Natalia Sanmartin Fenollera, Il risveglio della signorina Prim, traduzione di Gloria Cecchin, collana “Narratori”, Edizioni Ares, Milano 2025, pp. 280, € 20,00, EAN: 9788892985940

È tornato sugli scaffali delle librerie. Medesima la bella traduzione di Gloria Cecchin, diversa la scuderia: le Edizioni Ares sostituiscono, undici anni dopo, la Mondadori (2014).

Quando nel 2013 Planeta pubblicò Il risveglio della signorina Prim, romanzo d’esordio della giornalista economica Natalia Sanmartin Fenollera, fu subito un evento letterario. Seguirono ben presto le traduzioni (attualmente in undici lingue). Mondadori pubblicò una delle prime.

Non risulta semplicissimo catalogare questo scritto in un genere letterario. L’autrice ama definirlo una fiaba, di cui in effetti possiede il clima etereo, magico, fuori dai ritmi della nostra vita contemporanea. Ma sotto l’apparente semplicità si intuisce ben presto una pluralità di piani di lettura, la presenza di tematiche esistenziali e filosofiche non  secondarie, raffinati richiami letterari. Qualcuno l’ha definito “romanzo ibrido”. Un arguto commentatore ha parlato di «sorprendente oggetto letterario non identificato».

Prudencia Prim, trent’anni e un curriculum accademico di tutto rispetto, è donna dalla spiccata sensibilità e dalla vasta cultura, ma è anche vittima delle sue convinzioni e della rabbia verso un’epoca superficiale che sembra averle dimenticate. Un annuncio sul giornale contiene la promessa di una nuova vita: c’è un posto da bibliotecaria a Sant’Ireneo di Arnois, un incantevole paese in cui il tempo sembra sospeso e i cui abitanti hanno deciso di dichiarare guerra agli inganni della modernità. La signorina Prim viene così assunta per riordinare la biblioteca dell’«uomo dello scranno», un personaggio intelligente e colto; ad alcuni lettori è parso, pur nella sua esemplare correttezza, privo di empatia. Io lo direi piuttosto una guida saggia e inflessibile verso la verità. La giovane bibliotecaria, dopo lunghe e franche discussioni con il suo datore di lavoro, inizierà a scoprire il caratteristico stile di vita e i segreti di quella comunità, decisamente fuori dalle convenzioni.

Il paesino di Sant’Ireneo di Arnois potrebbe essere catalogato come un “non luogo”, fuori dal tempo, lontano dal rumore del mondo, rifugio di chi è alla ricerca dell’autenticità nei rapporti umani, del rapporto con la natura, dell’educazione alla cultura. In un’intervista l’autrice dichiarava: «Quando ho inventato Sant’Ireneo di Arnois, avevo in mente un luogo più o meno al nord della Francia; però non volevo identificarlo con un posto geografico ben preciso. Mi interessava scrivere un romanzo che fosse un omaggio alla tradizione europea, perciò ho collocato il paese nel cuore dell’Europa».

La Fenollera possiede una bella felicità narrativa, la sua sia una scrittura raffinata, per nulla ingenua, sorretta da un importante bagaglio culturale. Se talvolta si avverte la volontà autoriale di far emergere grandi verità, la sua capacità di immedesimarsi nel processo di chiarificazione esistenziale della protagonista, frenata dai suoi schemi culturali e ideologici, consente al lettore di lasciarsi coinvolgere nella riflessione, sovente lasciata in sospeso.

La vicenda, mi pare, potrebbe essere letta sotto tre differenti angolature: come una piacevole storia di costume; come una sorta di grido d’allarme contro la modernità e tutto quello che porta con sé; oppure – ed è questa la chiave interpretativa più importante ma anche la meno colta dalla critica e dal pubblico stesso – come la narrazione di una conversione religiosa.

In un’intervista a una rivista sudamericana, alla domanda di cosa parli il romanzo, l’autrice ha affermato che si tratta di «un racconto sulla ricerca del paradiso perduto, sul rimpianto dell’amore con maiuscola, sulla nostalgia che tutti prima o dopo avvertiamo nel cuore, e che altro non è che il desiderio di Dio. Le direi che è un racconto che parla di molte cose, di educazione, di matrimonio, di arte, della ragione e del sentimento, della tradizione e della modernità, di libri, di amicizia, di semplicità e di ribellione, ma soprattutto le direi che è una storia sulla fede e la conversione e, soprattutto, di come a volte, molte volte, bisogna fermarsi e guardarsi indietro per scoprire se si è imboccata la direzione giusta» (traduzione mia).

Così un racconto che potrebbe essere inteso come una tardiva e sterile condanna della contemporaneità (benché non sia escluso che qualcosa di ciò sia presente nell’animo dell’autrice), si rivela ben più ampio. Una spia, del resto, si trova proprio all’inizio, nell’esergo, per il quale la Fenollera usa la frase di un autore a lei molto caro, John Henry Newman: «Credono di avere nostalgia del passato, ma in realtà la loro nostalgia riguarda il futuro».

Forse per farci riflettere che c’è qualcosa nel cuore umano che non ci lascia mai tranquilli: anche quando pensiamo di aver raggiunto la felicità, non ci basta.

È per questa inquietudine, per questa nostalgia, che la protagonista del romanzo lascia inaspettatamente il luogo in cui è felice per compiere un viaggio in Italia. A Norcia troverà la risposta che cercava.