di
Le mille e una notte
Novelle arabe

Storia del mancino

tempo di lettura: 9 minuti


— Sappiate – mi disse – essere io nativo di Bagdad.

Come fui giunto all’età di dodici anni, frequentai persone le quali avevano viaggiato e che dicevano le grandi meraviglie di Egitto, e particolarmente del gran Cairo. I loro discorsi mi fecero una forte impressione, e concepii un’ardente brama di venirvi. Nel mio arrivo al Cairo andai a smontare al Khan chiamato di Mesrour, vi pigliai un alloggio con un magazzino, nel quale feci riporre le mie balle portate meco sopra diversi cammelli.

Fui subito circondato da una folla di sensali e di venditori.

— Se volete – mi dissero – noi vi suggeriremo un mezzo di non perder nulla sulle vostre stoffe.

I sensali e i banditori avendomi promesso di insegnarmi il mezzo di non perdere sopra le mie mercanzie, chiesi loro il da farsi.

— Distribuitele a molti mercanti – ripigliarono quelli – essi le venderanno al minuto, e due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, voi andrete a ricevere il danaro ricavatone.

Accettai il loro consiglio, li condussi meco al mio magazzino, e avendo prese tutte le mie mercanzie, ritornando al Bezestein, le distribuii a diversi mercanti, i quali mi fecero una ricevuta sottoscritta alla presenza di testimoni.

In tal maniera disposti i miei affari, non ebbi lo spirito occupato se non ai piaceri. Passato il primo del mese, principiai a visitare i mercanti due volte la settimana. Ciò non impediva che gli altri giorni della settimana non andassi a passare la mattina, ora da un mercante, ora da un altro, e mi divertissi a trattenermi con essi.

Un lunedì mentre stava seduto nella bottega di uno di quei mercanti, nominato Bedreddin, una dama entrò nella stessa bottega, e si assise a me vicina.

Il suo esteriore, unito ad una grazia naturale, mi prevenne in suo favore, e m’ispirò un ardente desiderio di conoscerla meglio.

Dopo di essersi trattenuta per qualche tempo col mercante di cose indifferenti, gli disse volere una certa stoffa a fondo d’oro, per cui ella veniva alla sua bottega come la meglio provveduta.

Il mercante avendogliene fatto vedere molte pezze ad una essendole entrata a genio, ne chiese il prezzo.

Bedreddin domandonne mille e cento dramme di argento.

— Consento di darvi questa somma – gli disse colei – ma non avendo portato meco i denari, spero vi compiacerete lasciarmela a credito fino a domani, e concedermi di portar via il drappo; non trascurando di mandarvi domani le mille e cento dramme convenute.

— Signora – le rispose Bedreddin – io ve la lascerei a credito con piacere, e vi lascierei portar via il drappo se quello fosse di mia ragione, ma appartenendo a questo signore che vedete qui, non posso disporne.

— Or bene, questo è il vostro drappo – diss’ella gettandoglielo sul banco – Maometto confonda voi, e quanti mercanti vi sono.

Terminando queste parole si alzò crucciata, uscendosene piena di sdegno contro Bedreddin.

Quando vidi che la dama si ritirava, sentii il mio cuore interessarsi a suo favore e la richiamai dicendole:

— Signora, fatemi la grazia di ritornare; forse troverò mezzo di contentar l’uno e l’altra.

Essa rientrò dicendo che a far ciò s’induceva per amor mio.

— Signor Bedreddin – dissi allora al mercante – quanto volete vendere questo drappo che a me appartiene?

— Mille e cento dramme d’argento – egli rispose – non posso lasciarlo a minor prezzo.

— Rilasciatelo adunque a questa dama – ripigliai – e che se lo porti seco. Vi do cento dramme di guadagno, e vi fo una ricevuta della somma per unirla al conto delle altre mercanzie di mia proprietà, – presentando poscia il drappo alla dama:

— Potete portarlo via con voi, o signora – le dissi – e quanto al denaro me lo manderete domani, o un altro giorno.

— O signore – quella ripigliò – Il cielo per rimunerarvene, accresca le vostre facoltà, e vi faccia vivere lungo tempo.

Queste parole mi somministrarono molto coraggio.

— Signora – le dissi – lasciatemi vedere il vostro sembiante, in compenso di avervi fatto piacere.

A queste espressioni ella si volse verso di me, levò la mussolina la quale coprivale il sembiante, ed offrì a’ miei occhi una bellezza singolare. Non mi sarei giammai stancato di guardarla: ma quella prestamente si ricoprì il viso, per timore di essere osservata, e dopo aver abbassato il velo, pigliò la pezza del drappo ed allontanossi dalla bottega.

Non potei chiuder occhio in tutta la notte. Giunto il giorno mi alzai, con la speranza di vedere l’oggetto amato.

Poco dopo il mio arrivo alla bottega di Bedreddin vidi venir la dama accompagnata dalla sua schiava. Ella non guardò il mercante e rivolgendosi a me solo:

— Signore – mi disse. – Vengo espressamente per portarvi la somma, di cui vi compiaceste di buon grado risponder per me.

— Signora – le risposi – non era d’uopo darvi tanta premura, non aveva inquietudine alcuna pel mio danaro.

Approfittando allora dell’occasione, le parlai dell’amore immenso che per essa sentiva: ma ella si alzò, e mi lasciò tutta sdegnata, come se fosse stata offesa della dichiarazione fattale.

Io mi congedai dal mercante, ed uscii dal Bezestein senza sapere ove me ne andassi; quando sentii tirarmi per di dietro.

Mi voltai subito, e con piacere riconobbi la schiava della dama a cui andavo sognando.

— La mia padrona vorrebbe dirvi una parola; compiacetevi, se vi aggrada, darvi la pena di seguirmi.

Non me lo feci dir due volte e rinvenni l’oggetto amato nella bottega di un banchiere, ove se ne stava a sedere.

Fece sedere me pure a lei vicino, preparandosi a parlarmi.

— Mio caro signore – mi disse – non siate sorpreso se vi ho lasciato con un poco di sdegno: ma non ho giudicato a proposito, alla presenza di quel mercante, di corrispondere in altro modo alla confessione da voi fattami. Lungi di offendermene, confesso che prendeva piacere nell’udirvi, e mi reputo infinitamente felice di aver per amante un uomo del vostro merito.

— Signora – ripigliai trasportato d’amore e di giubilo – nulla poteva udire di più grato, di quanto avete la bontà di dirmi.

— Non perdiamo tempo in inutili discorsi – essa interruppe – non dubito della vostra sincerità, e ben presto sarete persuaso della mia. Volete voi farmi l’onore di venire alla mia casa? Oggi è venerdì, domani verrete dopo la preghiera del mezzodì. La mia casa è situata nella strada della Devozione. Non avete altro se non a chiedere l’abitazione di Albos Schamma, soprannominato Bercour, già capo degli Emiri; colà mi troverete.

Nel giorno stabilito m’alzai di buon mattino; indossai il mio più bell’abito, presi una borsa, ove riposi cinquanta pezzi d’oro, e salito sopra un asino, me ne partii, accompagnato dall’uomo che me lo aveva noleggiato.

Arrivato nella strada della Devozione, dissi al padrone dell’asino di ricercare ove fosse la casa di Bercour ed essendogli stata insegnata, mi vi condusse. Lo pagai con generosità, e lo licenziai, raccomandandogli di bene osservare la casa ove mi lasciava, e di non trascurare di venire a riprendermi la seguente mattina.

Picchiai alla porta e subito due gentili schiave bianche come la neve e riccamente vestite, vennero ad aprire; mi fecero entrare in un salone magnificamente ornato.

Non aspettai lungamente nel salone; la dama amata, in breve vi giunse adorna di perle e di diamanti, ma assai più rifulgente per lo splendore de’ suoi occhi, anziché per quello delle sue gioie.

Fu apparecchiata la mensa, nella quale furono apprestate le più delicate e squisite vivande.

Ci ponemmo a tavola; e dopo mangiato ricominciammo il nostro trattenimento, che durò fino alla notte.

La mattina seguente, dopo aver posto destramente sotto il capezzale la borsa co’ cinquanta pezzi d’oro portati meco, diedi un addio alla dama, la quale mi domandò quando sarei tornato a rivederla.

— Signora – le risposi – prometto di ritornare questa sera.

Continuai a vedere la dama tutti i giorni, lasciandole ogni volta una borsa di cinquanta pezzi d’oro.

Finalmente mi ritrovai senza danaro.

In questo deplorevole stato, in preda alla disperazione, uscii dal Khan senza saper ciò che mi facessi, e me ne andai dalla parte del castello, ove era moltissimo popolo radunato.

Arrivato che fui nel luogo ov’era tutta quella gente, m’inoltrai nella folla, e mi trovai a caso vicino ad un cavaliere ben montato, che teneva all’arcione un sacco mezzo aperto, dal quale usciva un cordone di seta verde.

Ponendo una mano sopra il sacco, giudicai esser quello il cordone di una borsa.

Nel mentre formava questo giudizio, cavai la borsa senza che veruno se ne accorgesse.

Il cavaliere forse erasi insospettito di quanto io aveva fatto, pose subito la mano nel sacco, e non ritrovandovi la borsa, mi diede un sì gran colpo con la sua scure che mi rovesciò a terra.

Tutti quelli che furono testimoni di tal violenza ne rimasero stupefatti, e qualcheduno pose la mano sopra la briglia del cavallo per fermare il cavaliere, e dimandargli per qual ragione egli mi aveva battuto e si era permesso di maltrattare in tal modo un mussulmano.

— In che v’intrigate voi? – rispose loro con voce arrogante – io non l’ho fatto senza ragione; questo è un ladro!

Il Luogotenente criminale allora ordinò alle sue genti di arrestarmi, e frugarmi: il che venne tosto eseguito ed uno fra essi, avendomi levata la borsa, pubblicamente la mostrò.

Non potei resistere a tale vergogna, onde caddi svenuto.

Il luogotenente criminale si fece portar la borsa e quando l’ebbe nelle mani, dimandò al cavaliere se fosse sua, e quanto denaro vi avesse posto. Il cavaliere la riconobbe ed assicurò esservi dentro venti zecchini. Il giudice l’aprì e avendovi trovato effettivamente venti zecchini, gliela restituì.

Subito mi fece andare alla sua presenza.

— Giovinotto – mi disse – confessatemi la verità. Siete voi quello che avete preso la borsa a cotesto cavaliere? Non aspettate che io impieghi i tormenti per farvelo dire.

Allora abbassando gli occhi confessai la mia colpa.

Appena ebbi fatta tale confessione, il luogotenente criminale, dopo aver chiamati molti testimoni, comandò che mi venisse tagliata la mano, e la sentenza fu nello stesso momento eseguita: la qual cosa eccitò la pietà di tutti gli spettatori, osservai pure il volto del cavaliere il quale mi si accostò dicendomi:

— Conosco molto bene esser stata la necessità che vi ha fatto commettere un’azione cotanto vergognosa e indegna di un giovane della vostra qualità; pigliate questa borsa funesta, ve la dono, e mi rincresce della disgrazia toccatavi.

Il giovane di Bagdad terminò di narrare in tal maniera la sua storia al mercante cristiano, dicendo:

— Ciò che avete inteso deve valermi di scusa per aver mangiato con la mano sinistra. Io vi sono molto obbligato del vostro disturbo a mio riguardo, e non posso esservene a sufficienza riconoscente: ma avendo, grazie al cielo molte ricchezze, ancorché ne abbia consumate gran parte, vi prego tenere per voi la somma che mi dovete.

— Questa è l’istoria: non è più sorprendente di quella del gobbo?

Il sultano di Gasgar concepì molto sdegno contro il mercante cristiano.

— Tu sei un temerario – gli disse – a farmi il racconto di una storia tanto poco degna della mia attenzione, e di paragonarmela a quella del gobbo! Puoi tu lusingarti di persuadermi, che gl’insipidi accidenti di un giovine dissoluto siano più meravigliosi di quelli del mio gobbo buffone? Voglio farvi appiccare per vendicare la sua morte!

A queste parole il Provveditore si gettò a’ piedi del Sultano.

— Sire – gli disse – supplico la Maestà Vostra di ascoltarmi e di far grazia se l’istoria, la quale sto per raccontare è più bella di quella del gobbo.

— Ti concedo quello che chiedi – rispose il Sultano – parla.

Continua…


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TITOLO: Storia del mancino

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.

SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale