La signorina dell’api.

di
Guido Biagi

tempo di lettura: 9 minuti


Benché, grazie a Dio, sia difficile ai nostri orecchi distinguere il ronzio festoso d’un’ape dalle sue strida più disperate; — spero nondimeno mi sia permesso affermare che quel giorno la signorina Dell’Api strillava a più non posso. Eran grida acutissime da rompere i timpani a un sordo spaccato; eran singhiozzi convulsi innaffiati da lagrime così amare, da mettere in serio pericolo le dolcezze dei favi di miele onde l’alveare era pieno. La signorina piangeva sulla soglia della casa paterna, con la testa appoggiata malinconicamente allo stipite della porta, col fazzoletto sugli occhi gonfi di lacrime; ardiva di piangere così sfacciatamente dinanzi a un bel sole di maggio che aveva con la sua granata d’oro, spazzato il cielo turchino dai nuvoloni importuni, mentre i venticelli leggieri le portavano fin sotto la tromba del naso i delicati profumi del timo e della mortella fioriti.

Perché, come vi ho detto, la primavera, stava per lasciare all’estate tutta quella gaiezza di colori, tutta quella gioiosa fioritura di piante: l’aria tepidissima e odorosa accarezzava le gote ai bambini che si baloccavano all’aperto, e correvano e saltavano bisbigliando fra loro; mentre lassù in alto gli alberi fronzuti parevano uno all’altro accostarsi per sussurrare misteriose parole, e per ridere bonariamente col fruscio delle foglie dorate dal sole. E il sole? Lui sì ch’era una vera allegria! Pareva un sole tirato allora allora a pulimento, pareva il sole delle domeniche e delle grandi occasioni, un sole in grand’uniforme, lustro e fiammeggiante come un bel corazziere. Basta: questo sole però sarà meglio che ve lo figuriate da voi, perché a raccontarvelo c’è da sciuparlo. Il sole è come la mamma; quando si dice la mamma non occorre dir altro.

Ma alla signorina Dell’Api tutte queste belle cose non facevano nessuno effetto. Già un poco era male avvezza, perché di belle giornate ne aveva viste un visibilio; e poi anch’essa, come tutti i ragazzi, credeva in bonissima fede che tutta quella grazia di Dio fosse lì proprio apposta per lei; che il sole, a scintillare a quel modo, facesse il suo dovere di sole e nulla di più; che il bel tempo le fosse dovuto vita natural durante, e che altrimenti le rimanesse il diritto d’andare dall’impresario e farsi rendere i quattrini del biglietto! — Che giucca!… come se le belle giornate fossero roba da disprezzare, come se il tempo perso si potesse sempre riacchiappare quando si vuole!… Le compagne di lei erano tutte fuori, occupate a fare il loro dovere di api industriose, e volavano di fiore in fiore a succhiarne il polline profumato, tutte contente del loro dolce mestiere. Ma la signorina Dell’Api non badava a quell’allegro ronzio, a quei voli festosi e sentendosi finalmente sola nell’alveare lasciato da loro deserto, era soltanto contenta di potere sfogarsi a modo suo.

— Oh, che vita, che stupida vita è la mia! — borbottava fra sé con la voce da piagnisteo d’una regina da tragedia. — Non poter far nulla di nobile, nulla di grande! Almeno fossi bella!… Che gioia se fossi una farfalla con le ali dorate… tutte mi guardarebbero, mi ammirerebbero, e la mia vita sarebbe uno svolazzare continuo di fiore in fiore, di piacere in piacere.

Così diceva in tuono piagnucoloso la signorina Dell’Api, e in quel mentre — guardate che combinazione — una bella farfalla svolazzava per l’aria pavoneggiandosi al sole che faceva luccicare la polvere d’oro delle sue diafane ali. I singhiozzi della povera signorina le feriron l’orecchio, e le fecero rivolgere sopra di lei, mentre si spingeva più in alto nell’aria, uno sguardo di compassione.

La signorina Dell’Api che si vide guardare dall’alto in basso, si mise a singhiozzare più forte che mai.

— Cosa c’è, cosa c’è, signorina? — disse una voce strana. — Era la voce d’una mosca di conoscenza, un po’ rozza di modi, ma in fondo bravissima persona.

— Oh, signora Mosconi, vorrei tanto essere una farfalla!

— Una farfalla? E perché?

— Perché mi son seccata a far l’ape tutta la vita… O che le pare un bel mestiere il mio? Correre di qua e di là, posarsi su tutti i fiori senza aver mai terra ferma, aspirarne la fragranza e portarne a casa i succhi più soavi… e perché poi?

— O bella, per fare il miele…

— Già, come se quel miele fosse per noi, come se ce lo dessero la mattina a colazione col caffè e latte… E poi, se anche ce lo dessero, ne saremmo stucche lo stesso! Il dolce, cara mia, a lungo andare è un sapore insopportabile che dà allo stomaco. Hai mai veduto un pasticciere esser ghiotto delle sue chicche?

— Ma che importa! O che, gli speziali assaggiano le medicine che essi manipolano? A voialtri è toccato cotesto compito, come a noi è stato dato quello di tener dietro la gente col nostro ronzio, come all’usignolo è toccato di gorgheggiare eternamente, anche quando non avrebbe voglia. Cara mia, bisogna contentarsi e prender la vita in santa pace.

— Bellissimi discorsi, ma per contentarsi bisogna proprio non aver mai provato il desiderio di librarsi per l’aria, di folleggiare allegramente tutto il santo giorno, di sentirsi addosso i vivaci raggi del sole che ci vestono degli splendidi colori dell’iride, che ci adornano d’un’aureola di luce smagliante. Bisogna proprio esser vermi, per non capire quanta gioia si deve provare ad esser farfalla!…

— Oh, la mi scusi!… — interruppe ad un tratto una vocina cavernosa che non si sentiva di dove uscisse. — La mi scusi, signorina! — esclamò un vermiciattolo che metteva fuori la testa da un bucolino.

— Con chi parlo? — disse la signorina Dell’Api alzando il mento e facendo una smorfietta disdegnosa, come fanno le bambine un po’ superbiole.

E misurò il povero bacolino con un’occhiata dispettosa, a stracciasacco. A lei che sprezzava le bassezze della terra, un vile animaletto osava dunque rivolger la parola da pari a pari? A lei che anelava le ampiezze infinite del cielo, il più misero insetto della terra non aveva timore di misurarsi? Veramente, da quel vermiciattolo non era stata mai conosciuta, non gliel’avevan mai presentato, come si usa fra le persone educate; quindi, nella sua alterezza, non credeva la vanerella d’esser obbligata a rispondere. Ma piuttosto che torcergli il muso tacendo, il dispetto la consigliò a dargli quasi una lezione di buona creanza.

— Non parlavo con lei, ma con la signora Mosconi che è mia amica e con la quale posso discorrere.

E batté su queste parole che pronunziò a denti stretti e con la bocca di traverso. La signorina Dell’Api, che a un po’ di nobiltà ci pretendeva, rialzò la testa e squadrò dall’alto in basso il nuovo venuto:

— Scusi — riprese quegli — ma io, se fossi lei, sarei tanto felice!

— Bella forza, perché lei è un miserabile verme, un essere quasi… quasi spregevole… Ma creda che io, se fossi lei, non sarei punto felice!

Il bacolino chinò la testa, tutto umiliato.

— Ma che diamine dite? — esclamò a un tratto una tignuola che passava di lì. — Non era bella, a dir vero; ma per tignuola non c’era male. E poi il sole che fiammeggiava su in alto le indorava le ali che luccicavano come di metallo brunito.

La signorina a quella domanda fattale così a bruciapelo, si scosse: e, trattandosi di persona di soggezione, si contentò di rispondere:

— Parlavo a cotesto misero vermiciattolo…

— E perché misero? — soggiunse la tignuola.

— Perché sta sempre rasente terra, perché non ha ambizione…

— O che credete che l’ambizione faccia felici?

— Felici, forse no… ma non è cosa nobile contentarsi d’essere umili e vili.

— Come se non fossimo tutti umili e vili! Addio, ragazza mia.

E così dicendo la tignuola spiccò il volo tutta felice.

— Oh, ma non c’è dunque anima viva che mi comprenda, che mi consoli? — mormorava tristamente la signorina Dell’Api, singhiozzando.

E intanto un venticello soave scendendo dalla collina le portava vicino, come un allegro invito, il profumo dei fiori, e il lieto ronzio delle compagne che ne’ calici olezzanti trovavano ogni dolcezza. Povera fanciulla! passavan le ore felici, ed essa le lasciava trascorrere senza pensarci, consumandosi in desiderii inutili e sciocchi.

— O chi si lamenta? — disse una formicolona che si tirava innanzi a fatica portando in bocca una formicolina in fasce.

— Io, signora formica, ma lei non può consolarmi.

— Ma che c’è?

— Vorrei essere quel che non sono — rispose la signorina.

— Male, male. E non ci arriverete mai, perché quel che è fatto è fatto, e a questo mondo non si torna addietro. Mi dispiace per voi.

— O che è giusta — seguitò l’altra — che io e lei si debba essere sempre un’ape e una formica — due povere diavole, senza garbo né grazia; mentre potremmo esser tanto felici, tanto belle, se fossimo magari due farfalle con la nostra piena libertà di volare senza fare il gran nulla?

— Avete torto, torto marcio, bambina mia. La vostra vita è molto più nobile e bella di quella d’una farfalla. Noi due siam d’esempio al mondo. Vi par nulla il sentir dire continuamente: Operosa come una pecchia, industre come una formica. Bambina mia, colla perseveranza e con la bontà si nobilita qualunque esistenza. Se anche siamo fra gli esseri più meschini della creazione, non so perché non possiamo far di tutto per sollevarci dal nostro stato ed esser felici, procurando di fare degnamente il nostro dovere. Via, coteste son fisime! Lasciatele stare, e venite un po’ meco a spasso. Giusto debbo andare un po’ lontano, a vedere certi miei parenti e a dar loro una mano. Son giornate laboriose queste d’ora, e non è bene star con le mani alla cintola. — La formica lasciò la sua piccina dentro una rosa che le servì di culla, e tutte e due s’incamminarono con gli ombrellini aperti, col cappello penzoloni dietro alle spalle, perché il sole bruciava di già.

Camminarono un pezzo e poi giunsero in un certo ripostiglio, dove la signorina Dell’Api fu mascherata e travestita da formica. Pareva non avesse fatto altro, in tutta la vita, che il nuovo mestiere. E poi quell’abito che aveva addosso, le tornava tanto bene!

Dopo camminato un pezzo, misero piede in una città di formiche, dove nessuno la riconobbe. Che affare, che lavorio! Le strade piene di gente affaccendata che badava ai fatti suoi e tirava di lungo senz’occuparsi di quelli altrui. Passavano formiche cariche d’ogni grazia di Dio: passavan quelle che tornavano a caricarsi di vettovaglie… Chi comprava e chi vendeva, chi esercitava un mestiere e chi un altro… Tutti eran felici: anche i formicolini piccini che in collo alle balie si beavano al sole. Lavoravano tutti, grandi e piccoli, giovani e vecchi. S’aiutavano, si sorreggevano, e facevan di tutto per guadagnar tempo, quasi sapessero che il tempo è una merce dimolto cara.

Quando fu vicino il tramonto e sonò l’ora della ritirata, la signora formica condusse fuori di città la signorina che tornò fra le sue compagne, stracariche del frutto delle loro fatiche, senza portar nulla a casa.

Ma il giorno dipoi, la signorina Dell’Api fu la prima a saltar giù dal letto e a correre al suo lavoro. Aveva appreso dalla formica il segreto della vita, aveva imparato che le cose grandi rimpicciniscono e diventan miserie se fatte per vanagloria e per egoismo; mentre le minime cose diventan grandi quando le si facciano per adempire un dovere. Aveva imparato che nel lavoro consiste tutta la felicità della vita.

E in quell’estate là, quando il sole fiammeggiava più ardente e i fiori chinavano stanchi e appassiti la testa sul gambo, avreste veduto la signorina Dell’Api, che, sfidando il calore e la fatica, volava di qua e di là a fare il suo dovere di bambina per bene.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: La signorina dell’api
AUTORE: Guido Biagi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti