(voce di SopraPensiero)

(di Agatha Orrico)

Premessa. Per l’Occidente ciò che probabilmente rende inaudito l’Olocausto è l’umiliazione che Hitler abbia applicato all’uomo bianco metodi disumani che sino ad allora erano stati riservati esclusivamente ad altri popoli.

Sulla Shoah una martellante scia di programmi, dibattiti, film, libri, interviste, mostre fotografiche, documentari, testimonianze con tanto di pellegrinaggi e scuse ufficiali ci porta – giustamente – a rispettare il dolore subito dagli ebrei. Perfino il termine genocidio è stato coniato per loro…e gli altri? IL NULLA. Perché?

Se la Germania non riesce a fare i conti con quanto ha fatto in Namibia fingendo di aver giocato un ruolo marginale nel colonialismo e nascondendo le proprie escrescenze maligne si sbaglia perché la Namibia fu – a detta di molti storici – l’anticamera dell’Olocausto. La mancanza di qualsiasi forma di empatia da parte degli ufficiali tedeschi in Namibia, la sistematica «disumanizzazione» degli africani, considerati meno di bestie, colpisce al cuore come una sciabola nei crudi resoconti dell’epoca, celando non pochi indizi che avrebbero dovuto portare dritto dritto verso ciò che sarebbe accaduto ad Auschwitz.

Com’è ormai noto la storia la scrivono sempre i vincitori, e questo ci fa capire come quello che sappiamo non è che una parte della verità. Conviene allora partire da TUTTI gli eventi della storia umana, non analizzare solo quelli che ci interessano di più. Soltanto così tutto questo può diventare memoria non banalizzata, ritualizzata e «celebrata».
Il problema non è tanto se ricordare o no, ma che COSA ricordare e COME farlo.
La commemorazione smetterebbe di essere una routine e diventerebbe memoria vissuta se quello che studiamo del passato servisse ad orientare il nostro agire nel presente.

 

NAMIBIA: PRIMA DELL’OLOCAUSTO

La Namibia è un grosso Stato situato nella zona sud dell’Africa, con 1.500 km di magnifiche coste bagnate dall’oceano Atlantico. Alla fine dell’Ottocento la Namibia, diventata colonia tedesca, vede arrivare sul territorio coloni e soldati che dopo un po’ sequestrano terre e bestiame alle popolazioni locali. Di fronte all’ostilità degli autoctoni i coloni cominciano a reagire catturando schiavi.
Capìta in fretta la situazione il popolo degli Herero firma una serie di accordi coi tedeschi per porre fine al dispotismo e contrae dei debiti a tassi altissimi per non cedere le proprie terre. L’accordo però viene sistematicamente violato dai colonizzatori, finchè gli Herero decidono di ribellarsi con la forza per cacciare l’invasore; a loro si unisce la piccola tribù dei Nama che vive poco più a sud. In un attacco a sorpresa muoiono più di cento tedeschi. La reazione di Berlino però è durissima e la situazione precipita con l’arrivo del famigerato Lothar von Trotha, una sorta di antenato di Goering.

Il cattivissimo generale sassone si è già distinto altrove per straordinaria spietatezza e quando arriva in Namibia è lucido sull’obiettivo: usare il pugno di ferro per reprimere i rivoltosi. Il governatore Leutwein cerca di dissuaderlo, ricordandogli che l’Impero ha bisogno dei lavoratori africani, ma per von Trotha le popolazioni autoctone sono superflue e vanno eliminate, ha l’ambizione di germanizzare il Paese, spazzare via la cultura africana per innestarvi la propria. Ha già in sé il germe della supremazia razziale.

La prova generale è la battaglia di Waterberg, l’11 agosto 1904. I tedeschi sconfiggono gli Herero, ma non si accontentano della vittoria militare, li spingono verso il micidiale deserto di Omaheke per farli morire di fame e sete. Un rapporto militare dell’epoca narra di uomini, donne, bambini malati, apatici, stremati dalla stanchezza, che aspettano immobili e morti di sete il loro destino sdraiati tra i cespugli. Contemporaneamente viene istituito il primo campo a Shark Island. Il 2 ottobre arriva l’ordine che formalizza il genocidio, passato alla storia come «ordine dell’annientamento»: il generale impone di sparare a vista.

Nel frattempo quelli reclusi nei campi di concentramento sono costretti a lavorare in condizioni atroci. A Shark Island, dove sono rinchiusi in duemila, l’intento di farli morire di stenti è espresso a chiare lettere nell’ordine di un comandante: «nessuno lascerà vivo Shark Island». Lo scopo non è farli lavorare: è farli morire di stenti. Le foto dell’epoca mostrano uomini, donne e bambini scheletrici, buttati a terra come stracci. I morti vengono portati via a mucchi, nelle carrette spinte a mano.

Scheletri e teste mozzate dei prigionieri Herero e Nama detenuti negli atroci campi vengono inviati ai laboratori del Reich e studiati da medici che insegneranno anni dopo la loro «scienza» a Josef Mengele.
I pochi superstiti dei popoli di Namibia stanno ancora cercando di recuperare, dai musei di tutta la Germania, i teschi e le ossa dei propri avi, per dargli degna sepoltura in patria, ma le autorità tedesche pare non collaborino.

Le stime sul numero totale delle persone uccise non sono note in quanto i tedeschi è un secolo che tentano di insabbiare lo sterminio pur di non riconoscere le proprie colpe, e a quanto pare finora ce l’hanno fatta. La Germania, la stessa che si batte per far riconoscere quello degli armeni per mano del turchi come genocidio, fa di tutto per nascondere il proprio.
Ancora oggi ci sono tensioni direttamente collegate allo sterminio: i discendenti dei coloni tedeschi possiedono ancora le terre confiscate all’inizio del secolo scorso agli Herero, e la maggior parte delle aziende. I mulatti, nati dagli stupri dei tedeschi con le africane, considerati razza inferiore, sono costretti a fuggire dal paese.

In Germania non esistono monumenti che ricordino i morti causati dal colonialismo tedesco, a parte un monumento a forma di elefante a Brema, mentre resistono targhe, statue e gadget del macellaio von Trotha. Ruprecht Polenz, che sta conducendo i negoziati sul riconoscimento del genocidio con le autorità della Namibia, ha detto che i risarcimenti personali ai discendenti delle vittime sono «fuori questione», e che lo sterminio degli Herero e dei Nama non è paragonabile alla Shoah.

(immagini di archivio)

*Leggi anche: Namibia oggi, l’apartheid dei nuovi (o vecchi?) tedeschi