Ugo Santamaria
In una delle nostre lontane province si trovava il possesso di Ivan Petrovič Berestov. Nella sua giovinezza egli aveva servito nella guardia, aveva dato le dimissioni al principio del 1797, era partito per il suo villaggio e da allora non ne era piú andato via.
A Salerno – la gente di là se ne ricorda ancora per una canzonatura poetica fattami da un giornaletto spiritoso – io avevo preso un alloggio tra cielo e terra, ma più in là che in qua, per la semplice ragione di essere io amantissimo della quiete…
Benché, grazie a Dio, sia difficile ai nostri orecchi distinguere il ronzio festoso d’un’ape dalle sue strida più disperate; — spero nondimeno mi sia permesso affermare che quel giorno la signorina Dell’Api strillava a più non posso.
Molti, ma molti anni fa, c’era in un paese di questo mondo, un signore, che aveva ereditato dai suoi antenati il titolo di Conte, un bel castello e grandissimi possessi.
Era la settimana di Pasqua, ed io camminavo lungo la riva del mare per ubbidire ai consigli dei medici, i quali mi avevano detto di vivere in solitudine e di non leggere più libri e giornali che parlassero della guerra, se volevo evitare irrimediabili perturbazioni.
Viveva una volta su un’isola deserta delle sponde del Mar Rosso, un Persiano con un berretto che rifletteva i raggi del sole con splendore più che orientale.
Don Matteo era un prete nato, per così dire, alla macchia, in un casolare di montagna, tra boschi di faggi e di cerri.
Era un tipo, davvero, bizzarro: diffidente e credulone a un tempo, e così superstizioso che, malgrado il suo latino…
Quando la signora Bettina ebbe chiusi gli occhi per sempre, suo fratello, l’illustre Spiridione Tomei, stentò molto a darsi pace.
La mattinata umida e malinconosa, senza raggio di sole, moriva tristemente nelle ultime luci fredde e annebbiate dell’imbrunire. A’ romori che nel giorno l’aria spessa e pesante aveva ammortiti, alla vita della mattina piena di movimento, di voci, di strepiti…