Solo pochi anni fa la casa editrice Armando ha presentato in Italia Vìktor Kùročkin, con l’opera che gli ha ottenuto un successo quanto mai singolare nell’ingessata Unione Sovietica dei primi anni dell’era Breznev.
A fronte di una travolgente diffusione di questo breve romanzo in patria (da poco inserito anche nei programmi scolastici), la sua fortuna all’estero comincia solo dopo la caduta del muro, e a tutt’oggi risulta pressoché sconosciuto al pubblico occidentale. Eppure Kùročkin non è mai diventato un dissidente, un oppositore del regime. Un isolato, piuttosto, carico di buon senso contadino.
Nato nel 1923 (ma la data non è sicura) in un villaggio della Russia centrale, conclude gli studi liceali nella Leningrado del 1941, alla vigilia del terribile assedio; in quei mesi assiste impotente alla morte per fame del padre e della nonna e poi, dal 1943 al 1945, come ufficiale dei carristi partecipa a durissimi scontri con le truppe corazzate tedesche in ritirata da Kiev fino a Berlino e Praga, guadagnandosi gravi ferite e altrettante onorificenze.
Tra la fine della guerra e il 1949, mentre segue i corsi della Scuola di diritto di Leningrado, si mantiene con i lavori più disparati. Esercita poi la funzione di giudice di pace in un villaggio rurale. Nel 1952 abbandonato l’incarico, ritorna a Leningrado e inizia la carriera giornalistica e letteraria.
L’assoluta indipendenza creativa e di giudizio, unitamente al carattere impulsivo e irascibile, gli rendono difficile pubblicare i suoi lavori. A tratti subisce una vera e propria persecuzione da parte della polizia politica.
Arriva il 1964 (l’anno in cui Breznev prende il posto di Krusciov) e con esso la stesura di À la guerre comme à la guerre. Il breve romanzo viene rifiutato da ben quattro riviste, prima di apparire, nell’agosto 1965, sulle colonne di «Molodàja gvardija».
Il mondo culturale e letterario ufficiale critica in modo compatto l’opera, che invece riscuote un sorprendente successo di pubblico. Ben presto viene ristampato in volume, di cui si susseguono le edizioni per un totale di molte centinaia di migliaia di copie. L’Associazione degli Scrittori Sovietici si vede costretta, suo malgrado, ad accoglierlo e per l’autore inizia un periodo di relativo agio e tranquillità. Tre anni dopo esce la trasposizione cinematografica dell’opera, e lo stesso Kùročkin ne è lo sceneggiatore.
Lo stesso anno però viene colto da un grave infarto che lo priva della parola e della facoltà di scrivere, fino alla morte nel 1976.
L’opera si richiama evidentemente all’esperienza bellica dell’autore (moltissime le analogie con il protagonista, Sànja Malèškin, giovanissimo ufficiale della Guardia, comandante di un carro corazzato SU-85), a differenza di tutta la restante produzione, d’ambientazione contadina.
Con un’unità di narrazione assoluta, l’azione è contenuta nello spazio di tre giorni di inseguimenti e scontri dei carri sovietici con le ultime colonne corazzate tedesche in ritirata nella zona a nord-ovest di Kiev (sono gli ultimi giorni del dicembre 1943).
Assente qualsivoglia intento ideologico o propagandistico, l’autore neppure si propone di dare una visione d’insieme dello scontro bellico. Piuttosto Kùročkin riserva l’intera sua attenzione, costante profonda partecipe, al protagonista, di cui il lettore giunge a conoscere pensieri, sentimenti, emozioni. La figura di Sànja si definisce con completezza nei rapporti che instaura con gli altri personaggi, in particolare con i componenti del suo equipaggio. Risalta – insieme alla sua impulsività, alla dedizione ai suoi uomini, al desiderio di gloria che gli fa compiere atti di eroismo talora insensati – la sua profonda timidezza, l’immaturità tipica della sua giovanissima età, il tormentoso sentimento della propria inadeguatezza nei confronti del compito che gli è stato affidato, di cui avverte tutta la schiacciante responsabilità.
Come acutamente osserva nella «Prefazione» il traduttore Gianlorenzo Pacini, del Dipartimento di Letterature moderne e Scienze dei linguaggi dell’Università di Siena, «la ragione dell’entusiastico successo che il racconto ottenne tra il pubblico russo è indubbiamente dovuta proprio – in primo luogo e soprattutto – al fascino esercitato dal protagonista su un pubblico avvezzo a vedersi ammannire personaggi di cartone, falsi, inventati dagli scrittori allo scopo di offrire un esempio di «eroe positivo» – soldato, operaio o intellettuale che fosse – fornito di una salda coscienza di classe, dedito in modo esclusivo all’ideale del trionfo e dell’edificazione della nuova società socialista, personaggio nel quale la razionalità e la coscienza del dovere unico e assoluto hanno spento qualsiasi traccia di sentimenti naturali e spontanei. Era appunto questo ciò che il dogma del cosiddetto «realismo socialista» – quel realismo socialista che Kùročkin ebbe il coraggio di affermare di «non conoscere» – imponeva agli scrittori, ricorrendo a misure punitive nei confronti dei recalcitranti [ ]. Malèškin non rispondeva neppure in minima misura all’ideale dell’«eroe positivo», e la critica ortodossa nella sua stragrande maggioranza, si diede à coeur joie a stroncare il racconto prendendosela proprio con la figura del protagonista [ […]]. Ma il pubblico dei lettori non si curò minimamente del loro blaterare e decretò al racconto un successo entusiastico e incondizionato» (pp. 7 – 8).
Il valore di quest’opera non si ritrova, però, solo per contrasto. Davvero lo spessore psicologico dei personaggi è significativo; inoltre il racconto si impone come autentico senza la minima forzatura, senza che l’autore dia la sensazione di guidare la narrazione per un disegno suo. Come ebbe a dire un amico di Kùročkin, lo scrittore Vìktor Konèckij, «nel suo racconto tutto è «visivo», cioè vero nella maniera più diretta» (p. 12).
Vìktor Kùročkin, À la guerre comme à la guerre, traduzione e Prefazione di Gianlorenzo Pacini, Armando editore, Roma 2004, pp. 160, euro 12,00, ISBN: 8883585674