Storia di un pezzo di vetro

di
Guido Cremonese

tempo di lettura: 17 minuti


Il vecchio professore, circondato dai suoi assistenti e dalla studentesca, nel gabinetto di anatomia patologica, tenendo in mano un pezzetto di vetro, una scheggia, concluse la sua dissertazione con queste parole:

— A che cosa è mai attaccata la vita umana!

Poi, volto ad un assistente, gli chiese:

— Hai scritto il cartellino?

— Eccolo – rispose il giovane, porgendogli un pezzo di cartoncino su cui era scritta la storia che univa quel pezzo di vetro al gabinetto dell’illustre professore.

Lo scienziato collocò ogni cosa in una scansìa a metà piena; poi, seguìto dai suoi giovani amici, uscì da quella stanza.

Non appena vide il terreno sgombro da persone pericolose, il pezzo di vetro si guardò intorno, e per prima cosa volse un’occhiata tra ironica e indagatrice ai suoi due vicini. L’uno era un bel pezzo di colesterina, un grosso calcolo epatico; l’altro, un calcolo renale misto di urati e fosfati. Sul piano superiore della scansìa, senza che egli potesse vederlo, un grosso cancro dello stomaco, ubbriaco fradicio dell’alcool in cui era immerso, osservava ogni cosa con apatico senso di superiorità morale.

A dire il vero, il gabinetto non fu troppo entusiasta nel ricevere il nuovo venuto. Un pezzo di vetro: che mai poteva aver che fare, in così nobile consesso di rappresentanti della patologia, un miserabile pezzo di vetro?

Due grosse gambe, per quanto colpite da elefantiasi, minacciavano di prendere a calci il nuovo venuto: un teschio (che da un’apertura lasciava vedere un grosso tumore aderente all’osso) digrignava i denti; mentre un certo numero di intestini, poi, borbottavano delle minacce mal compresse…

Ma il piccolo pezzo di vetro sorrideva, guardava tutti con occhio scintillante, e non aspettava che un’occasione per esplodere.

E questa occasione gliela diede un calcolo biliare suo vicino che lo apostrofò così:

— Che cosa vieni a far qui, tu, miserabile campione di quel regno minerale, inorganico per giunta, che rappresenta un gradino della creazione, l’infimo gradino, sul quale noi tutti siamo passati da migliaia di secoli?

Il vetro gli rispose con molta dignità:

— Anzitutto voi mi dovete rispetto, perchè io sono un vostro antenato di stirpe nobile, di carattere incorruttibile, di un’anzianità incommensurabile, poichè io esisto ab eterno.

— Anche noi! Anche le nostre molecole esistono ab eterno! – urlarono gli altri ad una voce.

— Le vostre molecole: non voi. Inoltre io ho una storia nobilissima che voi neppure immaginate. Tu, giovane calcolo biliare, sei nato e vissuto in un corpo infermo; e malgrado la tua bella apparenza, sei sempre stato in contatto con sostanze… che non voglio nominare. Altrettanto dirò di voi, superbi intestini, che a null’altro siete mai stati buoni che a digerire e a digerir male.

Il pezzo di vetro aveva intenzione di mettere alla gogna tutti i suoi nuovi compagni; ma questi l’interruppero ad una voce:

— La storia! Vogliamo saper la storia!

Il vetro si raccolse un momento; poi, con voce tintinnante, incominciò a narrare.

— La mia origine è interessante per gli scienziati, che invano la vanno cercando con le loro induzioni; ma voi che non siete scienziati e non comprendete i problemi sull’origine della materia, troverete più interessanti le mie avventure fra gli uomini.

Vi basti sapere che, un tempo, il mondo era tutto un fuoco: un fuoco tanto caldo, che i metalli vi si trovavano allo stato di vapore. Allora non esistevano distinzioni: c’era vita per tutti, e tutti vivevano in una specie di anarchia, liberi da leggi e da legami.

Ma venne il brutto momento in cui alcuni di noi incominciarono a raffreddarsi; e, come sempre accade nelle rivoluzioni, si formarono dei gruppi, delle masse selezionate; gli elementi affini si riunirono, e sorsero le prime associazioni di lotta per l’esistenza, le più antiche che rammenti la storia.

Le reazioni… chimiche, s’intende, erano continue: molti di noi passarono dalla vita ad uno stato di letargo, che il freddo rendeva simile alla morte; e gli elementi più facinorosi – gli alcali e gli acidi – venivano sempre a conflitto, gettando l’anarchia, seminando le esplosioni, pescando nel torbido, per impadronirsi degli elementi più deboli ed assimilarseli.

Il governo provvisorio, costituito da due gas, pensò a metter fine alle guerre civili, soffocando ogni cosa… nell’acqua. L’ossigeno e l’idrogeno, dico, per misura di ordine pubblico, fecero un diluvio: i più si raffreddarono al punto da potersi dire per sempre soggiogati: e quei pochi che ancora lanciavano qualche bomba, erano ormai così ridotti di numero che nessuno si curò più di loro. In questo modo la grande massa della nostra società primitiva, vinta e domata, divenne ben presto, come accade dopo le lotte violente, vittima di pochi audaci. Incominciarono a sorgere i parassiti, i primi composti organici, che, con la scusa del progresso, vivevano a nostre spese. Poi, giustizia volle che altri parassiti facessero altrettanto dei primi.

Così vennero al mondo le prime cellule vegetali, che mangiavano i composti organici (come gli amidi, i cianuri, ecc.); poi vennero le prime cellule animali che, con la solita scusa del progresso, mangiavano le vegetali… e così, di lotta in lotta, sempre mangiando i proprii inferiori in gerarchia, siamo giunti allo stato attuale.

Adesso, è vero, ci prendiamo la rivincita, perchè, con sempre maggior frequenza, diamo l’assalto all’uomo ed a preferenza all’uomo ricco.

Ne siete prova voi, o cancri di tutte le specie, che vi mostrate più spietati con le persone più egoiste e meglio nutrite, stabilendo così un principio di giustissima rappresaglia contro questa gente che, non contenta di mangiare i proprii inferiori, mangia spesso, sotto forme velate, i proprii simili. Di tali birbonate, ai miei tempi, non se ne facevano. Il ferro era amico del ferro: e se poi si adattò a battere l’oro, lo fece per punirlo della sua ignavia e della sua corruzione.

E non è vero che fra noi, servi della gleba, non esista progresso. L’oro, che era un vanerello, è diventato amico della scienza e rende buoni servigi alla fotografia; l’argento è utile in fotografia, in medicina, in tante altre cose… Noi del vetro facciamo delle buone lenti… Il piombo, quel vile traditore, è uno dei pochi che commetta tanti soprusi contro la buona gente, ammazzando, ferendo, avvelenando… e ingannando la gente quando si presta a tingere i capelli. Il birbante!

È per questo che mi sono disgustato del mondo; che mi son dato alla rivoluzione, all’anarchia, e con tanti miei fratelli ho giurato la strage. È per questo che ora sono qui, condannato alla reclusione, per avere avute delle nobili idee di rivendicazione. Ma questo lo dirò dopo, alla fine della mia storia.

Quando l’idrogeno e l’ossigeno, accordatisi insieme, decisero di metter pace fra i turbolenti con quel po’ po’ di diluvio, io me ne andai a villeggiare su una montagna che, poco tempo dopo, emerse dalle acque.

Presi posto, insieme ad altri amici, in un fianco del monte; e ci riunimmo, per difenderci, formando una bella massa di silice.

Se l’anarchia avesse durato ed io fossi stato ambizioso, avrei potuto unirmi con qualche altro elemento e formare un bel cristallo di rocca; ma i tempi tristi mi insegnarono che la modestia è un elemento di tranquillità.

Rimasi in villeggiatura per un tempo straordinariamente lungo: e, per mio conto, non mi sarei mosso. Ma i soliti anarchici provocarono, un giorno, un’eruzione nel monte e lo fecero saltare con un’esplosione.

Le solite violenze dei sovversivi!

Io ruzzolai in una pianura dove feci la conoscenza dell’uomo.

Questo accadde varie migliaja di anni fa. Non so dirvi quanto tempo rimasi inerte in quella pianura, trasportato ora dalle pioggie, ora dai torrenti. Il destino, che mi ha fatto nascere in Italia, mi ha sempre ricondotto qui, malgrado le infinite mie peregrinazioni.

Un giorno, adunque, mentre mi scaldavo mollemente al sole, un uomo passò, mi vide, mi raccolse, mi portò in una spelonca. Ero un bel pezzo di silice forte e compatta: potevo essere utilizzato.

Infatti egli, con mia somma rabbia, e malgrado la resistenza che gli opposi, mi trasformò in una ascia, senza curarsi del male che mi faceva sfregandomi contro una pietra più dura di me e che con me si mostrò così poco solidale da usurarmi i fianchi. (Come se fossimo uomini l’uno e l’altra!).

A dire il vero, io ho sempre avuto dei principii progressisti: ragion per cui quel buon uomo non potè fare a lungo uso di me. Ai primi atti di ferocia che voleva commettere per mio mezzo mi ribellai; ed un giorno, mentre egli voleva uccidere un suo simile, io preferii spezzarmi anzichè dar mano ad una simile infamia. E fu mercè questa precauzione, per quanto dolorosa, che le mie due parti rimasero lì, per terra, per un tempo lunghissimo.

Contemplavo melanconicamente la marina che mi stava dinanzi; ammiravo le meraviglie naturali di quella terra primitiva (ben diversa dall’attuale), ma non riuscivo a cacciar via da me la noja che mi proveniva per l’isolamento dai miei simili.

Certamente dovettero passare molti anni, prima che io fossi tolto di là: perchè i primi uomini che rividi non erano più armati di pietra, come una volta, ma avevano utensili ed armi di rame.

Era un giorno di tempesta furiosa: tutto, intorno a me, era schianto, rabbia di vento, folgori, pioggia. Dalla marina giungeva lo scrosciar delle onde contro gli scogli; ed ogni tanto la raffica mi portava uno spruzzo di acqua salata.

In quel terribile cozzar di elementi, una nave lottava contro la morte; ed io la vedevo apparire e sparire dietro le onde, prossima ad infrangersi, malgrado l’eroismo dei suoi marinai.

Ma il mio ed il loro destino vollero che essi giungessero a salvamento in un piccolo porto naturale, a poca distanza dal luogo ov’io ero; e, giunti che furono, con tutti i loro sforzi riuniti, ormeggiarono e posero al sicuro la nave sconquassata; poi si accamparono in un bosco di quercie.

Nei giorni seguenti, cessato il furore del cielo e del mare, l’equipaggio si diede alacremente al lavoro di riparazione, sostituendo anzitutto un albero nuovo al vecchio che la tempesta aveva portato via quasi intero.

I naviganti erano fenici e viaggiavano per commerciare. Ma fra loro v’era un passeggero, un dotto, un uomo della Caldea, che, mentre gli altri lavoravano, andava osservando la natura circostante.

Quel vecchio, inciampando in me, mi diede un calcio che mi fu compensato dalla soddisfazione momentanea di vederlo andare a gambe levate. Ma poichè egli era un uomo riflessivo, volle veder la causa della sua caduta. Mi prese, mi esaminò ben bene, poi mi portò a bordo della sua nave, riunendo, ancora una volta, le due parti del mio corpo spezzato.

Pensai che fosse uno storico, un archeologo, un filosofo; ma solo al mio arrivo in Caldea conobbi l’essere suo.

È inutile che io vi racconti il viaggio per mare e per terra. A differenza della maggior parte di voi, io non ho sofferto il mal di mare: per conseguenza, il mio viaggio fu tranquillissimo.

Quando fummo sbarcati a Tiro, ci unimmo ad una carovana che si avviò lentamente verso la Caldea.

Le meraviglie che io vidi in quei paesi non sono paragonabili a tutte le miserie che voi potete aver vedute in questi tempi umili. Si può ragionevolmente asserire che l’umanità vada decadendo di giorno in giorno. Oggi si parla di arte; ma io non ne ricordo alcuna pari a quella dell’oriente antico. La pietra, allora, era degnamente onorata, mentre oggi deve vergognarsi di essere scolpita.

Si toglievano le rocce ai monti, è vero; ma la loro dignità non era punto abbassata, perchè le opere umane gareggiavano, per grandiosità, con quelle della natura. La forza delle macchine era superata da quella paziente ed intelligente degli schiavi: il genio non aveva limitazioni ai suoi concepimenti; da tutti gli oggetti – anche da quelli di uso più comune – emanava un’onda di arte che è ben lunge, oggi, da tutto ciò che vediamo. Allora l’arte dava forma al pensiero; oggi gli dà forma il mestiere.

— Ma – osservò timidamente il teschio forato – ciò dipende dalla volgarizzazione.

— Dalla volgarità!

— Oggi il sapere, come il possesso, è aperto a tutti, ed al posto del manoscritto abbiamo il libro ed il giornale.

— Bella roba! – biascicò il pezzo di vetro con dispetto – Oggi tutti gli idioti hanno una cultura superficiale che basta a fare degli ignoranti superbi e prepotenti; allora il sapere era la proprietà di coloro che ne erano degni; e non si stampavano gli arcani della scienza, chè erano troppo preziosi per divenir volgari. Oggi, fra la pletora delle stampe inutili, le opere degne finiscono col passare inosservate, nascoste come sono dalla valanga delle imbecillità stampate dai vanitosi; allora solo le opere grandi avevano l’onore di essere tramandate in tavolette o in papiri serbati in vasi di cedro; e poi in pergamene miniate, che sono la veste degna di cose grandi. Non si stampava per fare la pubblicità ai vaniloquenti che si appellano pomposamente poeti; ma le poche copie faticose erano preziosamente conservate e non finivano – come è giusto che oggi accada – per servire ad usi poco decorosi per gli scritti che contengono il pensiero. Gli antichi non ebbero la stampa perchè non vollero. Credi tu che non ne possedessero il segreto? Osserva le tegole, i mattoni, gli oggetti di argilla ed i tubi di metallo, sui quali l’artefice antico imprimeva il nome dell’imperatore sotto il quale si compieva una di quelle opere veramente storiche, e vedrai che la stampa non è cosa nuova.

Il teschio fece una smorfia di disprezzo; ed il pezzo di vetro aggiunse, per tutta risposta:

— Vorrei che qui ci fosse uno di quei cranii degli antichi Caldei, che non soffrivano di tanti mali e non si facevano trapanare! Ci faresti una bella figura, tu!

Un mormorio di approvazione si fece udire per tutta la sala. Il teschio se lo tenne per un buon avviso; ed il pezzo di vetro continuò:

— Si parla di scienze, oggi; e la mia prima trasformazione chimica avvenne nel laboratorio del mio primo padrone: Dareios.

Sì, signori: alchimista o chimico che lo vogliate chiamare, egli aveva un gabinetto non certo inferiore ai moderni, se si guarda agli effetti, perchè vi riproduceva non minori meraviglie. Anzi ricordo di avervi veduto dei miei compagni silicei trasformati in vetro blù che invano i chimici moderni si sforzano a riprodurre. Ivi io fui analizzato, trasformato in acido silicico, poi in vetro, quale sono ancora.

Ciò sembrerà strano a voi, ma così non parve a Dareios, il quale fece l’operazione con molta facilità e mi trasformò in una fila di pietre da collana, che per giunta erano leggermente colorate in turchino mercè una piccola quantità di ferro che Dareios mi diede, giovando così anche alla mia forza fisica.

Dirvi quali furono, da allora, le mie peregrinazioni, sarebbe opera difficile, anche perchè il tempo ha reso confusa la mia memoria. Rammento benissimo che Dareios fu soddisfatto del suo lavoro, che gli permetteva di stabilire che le pietre dell’occidente erano simili a quelle dell’oriente.

Il teschio credette opportuno interrompere di nuovo il narratore.

— Tu che hai tanto viaggiato, non negherai che l’invenzione della bussola…

— La bussola! – esclamò l’altro – Siamo sempre alla volgarizzazione del sapere. Adesso chiunque può condurre una nave; ma se la bussola si perde… addio speranza! Allora la scienza degli astri era la nobile e celeste guida del navigante: ed egli guardava al cielo, in alto, anzichè affidarsi alla terra!

— Continua il tuo racconto! – tuonò la voce imperiosa di un rene ipertrofico.

— Narrerò gli episodi più memorabili – continuò il pezzo di vetro. – Ed anzitutto le mie relazioni con l’imperatore Ottaviano.

— L’imperatore Ottaviano? – chiesero gli astanti ad una voce.

— Proprio lui.

— Ma che io sappia – interruppe il livido teschio – l’imperatore Ottaviano non portava collane di vetro.

— No: ma beveva; ed io era il suo artistico calice. Da perle di vetro, ero divenuto un calice, attraverso molte peripezie: un calice elegante e di meravigliosa fattura, destinato a gustare pel primo i prelibati vini del tempo. È vero che più di una volta gustai anche dei veleni; ma altrettante volte ne fui lavato prima di pervenire alle labbra del mio signore. Ma poichè volete un breve racconto delle mie peripezie, vi dirò solo per quale circostanza subii una nuova trasformazione. Fu un puro caso. Era avvenuto a corte qualche piccolo scandalo in cui era implicata Giulia, nipote dell’imperatore. Ignoro quale fosse il fatto: so che l’unico testimonio di esso era il poeta Ovidio che morì in esilio per aver avuto degli occhi, come egli stesso diceva.

Un giorno, in un pranzo, Ovidio, che sedeva di fronte ad Ottaviano, dopo copiose libazioni di Falerno, si lasciò vincere dalla lingua e cominciò a raccontare, intorno a Giulia, delle cose che avrebbe dovute tacere. Ottaviano alle prime si tacque, perchè amava Ovidio; ma ad un certo punto, accorgendosi che il vino gli faceva dire più che non volesse, mi prese e mi lanciò con forza contro il disgraziato poeta, e così lo fece tacere. Io, che ho sempre amato gli artisti, lo percossi in modo da non fargli male; ma nel cadere a terra mi spezzai, togliendomi così a quell’ambiente di intrighi, che non mi piaceva affatto. Così ridotto in pezzi, fui gettato via. Sarebbe lungo narrarvi quanto appresi da altri pezzi di vetro, nel fosso in cui fui gettato. So che un giorno, dopo moltissimo tempo, fummo raccolti e separati dalle immondizie che ci coprivano e che – purtroppo – ci impedivano di vedere i terribili drammi che l’umanità svolgeva intorno a noi. Essendo di un cristallo assai fino, io fui diviso dagli altri, fuso e trasformato successivamente in più modi. Vi basti sapere che divenni una fina ampolla, poi un manico di spada – e come tale sentii fremere su me le dita di Berengario I re d’Italia – poi lampada che arse lungo tempo in una chiesa di Firenze; poi di nuovo un’ampolla. In questo tempo caddi in mano di un alchimista; e nel suo laboratorio, imparando le cose più strane, appresi a sopportare i veleni, gli acidi, il fuoco, passando dalle mani aspre dell’alchimista a quelle gentili della sua bella figliuola. Ero sempre a Firenze: e con le molte nozioni chimiche conobbi i segreti dell’acqua tofana e di altri veleni che allora si usavano per uccidere i principi. Io divenivo man mano più anarchico nel conoscere tali nefandezze e nel vedere in qual modo gli uomini vivessero per distruggersi l’un l’altro. E quando il mio alchimista, insieme alla sua bella figliuola, furono presi per essere arsi vivi, come cultori di scienze diaboliche; quando tutti i vetri del laboratorio, me compreso, furono infranti dal fuoco cieco dei sostegni dell’ignoranza, il mio furore non conobbe più limiti.

— Ma per quale ragione l’alchimista fu bruciato? – chiese il calcolo epatico che stava vicino al nostro pezzo di vetro.

— È una storia che merita di esser narrata – rispose questo. – Sappiate che, a quei tempi, le idee nuove facevano paura tanto quanto oggi. Ed il mio amico alchimista era un uomo terribile, in fatto di idee nuove. Si chiamava Biagio Del Paglia, ed aveva una soave figliuola a nome Silvia.

Or avvenne che mentre Biagio preparava dell’acqua tofana per Caterina De’ Medici, e per conto proprio cercava di trasformare i vili metalli in oro, Silvia, la sua vaga figliuola, componeva canzoni con le sue amiche di Firenze, e con le canzoni – forse innocentemente – faceva perdutamente invaghire di sè un giovane cavaliere. Volle la sventura che il cavaliere fosse di stirpe regia, venuto in incognito a Firenze per istudiarvi la vaghezza della lingua e dei costumi. Ora, mentre molto egli si dilettava nell’amore di Silvia, e si guardava dal palesarle la sua nascita, temendo che un tal fatto allontanasse da lui l’amore della donzella, un famigliare di esso cavaliere scrisse una lettera ai parenti di lui, facendoli avvisati degli amori e delle promesse fatte a Silvia dal giovane ed ardente cavaliere.

Avendo ciò saputo, il cavaliere si corrucciò di molto: ed ai comandi dei suoi parenti, che gli imponevano di lasciar subito e Silvia e Fiorenza, rispose che prima si sarebbe fatto monaco, che mancare a sì dolce giuramento.

Ora io non so se per Silvia e pei suoi amori, o pel pericolo che Mastro Biagio Del Paglia convertisse il piombo in oro (ciò che molto avrebbe doluto ai signori di quel tempo, perchè avrebbe fatti i servi pari a loro), sta il fatto che accusarono Silvia di aver composto, con l’ajuto del padre, un filtro amoroso: e prima ancora che nulla ne trapelasse, vennero soldatacci di ogni specie in casa di Biagio, di nottetempo; e dopo aver ingiuriato e padre e figlia ed avere fatto scempio di ogni cosa, i due miseri ne menarono in prigione e, con giudizio sommario, li dannarono alla pena del fuoco.

Questo io appresi da una fibbia di ferro della veste di Silvia, che fu gettata a mio fianco, in un fosso.

Ed ecco in qual modo – proseguì il pezzo di vetro, abbandonando la sua storia fiorentina – io divenni più che mai anarchico.

Come poi completassi la mia coltura, vi sarà facile comprendere quando vi avrò detto che dopo quel tempo fui successivamente mutato in lente di telescopio (e così appresi l’astronomia), poi in lente di occhiali, poi in lente di microscopio, ed in fine in occhio di vetro.

Quest’ultima forma conservai fin che visse il mio orbo proprietario; ma, quando egli fu morto, un giovane erede si divertì a ridurmi in molti pezzi, che poi furono gettati in un giardino.

Non so quello che accada delle mie altre parti: per mio conto, mi insinuai in una pianta di lattuga e fui così fortunato da giungere, con essa, nelle fauci di un ricco fannullone, di quei tanti dei quali ho giurato lo sterminio.

Mi addentrai nel suo stomaco; perforai l’intestino; provocai una peritonite… ed eccomi qua, oggetto da museo, dopo aver ucciso un primo nemico. Ma non sarà l’ultimo!

— E come farai ad ucciderne degli altri? – chiese il teschio con un ironico sorriso.

— In un modo semplicissimo! Quando ero nell’orto, ebbi la cura di attrarre a me e di insinuare tra le mie piccole fessure molti bacilli del tetano. Ho degli spigoli taglientissimi: ed ho già ferito ed infettato, senza che se ne siano accorti, il professore, l’assistente e quanti mi hanno toccato…

Un rumore di passi fece tacere il pezzo di vetro.

Entrò nel gabinetto un ragazzo – il figlio del professore – che, dopo aver data intorno un’occhiata curiosa, vide un oggetto splendente… Pareva che, come egli lo fissava, l’oggetto divenisse più brillante. Vi si accostò, lo prese in mano, e… si punse il polpastrello di un dito.

Timoroso di essere scoperto, ripose l’oggetto al suo posto e fuggì via.

— Ho l’arte di rendermi attraente col mio splendore… Ne ho spedito un altro! – esclamò il pezzo di vetro fra il mormorio degli astanti.

Solo, il cancro dello stomaco, l’eterno ubbriaco di alcool, che stava nel ripiano superiore della scansia, rispose con una risata ebete.

Fine.


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TITOLO: Storia di un pezzo di vetro
AUTORE: Guido Cremonese

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le novelle dello scettico / Guido Cremonese. - Bari : Humanitas, 1913. - 304 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC019000 FICTION / Letterario