Il romanzo, pubblicato nel 1911 e che l’autore dichiara nella chiusa essere stato composto tra Richmond Hill e Aix-les-Bains tra l’agosto 1908 e il settembre 1909, rappresenta un elemento importante della letteratura sentimentale ed erotica italiana. L’opera, primo romanzo di una lunga serie di un autore fino a quel momento solo poeta, ebbe una risonanza immediata: fino al 1939, anno di morte dell’autore, ne vennero stampate circa 130.000 copie in una decina di edizioni. Oggi la tiratura media ad edizione di un libro è poco sopra le 2.000 copie! Tutti i suoi romanzi ebbero grande successo; fu probabilmente l’autore più venduto degli anni Venti.

Da sapiente scrittore alla moda, egli maneggia con grande destrezza uno stile leggero, pieno di azione, e insieme tutt’altro che sobrio, di chiara derivazione dannunziana, per portare allo scoperto le fantasie anche vagamente erotiche della borghesia del suo tempo. Il protagonista, Arrigo Ferrante, è il primo frutto di una coppia della piccola borghesia: un padre artigiano, occhialaio, e una madre con un passato non proprio irreprensibile. Su di lui, maschio e aitante, sono riposte le oneste speranze della famiglia.

Ma lo struggente desiderio di Arrigo è quello di evadere dalla sua vita di borghesuccio, far parte della élite dove dominano il lusso, il denaro, le superficiali relazioni sociali, i piaceri facili. Fra tutti gli strumenti di cui Arrigo si serve per la sua ascesa sociale non compare mai l’opportunità di acquisire una qualche cultura, di immaginarsi un lavoro: e per disporre di denaro, metterà a frutto fino in fondo le sue capacità al gioco; per entrare nei salotti sfrutterà le persone, le adulerà, si farà piacere, senza mostrare mai lo spessore di un sentimento. Così cambia il suo nome in Arrigo del Ferrante, nasconde il suo passato, si fa un vanto di diventare l’amante delle donne più ricercate. Non ci sono scelte dettate dal cuore: ogni donna va bene, pur che sia contesa, purché sia ‘utile’ al suo successo. Così nel suo carnet finiscono Mercedes la prostituta, Eugenia la ragazza di buona famiglia inesperta e ingenua, Miris la Tunisina dal fascino esotico, Tatiana Ruskaia la cantante d’opera, Donna Claudia, Clara Michelis …

Se dal 1750 circa esiste il britannico raffinatissimo Jockey Club e nel 1834 fiorì l’omologo a Parigi, tradizionale club per gentiluomini, considerato il più prestigioso dei club privati di Parigi, luogo di ritrovo dell’élite del XIX secolo, Guido da Verona ci racconta invece della «brigata di galantuomini, che facevano professione di sapere il conto loro in ogni cosa, e specialmente nel giocare e nello spender bene il lor denaro, e d’essere il fiore della reale ed onorata scapigliatura», che a Firenze erano riuniti sotto il ‘gaio’ nome di Mammagnúccoli. Essi si radunavano, scrive, per giocare, «più per spasso che per vizio, fare merende, cene, e varie allegrie». Certo siamo più vicini ai Vitelloni di felliniana memoria che al Jockey Club. Ma tant’è: è di quel club che Arrigo con tutte le forze vuole fare parte. E ci riuscirà.

Fin qui si narra dell’ascesa. E molte sono le pagine straordinariamente vive, molto evocative e convincenti nella descrizione di ambienti e di situazioni, anche se sempre con un’abbondanza di termini molto barocchi: gli avventori del ristorante alla moda, gli spettatori all’opera (come non ricordare i quadri di Manet, Degas, Renoir o Henri de Toulouse-Lautrec), le famiglie nella scampagnata fuori porta, la folla all’ippodromo (ed ecco le immagini dei quadri di De Nittis). Rammentano anche, però, i quadri inquietanti di un espressionismo nascente di George Grosz (1893-1959), pieni di persone in frenetico movimento, come in Métropolis (1917) o in Omaggio a Oskar Panizza (1917-1918).

Ma la freccia dell’amore alla fine colpisce anche i cuori più impermeabili. Ed Arrigo cade vittima dell’amore per colei della quale proprio non si doveva innamorare. Qui si possono fare varie considerazioni, tante quanti sono i punti di vista di lettrici e lettori. Il tema dell’amore verso chi, secondo le leggi di natura e non solo, non si deve nutrire amore è presente fin dalle origini di tutta la letteratura. Penso che qui andrebbe però ricordato piuttosto il mito di Narciso. Arrigo, considerato fin dalla nascita un diverso nella sua famiglia, perché più avvenente, più naturalmente elegante, più disinvolto, in questa donna che non deve amare, in realtà ama fino allo spasimo sé stesso, ama la sua voglia di raffinatezza e di eleganza, la sua spregiudicatezza, il suo desiderio di essere amato, tutto ciò che per lui rende la vita degna di essere vissuta.

Colei che non si deve amare, come intuibile, non è un libro che mostri un qualche affetto verso le donne. È invece spietato contro di esse, che non sono considerate esseri umani, ma marionette nelle mani del protagonista. E forse solo l’interpretazione di Arrigo come Narciso ci può far accettare come essi – l’autore ma anche il suo personaggio – descrivano in maniera terribile proprio colei che il giovane non deve amare. Da Verona ci dipinge Arrigo in modo straordinariamente minuzioso, tale da permetterci di leggerne ogni pensiero, ogni dubbio – pochi ma fondamentali –, ogni scelta di stile fino al non scontato epilogo.

Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS

Dall’incipit del libro:

Dal primo all’ultimo giorno della sua vita Stefano del Ferrante non ebbe che rovesci di fortuna. Il mondo è pieno di queste vittime oscure, che camminano per un lento calvario e non cadono mai del tutto sotto il peso della loro croce.
Gli erano morti, nella sua prima età, il padre e la madre, durante una morìa di quell’anno che mietè molte vite. Un congiunto lo raccolse nella propria casa per allevarlo con i figli suoi. Non fu misericordia; Stefano ereditava qualche bene di fortuna, che il congiunto gli dilapidò. Egli lo venne a sapere più tardi; fu consigliato anche ad intentargli una lite, ma non ne fece nulla. Era un uomo soave e riconoscente, che non amava molestare il prossimo nè gettarsi a capofitto nel gran pelago della carta bollata. Studiò con fatica, ma studiò; non ebbe invidie piccole nè ambizioni grandi; fu sin dal principio un uomo laborioso ed umile. Prese una laurea in chimica, laurea che lo costrinse ad essere uno spostato; si mise a speculare e perdette, a commerciare e fallì.

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