Ad essere onesti per scrivere una recensione che renda giustizia ad un romanzo così ben scritto, sarebbe stata necessaria più di una lettura del medesimo. Ma c’è da dire che quando incontri per la prima volta un autore del genere, difficilmente accetti di fermarti ad uno dei suoi libri, piuttosto punti la libreria più vicina a casa tua, per andare a comprarne un altro. Non a caso prima di iniziare questa recensione ho avuto il feroce dubbio se scrivere su “Come diventare buoni” oppure sul romanzo che ha regalato il grande successo a Hornby: “Alta fedeltà”, letto subito dopo.
“Come diventare buoni” ha una caratteristica che colpisce più che altro dopo aver conosciuto altri lavori di Hornby: il cinico autore di “Un ragazzo”, noto ai più come il libro da cui è stato tratto il film “About a boy” con Hugh Grant, ha tutta l’aria di essere uno di quegli uomini fieri della propria distanza dal mondo femminile e intenzionati a mantenere almeno psicologicamente, tale distanza. Poi leggi “Come diventare buoni” e questo innocuo pregiudizio si ribalta: Hornby scrive il romanzo in prima persona singolare… femminile! La protagonista, Katie Carr usa le parole dell’ironico scrittore per esprimere tutta la frustrazione che prova nei confronti del suo matrimonio. L’intera storia è basata su una tipica e se vogliamo banale crisi di coppia. L’abilità di Hornby è proprio quella di rendere questa storia normale una sorta di ipnosi che ti rapisce per ore senza l’ausilio di avventure, né dell’attesa di un finale mozzafiato, bensì per il puro piacere di leggerla.
Michele Serra de La Repubblica ci offre uno spunto di riflessione, recensendo il romanzo in questi termini: “La bravura di Hornby, nell’afferrare un tumulto di vita che avrebbe potuto tranquillamente e brillantemente essere liquidato con il sarcasmo, sta nell’acume e perfino nella pietà con i quali fa muovere i suoi personaggi, specie quello di Katie, tra i cocci delle loro certezze”. La pietà con cui si muovono i personaggi è un’espressione che potrebbe sintetizzare al massimo il romanzo: i coniugi David e Katie sono due ultratrentenni del nuovo millennio, che parlano e si comportano coerentemente con la disillusione del loro tempo. Un tempo in cui o si è buoni, come Katie ha creduto di essere per tutta la vita, fino a ritrovarsi di fronte ‘i cocci delle proprie certezze’, o si è cattivi, come è David che cura una rubrica intitolata L’uomo più arrabbiato di Holloway per il quotidiano locale…
Il bello viene proprio qui, i rispettivi ruoli di ‘buona’ e ‘cattivo’ che Katie da sempre attribuisce a sé stessa e al marito, improvvisamente si ribaltano per quel tipo di coincidenze che minano la tipica razionale sfiducia nel destino dei meno fatalisti. Da questo momento in poi la protagonista entra in una generale confusione che, tra le altre cose, la porterà a vivere per qualche settimana di giorno in casa sua (sebbene lavori anche 10 ore al giorno nel suo studio medico), di notte in un appartamento distante un isolato, nel tentativo di non scatenare una guerra in casa e per proteggere i suoi due figli dall’eventuale trauma di vederla andar via.
Punto di forza dello stile di Hornby è senza dubbio costituito dai dialoghi, impossibile renderne la freschezza, l’acume, nonché la costante carica ironica, senza l’ausilio di citazioni letterali: nelle prime pagine, durante la telefonata che scatena la crisi tra Katie e David, questi le chiede: “Ti preoccupi di come sto?”
“A dire la verità David, non ho bisogno di chiederti come stai. Lo sento. Abbastanza bene per badare ai bambini e contemporaneamente triturarmi. E molto, molto triste, per ragioni che a questo punto mi restano oscure. Anche se sono certa che vorrai illuminarmi.” “Che cosa ti fa pensare che io sia triste?” “Ah! Tu sei triste per definizione. E’ la tua condizione permanente.”, solo per fare un esempio.
Chiarito quanto sia godibile la lettura di questo romanzo, sarebbe riduttivo considerarne solo lo stile: la crisi di questo matrimonio, lungo circa vent’anni viene analizzata attraverso le riflessioni di Katie, con una lucidità tale da rendere impossibile ogni tentativo di restarne distaccati. L’empatia è inevitabile, ma non solo con la protagonista, anche la crisi d’identità di David non lascia scampo. Quello che colpisce però è ancora la capacità di Hornby di muoversi nella psicologia di una dottoressa di quasi quarant’anni, sposata da venti, con due figli, che cerca di risolvere gli innumerevoli problemi (del tutto comuni) del suo matrimonio. Cruciale da questo punto di vista il momento in cui Katie si accorge che la propria infelicità non è esclusivamente attribuibile al marito: “… quella sono io, sono diventata così: niente. (…) Non so bene quando è successo, ma so che è stato tanto tempo fa (…) allora ero qualcosa e qualcuno, la persona più importante di tutto il mondo. Se avessi tenuto un diario, forse adesso potrei stabilire la data con percisione. Potrei leggere un’annotazione e pensare: ma certo, era il 23 novembre 1994, quando David disse o fece questo. Ma cosa potrebbe aver detto o fatto David per ridurmi così? No, temo di essermi ridotta così per conto mio… ”
Non c’è poi molto da aggiungere a quanto detto finora per concludere, “Come diventare buoni” è un romanzo da leggere d’un fiato e più di una volta (anche per chi non deve scriverne una recensione), perché sia possibile cogliere ogni angolo della sensibile lettura ironica e autentica allo stesso tempo, che Nick Hornby riesce a fare col suo linguaggio spietatamente attuale, di un tema complesso come la famiglia moderna.
Serena Ricci