Paola Sarcià, Echi dall’onda, collana «Orizzonti», Associazione Culturale Il Foglio, Piombino 2012, pp. 80, euro 10,00 – Codice EAN: 9788876063800

 

«In una foresta di pietra/ ho partorito il mio dolore/ sorda al vagito dei ricordi/ ho abbandonato/ i suoi occhi umidi/ sulla roccia nuda…»: programma poetico che sembra uscire dalla cornice della prima silloge di Paola Sarcià per affidarsi al silenzio e alla voce del mare che respirano in versi trasparenti e meditativi, luminosi e acri di salsedine.

La natura si configura nell’io-narrante della poetessa e invita a guardare lontano in un reportage di immagini-parole del passato che riaffiora, fuso in una visione pluralistica in continuo dialogo religioso con la terra.

Proprio nella parola che nasce «responsabile rivelazione» per prima a se stessa, proprio nella parola isolata spesso a costituire un solo verso in quel dosaggio leggero e mai presuntuoso, la lirica dell’autrice diventa, in particolare nella seconda sezione, poesia combattente e coscienza civile del male di vivere.

Poesia che mai, in nessun verso, perde la compostezza e la grazia caratterizzanti la prima raccolta (Occhi di Zagara) e anzi ne eredita la forza migrando, dal racconto di se stessa, all’ascolto di silenzi da rivelare.

Un ascolto che, forte come zagara, abbraccia il dolore del massacro delle guerre e offre come sudario l’anima che pervade i suoi versi.

È proprio nel desiderio di fondersi nelle cose, fin quasi a una religiosità pagana di penetrazione delle stesse, che trovano la maggiore intensità questi «echi d’onda» che titolano la silloge.

«Confondermi/ tra la sabbia e l’onda/ essere anch’io/ battigia/ increspata dalla risacca/ accarezzata dalle maree/ scoglio/ sommerso e silenzioso/ che occhieggia alla luna/ spuma/ sospinta dal vento/ creatura del mare/ senza confini di pietra/ orizzonte indistinto/ in cerca d’infinito».

«Battigia», «scoglio», «spuma», identità contigue, seppur distinte in ambito semantico, concretizzano il desiderio della poetessa di dare voce alla varietà del creato con una poesia che è «sospiro dell’ansa che lusinga la sponda [ […]] prima di fondersi col mare».

L’intera lirica è un ispirato sforzo di «accordo ossimorico» con la natura che sospira dolcemente ed insieme riporta l’eco del fragore degli alberi squassati e «sconfitti dal vento» mentre emergono dai fondali chiome d’alga e timide stelle.

Questo continuo accostamento di opposti («Magica manta/ di abissi stellati/ distende le sue ali/ in un volo liquido/ cavallucci marini [ […]] risplendono nell’alchimia/ che cielo e mare trasfonde») sarà la spinta a solcare altri mari, echi e parole differenti, in una meditata introspezione che ci restituisce lo sguardo stupefatto della poetessa fattosi silenzioso e si apre in una scrittura diacronica, sempre più vasta e complessa, d’impegnato ascolto e condivisa accoglienza.

«artefice di parole/ ridisegno le forme/ di una realtà sfumata/ incendio i colori/ respiro vita», ed insieme «tutto travolge/ la marea del tempo/ che il prima e il dopo/ dissolve» ed ancora «si conta il dolore/ nelle pieghe del volto/ nelle dita scarne/ posate sul pianto dei bambini/ rassegnati testimoni/ di disumane follie».

È in questa modalità ascendente e di voluta sottomissione dell’ego, che la poesia migliore dell’autrice accompagna, con aderita pietas, volti impietriti di madri, silenzi e crocifissioni terrene «guardo piedi scalzi straziati di spine/ occhi vitrei/ scrutano un orizzonte d’argilla» mentre il mare non solo offre refrigerio e ascolto ma veicola echi straziate facendosi «altare di aneliti/ sepolcro di sogni».

Riporto infine, non senza commozione, l’immagine del «poeta non fingitore» ma tedoforo di luce bagnata di lacrime «il poeta le raccoglie/ prima di dimenticare le parole/ le ricompone in versi/ liquidi di dolore/ che cola sulla pelle».