(voce di SopraPensiero)

 

(di Agatha Orrico)

Sto cercando di immaginare come sarebbe vivere in una comunità di contadini e allevatori, proprietari di una casa, di un terreno o di una fattoria, ereditata dal papà o dal nonno. Un giorno arriva qualcuno da fuori che “acquista” tutto in cambio di pochi spicci concedendoti un’area desertica e maleodorante, fatta di sterpaglie sotto al sole, dove mancano acqua e strutture igieniche e sanitarie, e finendo a vivere in una baracca. Ci sarebbe poco da stare allegri, eppure quanto descritto sopra è accaduto a parecchi abitanti della Namibia, colonia tedesca dal 1884 al 1919, ancora oggi chiamata da qualcuno Deutschsùdwestafrika (Africa Sud Ovest tedesca). Se vi mancano dei passaggi per ricordare i danni fatti dai colonizzatori tedeschi in Namibia potete andare a rileggere il mio articolo “Namibia anticamera dell’Olocausto”.

Oggi l’apartheid dovrebbe essere stato sconfitto, siamo convinti di vivere in un’epoca nella quale il colonialismo è acqua passata. Purtroppo non è ancora così, nè in Namibia, nè in Sudafrica, nè in molte parti dell’Africa.

La Namibia per taluni versi è il paese delle contraddizioni. Qui risplendono sotto al sole spettacolari dune desertiche a picco sull’Oceano Atlantico, parchi nazionali popolati da incredibili animali della savana, raffinate architetture del passato. Poi, spostandosi verso la capitale, sembra di stare in Germania.

Basta addentrarsi nel centro di Windhoek per ammirare gioiellerie che espongono preziosissimi diamanti, ville faraoniche e negozi sfarzosi, contornati da lusso e frivolezze. Gli immancabili vasi di fiori che nemmeno a Schwering in Germania…e naturalmente Chiese protestanti in puro stile teutonico. Ai miei occhi tutto questo appare come l’esibizione sfrontata di una architettura di tipo coloniale che fa sprofondare il namibiano medio in quell’era oscura dove lui era il servo e l’altro il padrone.

 

Poco distante dalla Chiesa un negozio di oggettistica espone nientemeno che souvenir teutonici, sparse qua e là pacchianissime targhe commemorative piangono quei “coraggiosi uomini, donne e bambini tedeschi, quei martiri caduti durante le rivolte e le guerre condotte dalla popolazione indigena locale”.

Per non parlare del Reiterdenkmal, un monumento inaugurato nel 1912 in occasione del compleanno dell’imperatore tedesco Guglielmo II, che è la rappresentazione plastica dell’inequivocabile fierezza germanica. Anche qui la targa recita “in onore ai soldati e ai civili che morirono nello schieramento tedesco della guerra Herero e Namaqua”.

A pochi passi dall’orribile Cavallo svetta un’altra statua, stavolta la rappresentazione di un uomo e una donna con le catene spezzate che cita: “il loro sangue nutre la nostra libertà”. Qui capannelli di turisti di ceppo germanico immortalano il must assoluto del loro favoloso tour nell’Africa del Sud e delle loro vacanze da nababbi. Un esercito di vacanzieri senza memoria, minimamente sfiorato dal muovere una qualunque critica al ruolo che i loro governanti possano avere avuto in questi luoghi.

Nella tv di un bar locale scorrono le immagini di questo tedesco biancolatte, anziano coi capelli bianchi, del quale non ricordo il nome, che parlando in inglese si dichiara fiero di essere namibico perché qui ci è nato. Dice che quando torna in Germania sente la nostalgia perchè lo assale il tipico mal d’Africa; una di quelle strane frasi che a me ha sempre procurato fastidio, non so perchè. E intanto sfoggia con fierezza la sua villa contornata da 20.000 ettari di terreno, lamentandosi che non piove abbastanza per innaffiare tutto quel ben di Dio. Incurante che quelle terre siano state praticamente rubate a qualcun altro. Semplicemente non ci pensa.

 

 

Ma la popolazione autoctona dove sta?

Allontanandomi dall’elegante centro storico e inoltrandomi nell’entroterra, ecco che mi appare alla vista qualcosa di disturbante, una città nella città: l’enorme baraccopoli di Katutura, una distesa infinita di lamiere sommerse da polvere e sterpaglie.

Non per niente pare che Katutura in lingua locale significhi “luogo dove non vorrei mai vivere”, c’è poco da far correre l’immaginazione. E’ il luogo del quale vi ho parlato sopra, quella famosa “altra parte”. Un’urbanistica dell’apartheid creata negli anni ’50 destinata ai cittadini “nonbianchi”, ai discendenti di quegli antichi popoli decimati. La rappresentazione del regime razziale che tiene segregato il 90% della popolazione a debita distanza dal 10% di tedeschi che si godono le ricchezze ostendandole senza troppi sensi di colpa.


Credo che una delle più crudeli invenzioni degli esseri umani sia l’apartheid, con la sua incosciente geografia della razza.

La Namibia – come del resto altri paesi africani – ha ancora le stimmate del tremendo incubo coloniale, vittima di una interminabile notte macchiata di sangue durata decenni. Anni di incidenti, rivolte e manifestazioni dei locali non sono serviti a mitigare questa separazione, repressa con ogni possibile mezzo. Gli autoctoni, dopo aver perso terre e case, hanno rischiato di perdere anche l’essenza della loro stessa identità.
All’interno di queste township si creò un’ulteriore segregazione tribale, data dalla mescolanza di differenti etnie (gli Owambo, i Kavango, gli Himba, i Damara). Una mescolanza di lingue diverse che probabimente al governo degli afrikaner faceva comodo per impedire sommosse condivise.

Il 1990 fu l’anno dell’indipendenza, ma fu un’indipendenza sancita dal divieto di matrimoni tra bianchi e neri, quella delle panchine, dei marciapiedi, delle entrate dei negozi, dei quartieri separati.

Quello che ho capito della Namibia è che molte compagnie tedesche hanno ancora il controllo dei grandi affari, che hanno riserve di caccia e altre grandi proprietà immobiliari e imprese, in altre parole governano il paese. I tedeschi portano soldi in Namibia, certo, peccato che restino nelle loro tasche e servano a consolidare il loro potere. Perchè in questa parte di mondo lo schiavismo pare goda ancora di ottima salute.

 

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