Scirocco

di
Salvatore Di Giacomo

tempo di lettura: 11 minuti


La mattinata umida e malinconosa, senza raggio di sole, moriva tristemente nelle ultime luci fredde e annebbiate dell’imbrunire. A’ romori che nel giorno l’aria spessa e pesante aveva ammortiti, alla vita della mattina piena di movimento, di voci, di strepiti, che il tempo uggioso avea resi come sordi e sfiniti, succedeva adesso, dopo un paio d’ore d’ozio snervante, l’impaziente rivoluzione della sera, che pareva volesse reagire a quel torpore durato così a lungo tra l’aspettare invano i soliti piccoli avvenimenti e il raggomitolarsi con lo spirito e il corpo in un malessere d’insofferenza che la giornata metteva ne’ muscoli e nel sangue.

Alle quattro era venuta giù un po’ d’acquerugiola fina e diaccia, che filtrava i brividi nell’ossa, e a guardarla si sarebbe detto che fosse bigia come il cielo e piagnucolosa come un’ostinazione di bimbo malaticcio. Laggiù, in piazza San Ferdinando, i cocchieri del posto bestemmiavano sottovoce, la testa insaccata fra le spalle, il tappetino della vettura sulle ginocchia strette.

— Che divertimento, eh? – La gente s’era scordata d’andare in carrozza. Ognuno casa sua la teneva a quattro passi, e poi col sole che c’era veniva la voglia di farsela una passeggiata co’ piedi nelle pozzanghere! – E così la giornata se ne scivolava!… – Ohè?… Vengo? Vengo?…

Ora tutte le fruste schioccavano; qualche signore dal marciapiedi di faccia voltava gli occhi a destra e a manca, aspettando che spuntasse una carrozzella di passaggio per risparmiare un paio di soldi, che, tanto si sa, quelle del posto non si muovono se non le trattate a dovere e vogliono la corsa intera per quattro passi come le hanno avvezzate i signori ricchi che portano il collo stretto nel solino, lo staio sulle orecchie e vanno a Chiaia senza sporcare i cuscini, con le palme delle mani sulle cosce. Ma intanto con quel tempo e con quella scarsezza il posto s’arrendeva, lasciandosi fare. – Otto soldi al Museo! – diceva il signore. – Datemi mezza lira. – E l’altro, duro: – Otto soldi! – Il cocchiere ci pensava un pezzo prima di decidersi a pigliarlo per quella miseria, ma intanto come il signore s’impazientiva e faceva per voltargli le spalle, e allora con una santa pazienza lo chiamava:

— Sentite…. andiamo…. salite

Dal posto i compagni stavano a guardare, seguendo con gli occhi il battibecco, indovinandone le offerte e le transazioni. Lui pel sacrificio che aveva fatto si sfogava con la povera bestia, la quale scotendosi tutta con un balzo alla prima frustata incollerita che le toglieva il pelo, rabbrividiva di sorpresa e di dolore. E mentre nel pigliar l’aire dava una strappannata al panciere, lui ritto in serpa, mangiandosi la lingua, scoteva la mano all’aria due volte, e spiegava le dita a mostrare ai compagni quanti soldi pigliasse.

Le ombre scendevano rapidamente: dalle basi rotonde de’ fanali, di cui la fiamma a gasse si dondolava leggermente fra i vetri appannati, la striscia nera della colonnina si proiettava ad angolo su i marciapiedi umidi, e in cima la lanterna ingrandiva smisuratamente, spandendosi. C’era poi, sopra l’insegna di un magazzino, il grande orologio di Riccio, che luceva da tutte e due le facce, pallido come la luna, e faceva venir la malinconia, malgrado vi fossero sopra due grandi ali dorate come quelle degli angioli a lato dell’altar maggiore.

Allungandosi lo sguardo arrivava sino al principio della scesa del Gigante; laggiù il verde cupo degli alberi si fondeva col cielo tutto d’un pezzo, nero come il carbone.

Ma nello spiazzato innanzi alla gran massa del palazzo reale, tutti i lumi s’eran data la posta come ogni sera, e assieme ai fanali grandi a cinque rami, di sotto alle colonne del peristilio, le lampade a bomba rischiaravano la piazza deserta e silenziosa, ove pareva che andasse a morire nell’immensità del vuoto tutto il romorio di Toledo.

In questa brutta serata di marzo, come sonarono le sette all’orologio di piazza Dante, tanto debolmente che appena lui potette seguirne i rintocchi, Manlio si decise ad uscire. Dopo aver leggiucchiate le prime pagine di un romanzo nuovo, di cui si era annoiato a morte, fra le cinque e le sei di sera s’era buttato sul letto, volendo gustare, per la prima volta dopo un mese, la voluttà del sonno a quell’ora. Così tra l’appisolarsi e il rimaner cogli occhi aperti per un pezzetto a guardar nel soffitto le ragnatele lasciate in pace, stette un’ora buona, in forse se dovesse uscire o rimanersene a casa, ora che il tempo minacciava.

Manlio: un bel nome, di cui doveva la romanità severa alla madre buona e intelligente che s’era ridotta in provincia a seguire il marito e c’era rimasta perchè lui contava di raggranellare il suo po’ di sostanza, vendendo dei fondi che da assai tempo lacerava a furia di liti l’ostinato accanimento di tre eredi, fra i quali egli era primo. Con le buone parole, co’ sacrificii e la pazienza lui si era fitto in capo di spuntar la faccenda, e le cose andavano bene. La signora Maria scriveva al figliuolo, ogni settimana, lettere piene di cuore e di rimpianti, promettendo, a rassicurarlo, che sarebbe tornata subito, arrischiando timidamente, con una dolcezza di parole che nascondevano la severità, dei piccoli ammonimenti nei quali tremava, inconsapevole, il suo grande amore di madre lontana. Manlio, leggendole, si commoveva. Ora la solitudine, che fra tutte le sue vaghe aspirazioni di fanciullo nervoso, era stato sempre il desiderio più intenso, lo spaventava, rimettendogli innanzi agli occhi il ricordo di certe sere calme d’inverno, quando la pioggia batteva a’ vetri ed essi chiacchieravano sottovoce nel tepore della stanza, mentre il padre leggeva la gazzetta e fumava. Nei brevi momenti di silenzio, quando la signora Maria s’era lasciata scappare una maglia della calza che lavorava, s’udiva dal lettuccio il respiro uguale della bimba che dormiva con una manina sul petto. Che sere! Lui raccontava i suoi progetti, si animava facendo mille castelli in aria, lasciandosi trasportare, gesticolando sottovoce e la brava donna sorrideva, contemplandolo tutta pensosa, e le maglie della calza scappavano. Ma eran sogni d’oro quelli che lo cullavano allora; dormiva sino a giorno tutto d’un fiato sotto la coltre spessa che, a volte, quando non aveva ancor chiusi gli occhi, si sentiva rimboccare sotto al mento dalle mani leggere della madre….

Questo pensava Manlio in quella sera di marzo, smaniando sul letto, che scricchiolava, voltandosi da tutte le parti come se fosse sulle spine. All’ultimo, mentre l’oscurità empiva la stanzuccia e lui non vedeva altro se non, di faccia, il vano della porta anche più nero dell’ombra, una strana inquietudine lo prese. Quasi gli venne paura che da un momento all’altro, così, solo com’era, in quel silenzio, in quella oscurità avesse a mancargli la vita. Quando si levò, cercando tentoni i fiammiferi, le mani gli tremavano e durava fatica a tirar su il fiato.

— Impossibile, – mormorò, com’ebbe acceso il lume e gli tornò l’animo, – impossibile!… Questa è vita che non può durare….

Si vestì e scese. Mettendo il piede nella strada si ricordò di non aver preso il paracqua. Stette un momento in forse se dovesse risalire o tirar via facendone a meno, tanto era un’acquerugiola minuta che non faceva male, e poi rifar daccapo settanta gradini era una cosa che lo seccava abbastanza. Si mise in cammino, scendendo per Toledo, con le mani in tasca e la testa china, tutto pensoso. Che si sentisse dentro lui stesso non lo sapeva: era un malessere, un’oppressione, un’insofferenza, che lo rendevano odioso a se stesso; fra tutto lo impensieriva ora come un intuito delle disillusioni che gli toccherebbe di sopportare; indovinava le aspettative insoddisfatte, a cui da un momento all’altro si troverebbe di contro nella sua piccola vita serale, della quale si faceva il conto che il tempo cattivo dovesse stornare le abitudini. Difatti, entrando nel caffè ove gli amici erano soliti a raccogliersi accanto alla gran tavola di marmo, trovò ch’essa era deserta, e andò a sedervi aspettandoli. Chiese il caffè e gli parve addirittura acqua calda; lo sorbì tutto d’un sorso dopo averlo fatto raffreddare, non volendo avere la pazienza di centellinarlo col gusto che ci pigliava ogni sera. Nel caffè c’era una piccola orchestra che di colpo si mise a suonare un walzer fritto e rifritto, un’antipatia di musica frettolosa e saltellante, che mise una gaiezza stupida fra i consumatori. Lui, di faccia a un borghese che batteva il tempo col cucchiaino nel vassoietto, si sentiva un formicolio nelle mani; gli avrebbe voluto buttar la chicchera in faccia.

Cominciava a dolergli la testa; gli occhi, in quella nebbia che il fumo dei sigari spandeva nel locale chiassoso, gli s’intorbidivano e gli diventavan piccoli. A un momento, mentre uno spilungone di maestro di musica batteva sconciamente sui tasti del pianoforte, egli sentì il colpo secco e la vibrazione, per un secondo, d’una corda che si spezzava facendo «zin!», cosa che gli raggricciò la pelle. S’alzò, e guardò all’orologio sul banco del padrone; erano le nove, gli amici non sarebbero più venuti.

E, lentamente, con le labbra strette, infilò la porta che metteva sulla piazzetta innanzi al Municipio. Pioveva sempre allo stesso modo. Lui si mise a camminar dritto avanti a sè, non sapendo che via pigliare per tornare a casa più presto, ora a piccoli passi, ora affrettandoli per trovarsi subito fra le sue quattro mura. E camminando si rodeva dentro con gli amici che non erano venuti, con la umana leggerezza che dimentica tutto, con se stesso che era tanto ingenuo da contare su tutti. Avrebbe voluto che i compagni avessero indovinata la sua solitudine in quella sera, avrebbe voluto che fra essi uno solo almeno avesse pensato a farsi trovare per tenergli compagnia – che diamine!…

I suoi nervi in quel momento avevano acquistata una tensione straordinaria. Gli scoppii romorosi delle fruste, quando gli passavano accosto le vetture, lo irritavano; bestemmiava sotto voce, sbuffando, come inciampava nell’oscurità col piede in una rotaia di tranvai che lo sbalzava da un lato, sorprendendolo dolorosamente. La luce dei magazzini gli abbagliava gli occhi; a volte sentiva fra le spalle come delle punture di aghi, che gli davano per un momento l’irritazione d’una bestia inquieta.

Ora si trovava di faccia al teatro San Carlo. Entrò lentamente sotto il porticato. Si fermò a leggere un cartellone mezzo lacerato che pendeva a uno de’ muri. S’accorse che sotto a quel muro una persona, che lui conosceva molto da vicino, stava tranquillamente accendendo un sigaro. Si adocchiarono nello stesso momento; Manlio s’accostò, con la mano stesa.

— Buonasera, signor Roberto.

— Buonasera, Manlio; come va?

— Eh! – disse lui, facendo spallucce. – Son seccato….

L’altro, passando il sigaro nell’angolo delle labbra, fece per incamminarsi. Manlio gli tenne dietro, stringendoglisi accosto. Gli pareva, che quegli non gli avesse detto addio per stare un po’ assieme, e intanto già s’annoiava della compagnia.

Costui era un uomo sui quaranta, scriveva per i giornali, era tenuto in molta stima nel suo paese e godeva d’una certa fama di serietà e di onestà. Quella sera aveva l’aria d’uno a cui è capitato un guaio e, piccolo piccolo com’era, col gran cappello su gli occhi, il bavero del soprabito alzato, faceva quasi compassione.

Dopo un momento di silenzio, camminando sempre, disse:

— Dove andate?

— A casa.

— Che brutto tempo!… – fece l’altro, senza guardarlo in faccia.

— Tempo canaglia…. – rispose Manlio, coi denti stretti.

Vi fu un altro momento di silenzio, poi, lentamente, quello del sigaro mormorò, con un risolino forzato:

— Come mi vedete ho perduto poco fa duecento franchi.

— Ah? – disse Manlio, senza commuoversi, come se non avesse capito bene.

Poi non vi fu più una parola. Il signor Roberto camminava tutto astratto, a capo basso, studiandosi di mettere il piede sempre nel mezzo delle lastre del selciato, provando una piccola contrarietà quando per inavvertenza gli capitasse tra le commessure. Manlio non vedeva l’ora di toglierselo d’accanto. Ora una collera sorda lo disponeva contro quest’uomo che perdeva duecento lire come se niente fosse e se ne andava passeggiando in una serata come quella. E l’altro, mentre badava stupidamente a regolare il piede in modo che si trovasse sempre nel mezzo del lastrone, pregava tutti i santi perchè mandassero via questo giovinotto pittimoso, del quale la muta e pesante compagnia gli cadeva addosso come un incubo. Così per venti minuti di cammino, tornando a poco a poco ciascuno alle sue idee nere, quasi non accorgendosi più della loro vicinanza, non aprirono bocca. A un punto, sul marciapiedi, poco lontano dalla casa di Manlio, una donna, una signora bellissima, sola, stretta in un lungo scialle nero, alta, pallida, fiera, passò loro accosto. Fu come una visione.

— Che bella donna! – mormorò Manlio, come parlando a se stesso.

— Bellissima…. – sospirò l’altro, senza alzar gli occhi.

Di colpo si guardarono, si tesero le mani contemporaneamente, stringendosele. Si erano fermati per un secondo.

— Addio, – disse il signor Roberto.

— Addio, – rispose Manlio.

Lentamente entrò nel palazzo ove abitava e si mise a salir le scale. Quando fu in casa, senza togliersi il soprabito umido, buttò sulla tavola il cappello a cencio, provando uno strano batticuore, un’emozione nuova e misteriosa. Tentò di mettersi a scrivere, pensando che questo dovesse distrarlo, compilando in mente, rannicchiato sulla seggiola innanzi al tavolino, una lettera alla mamma, piena di tenerezze e di sfoghi.

Ma quando cercò invano i fiammiferi si ricordò d’averli dimenticati al caffè. E innanzi a questa piccola contrarietà ebbe un momento di immensa disperazione. Si gettò bocconi sul lettuccio, mordendo nella furia il cuscino, torcendo le lenzuola nel pugno, singhiozzando.

Pioveva sempre, ma la pioggia non batteva ai vetri con lo stesso ritmo dolce delle lunghe serate in famiglia, nè alcun lume nella stanzuccia poteva mostrargli la faccia pallida e sorridente della madre e in fondo, nella penombra, il lettuccio della piccola sorella dormente….

Così, in quella triste serata umida e tetra, in quello scompiglio nervoso che infuriava sul suo morale tormentandogli il fisico a scosse dolorose, egli solo, solo nella sua amarezza incosciente, in quella oscurità fitta della cameretta si mise a urlare come un pazzo.

Fine.


Troverai tanti altri racconti da leggere nella Mediateca di Pagina Tre (clicca qui!)


Liber Liber

Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione integrale, audiolibri, brani musicali con licenza libera, video e tanto altro: https://www.liberliber.it/.

Fai una donazione

Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri. Fai una donazione: https://www.liberliber.it/online/aiuta/.


QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Scirocco
AUTORE: Salvatore Di Giacomo

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Novelle napolitane / di Salvatore Di Giacomo ; prefazione di Benedetto Croce - Milano : F.lli Treves, 1919 - XI, 324 p. ; 19 cm.

SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici