati. «Chi resterà vivo dopo questa guerra?», si domanda l’Agnese. Arriva a pensare che il suo Comandante sia cattivo, perché non si commuove di fronte alla morte: «Fa un sorriso, e chi è morto è morto.» Ma la sua freddezza è necessaria. Quando gli Alleati non ascoltano i suoi messaggi in cui li invita a non bombardare la zona occupata dai partigiani, alcuni dei quali sono colpiti e moriranno, ad un certo punto, recuperati quattro loro aviatori paracadutati dall’aereo in fiamme, ne rimanda oltre le linee uno solo, lasciandogli questo messaggio per i suoi superiori: «Al primo mitragliamento di barche nella valle, io fucilo, ha capito? Lo dica pure, fucilo i tre ufficiali che rimangono qui -. Finalmente gli apparecchi smisero di tirare sulle barche.» Sono incidenti che accadevano spesso; gli Alleati mitragliavano nonostante che sapessero che erano zone occupate dai soli partigiani. L’autrice fa intendere che qualcuno lo faceva intenzionalmente.
Il canneto coi suoi canali è il grande protagonista del romanzo. Lo scivolio continuo delle barche, caricate quando di armi quando di cibo, sulle sue acque, la nebbia che fa da muro ai movimenti, il ghiaccio dell’inverno che ostacola la navigazione, accompagnano il sentimento del coraggio e delle difficoltà degli uomini della Resistenza. Allorché qualcuno non ce la fa, il Comandante non esita a mandarlo oltre le linee, per raggiungere gli Alleati: «Se tutto va bene, ci rivedremo «dopo». Verrete voi a liberarci insieme agli inglesi.» Il viaggio di costoro in mezzo alla neve e alla tormenta è rappresentato con parole ancora dense di commozione e con immagini di una apocalittica tragicità.
Qualche volta sui canali, nascosti dalla nebbia, s’incrociano le motobarche o le slitte tedesche. Si ode prima il rumore dei motori. Ci si deve appostare, prepararsi allo scontro. Da una parte e dall’altra qualcuno muore.
Muoiono anche i sentimenti, a volte. È il caso di Antonio, detto «La Disperata», il quale si fidanza con una contadina, ma questa, scoperto che è partigiano, lo lascia. I genitori non vogliono che lo frequenti, è pericoloso, e non lo vuole neppure lei. Così il giovane risale in bicicletta e se va «senza voltare la testa». Pensa a come è diversa l’Agnese, sempre pronta ad agire, umile, che ogni volta che si offre per qualche missione dice: «Questa cosa, quest’altra posso farla io se sono buona.» Ed erano «cose pericolose, rischiava la vita tutti i giorni, lei grassa, malata e quasi vecchia.» Allora il giovane partigiano chiude gli occhi e cerca «di immaginarsi come poteva essere l’Agnese da giovane.»
Agnese non sa ancora che tutti i suoi compagni sono caduti nella rete di un rastrellamento; non si contano i morti. Vengono ad avvertirla e il suo primo pensiero è quello di andare dagli scampati per aiutarli. È così umile e silenziosa che qualche volta, presi dalla fretta di sistemarsi, i compagni si dimenticano di lei: «Nessuno pensò che all’Agnese non rimaneva posto per dormire».
Il Comandante un giorno confida a Clinto: «Sai, mi pento di non averle detto quello che penso di lei. Non le ho mai dato molta soddisfazione. Farle capire almeno quanto ci ha servito, di che utilità vera è stata».
La sua è una dedizione totale, assoluta: «Quasi tutti i giorni l’Agnese andava via in bicicletta, con la sporta infilata nel manubrio: la bicicletta era vecchia, coi copertoni pieni di toppe. Spesso lei restava a terra in mezzo alla strada, e andava avanti a piedi, camminando per molti chilometri.» Tutti i partigiani sono diventati suoi figli. La chiamano mamma Agnese, ma solo lei li sente davvero come figli. Sono i portatori di una sofferenza che dovrà servire per un’Italia migliore: «voialtri tornerete a casa vostra. Potrete dirlo, quello che avete patito, e allora tutti ci penseranno prima di farne un’altra, di guerre.»
Di questa donna silenziosa resterà, per una fatale coincidenza, «un mucchio di stracci neri sulla neve.» Nemmeno sappiamo dove i suoi resti riposano.