Il pane dei morti.

di
Caterina Percoto

tempo di lettura: 32 minuti


L’autunno declinava: le cime dei monti già innevate, il verde della campagna ogni giorno più languido e giallastro.

Oramai la maggior parte delle famiglie signorili dei contorni s’erano ritirate alla città, e quei casini deserti, colle finestre chiuse, rientrati nel silenzio e nell’abbandono, accrescevano la malinconia della moribonda natura. Solo la contessa Ardemia della Rovere continuava ad abitare nella sua tranquilla villetta, e dal nessuno apparecchio, dal nessuno movimento nella sua casa pareva ch’ella avesse deciso di passare in campagna anche l’inverno. Aveva ricevuto le visite di congedo dei parenti, degli amici, e alle loro sollecitazioni di seguirli in città, aveva risposto sempre con indeterminate e vaghe promesse; ma in suo cuore, lungi dal temere quella solitudine ch’essi le dipingevano a negri colori come argomento a determinarla alla partenza, si consolava anzi di potersela a suo agio godere, affrancata dalle continue visite e dal cicaleccio di tanti importuni.

Un po’ per vaghezza di novità, un po’ per capriccio giovanile, ella aveva in quell’anno intrapreso un lungo viaggio, e dimorato alcuni mesi in seno alla società d’una delle più cospicue capitali. Vedere co’ propri occhi quei centri di civiltà e di eleganza, che aveva tante volte sentito a magnificare dagli altri, partecipare ai tanti piaceri e divertimenti che ivi si offrono all’avvenenza e alla ricchezza, gettarsi nel bel mondo per ammirare da vicino tanti nuovi oggetti che la fantasia le indorava in mille modi lusinghieri, ed anche un tantino nel secreto del suo cuore per farsi ammirare, quest’era stato spesso il sogno accarezzato de’ suoi giovani anni, ed ora che le circostanze della sua vita l’avevano resa libera, ella aveva voluto effettuarlo. Ma, o che un bene lungamente agognato, nell’atto del possesso riesca sempre minore della realtà, o che quei frivoli piaceri non avessero radici abbastanza tenaci per germogliarle nel cuore, ella si trovò presto stanca di quella vita dissipata e senza scopo; e in mezzo alle conversazioni, ai teatri, ai balli, dove il suo spirito ed i suoi molti doni naturali e di fortuna l’avevano resa cara più di quanto ella stessa avesse osato ripromettersi, le sorgeva nell’animo il desiderio dei campi paterni, delle sue collinette, de’ suoi buoni contadini, della tranquilla e semplice vita, a cui si aveva da qualche tempo assuefatta. Aveva fatto quel viaggio ad oggetto di divertirsi, e invece grandemente s’annoiava, e ogni sera si riduceva nella sua camera da letto malinconica e infastidita di tutto, come chi ha sprecato malamente il suo giorno. Si rammaricava seco stessa di non saper godere come gli altri, le pareva d’esser di cattivo gusto, e prefiggevasi per l’indomani nuove gite di piacere e nuovi sollazzi. Ma indarno ella passeggiava per quegl’immensi giardini, dove la mano dell’uomo ha saputo domare una natura ritrosa e forzar la terra quasi suo malgrado qui ad elevarsi in molli colline, là ad aprirsi in vaghi laghetti popolati di cigni e cinti di piante esotiche; più lungi a distendersi in pratelli, in viali il cui verde comperato a forza di fatiche contrastava evidentemente colla sterile campagna dei dintorni, col clima umido, col cielo freddo e nebuloso. Con un senso d’insuperabile amarezza, che le metteva sul labbro il sorriso dell’ironia, ammirava nelle serre costose agglomerati quei tanti fiori provenienti dalle più diverse contrade, e la magnolia e la palma gigantesca imprigionate sotto una vòlta di vetri, e sentiva per esse il desiderio della lontana lor patria. Lodava l’arte che con gentile magistero aveva saputo vestire le sterili zolle dei più ridenti colori, e disporli a disegno in modo che acquistassero vaghezza dal contrasto, e per servire a’ suoi fini costrignere innumerabili calici a sbocciare tutti in un colpo; ma in suo cuore sentiva di preferire l’umile pervinca nata spontanea tra le macerie d’un muricciuolo o sulle sponde d’un capriccioso rivoletto, e i balsami delle tante rose silvestri che inghirlandavano le collinette del suo paese. Così del pari in quelle sale, dove il lusso più raffinato adunava tutte l’eleganze della moda, e dove lo spirito e la bellezza venivano a far pompa tra la luce dei doppieri e le ricche suppellettili, ella si trovava come in disagio, e procurava indarno di far tacere una specie di voce secreta, che fin lì tra quelle magnificenze ardiva richiamarle alla memoria i semplici ma cordiali saluti della povera Menica, o le vivaci risposte d’Ermagora, quando senza tanti rispetti palesava alcuna parte del suo energico sentire. – In patria ella sfuggiva le conversazioni e i convegni, perchè dopo le sue vicende le pareva di leggere in ogni volto un’amara ironia, e il rimprovero del suo passato; qui, dove non era conosciuta, credette di poter di nuovo godere della società, ma s’accorse ben presto che cotesta appunto era la ragione che glielo impediva. Ell’era straniera: nessun legame d’affetto colle persone che la circondavano; nè a lei altro interesse veniva donato, che quello della curiosità. Quando aveva fatto mostra di quel poco di spirito che l’educazione le aveva fornito e ricevuto l’omaggio di quello degli altri, ogni attrattiva era esaurita. Nulla arrivava fino al suo cuore, ed esso le si chiudeva per abbandonarsi alla noia. Quelle frasi melate, quei complimenti smaccati, a cui era costretta opporre, o in un modo o nell’altro, le stesse convenzionali risposte, le parevano un insipido gioco, un vero luogo comune. Sentiva di non essere amata, e non vedeva l’ora di ritornarsene laddove poteva essere utile agli altri, e far ancora palpitar qualche cuore. Sicchè partì disingannata di molte illusioni, e guarita in gran parte da quella smania femminile di far comparsa ed attirarsi gli occhi e l’applauso della frivola moltitudine. Soprattutto era rimasta tanto disgustata dallo strepito e dalle vanità cittadine, che risolse di fermar per sempre la sua dimora in campagna, e di cercar un compenso alla mancanza della famiglia e al vuoto che la circondava col dedicarsi tutta a far fiorire, per quanto in lei stava, l’agricoltura, e procurare, come una madre affettuosa, il benessere e la felicità de’ suoi buoni dipendenti. In tale disposizione ella vide passare in quell’anno l’autunno. Partiti i signori, e liberata dalle tante lor visite, le pareva di respirare, e s’occupava alacremente col signor Giovanni de’ suoi progetti, e dei lavori e delle migliorie ch’egli le andava suggerendo.

Era alla fine d’ottobre. In molti luoghi del Friuli esiste un’antica pratica, per cui ogni famiglia nel dì d’Ognissanti dispensa al popolo una quantità di pane a seconda della propria agiatezza. Non è già questa un’elemosina. Vengono a riceverlo tutti gli abitanti del villaggio, e prima d’assaggiarlo, pregano per i defunti del donatore. Contadini benestanti, capi di famiglia, artieri e mugnai, che in tutt’altra occasione si vergognerebbero d’accettare la più piccola carità, in quel giorno, confusi ai poverelli, battono alla tua porta, e senza rossore ti domandano il pane dei morti. Poi alla lor volta dispensano anch’essi la propria fornata. Anzi, dove non ci sono signori, ogni contadino, fa tanti grossi pani di sorgoturco quante sono le famiglie del villaggio, e vanno in giro a riceverlo, e a vicenda lo dispensano agli altri; sicchè in quel giorno ognuno assaggia il pane dei fratelli, e prega per i loro defunti, mettendo così, almeno una volta all’anno, in comunione il cibo, l’affetto e la preghiera. – La contessa Ardemia, che si ricordava d’aver veduto come in quel giorno il suo avo paterno, assiso nel suo ampio seggiolone a bracciuoli, dinanzi ad una tavola nel salotto a pian terreno dispensava colle proprie mani il pane dei morti ai contadini, che in turba venivano lì a riceverlo, e a salutare il loro vecchio ed amato padrone, trovava questa pratica pietosa troppo secondo il suo cuore, perchè non pensasse a ripristinarla. La mattina d’Ognissanti, dopo la messa parrocchiale, ell’era difatti seduta con tutta gravità nel posto, dove la memoria, con uno dei quadri indelebili dell’infanzia, le rappresentava la faccia serena e i bianchi capegli del buon’avo, e teneva ai lati diversi grandi panieri colmi fin sotto al manico di picce sgranellate e allora allora cavate dal forno. Il cortile era già pieno d’una moltitudine di gente, che faceva pressa alle porte della cucina, dove i servi appostati li lasciavano entrar con ordine, onde non facessero confusione dinanzi alla Contessa nel salotto, e poi uscissero quietamente dall’altra porta che dava sul giardinetto. Entravano a due, a tre, a quattro; or una madre coi figliuoletti, or un’altra col suo bimbo fra le braccia, or un vecchio venerando, or una turba di garzoncelli e di giovanetti; e tutti, salutata con affetto la signora, si baciavano in segno di riverenza il dorso della mano, prima di distenderla al panetto, ed uscivano fra lieti e commossi. Alcuni, i più noti e famigliari a lei, si fermavano a dirle qualche parola d’amicizia, o qualche complimento al modo loro, ma venuto dal cuore; le madri particolarmente mettevano una specie d’ambizione nel presentarle i lor bamboletti, gli ultimi nati, quelli ch’ella non aveva ancora veduti, e che lì imparavano per la prima volta a sorridere alla buona signora. Fra i tanti che in quel giorno le passarono dinanzi, una donna le rimase profondamente impressa. Teneva per la mano un fanciulletto assai sparuto e meschino, che si asciugava col grembiule della madre gli occhi lagrimosi; un altro veniva dietro, attaccato al lembo della gonna; e in braccio, un piccino accoccolato sul suo seno e avvolto quasi tutto nel bruno fazzoletto ch’ella portava in testa…. Era pallida; e al primo vederla, la Contessa non seppe raffigurarla, quantunque quella fisonomia non le paresse affatto nuova. Ma quando, invece di seguire l’esempio della maggior parte degli altri e prendere d’in sulla tavola il pane che le veniva offerto e andarsene, ella si tirò all’un dei lati, e fattasi vicina alla Contessa insegnava al più grandicello dei fanciulletti a baciarle la mano, ed ella stessa, presi i panetti per sè e per i due piccioli, gliela strinse con grande affetto e gliela baciò lasciandovi cader sopra una lacrima, l’Ardemia si risovvenne: e — Rosa! le disse, con quella sua voce affabile e manierosa. Sei tu, mia buona Rosa? È tanto tempo che non ti vedo, ch’io quasi non sapeva neanche più ravvisarti! — Esse erano a un dipresso della stessa età; e prima che l’Ardemia fosse messa in convento, avevano più d’una volta giocato insieme da fanciullette e corso pei prati a caccia di farfalle e di fiori. Ma l’una si conservava ancora in tutta la freschezza della gioventù, mentre la povera Rosa, oppressa forse dagli stenti, e da qualche secreta malattia, era dimagrita, aveva perduto il colore, e ad onta de’ suoi graziosi lineamenti appena poteva dirsi l’ombra di sè stessa. Era proprio la rosa dell’ultimo dicembre, bella tuttavia nel suo malinconico pallore, ma appassita e languente prima ancora d’aver finito di sbocciare. Quella cera macilente, que’ fanciulli sparuti, quella stretta di mano, e quella lacrima, le duravano fisse nella memoria. Fantasticava quali potevano essere i suoi casi, quale il dolore che così anzi tempo l’andava consumando. La sapeva maritata di suo genio con un giovane sartore del paese, che campava onoratamente lavorando del suo mestiere nelle famiglie dei contadini. Era padrona sola in casa e pareva che non avesse motivo di lagnarsi nè dell’amore del marito nè di malattie o di disgrazie che si sapessero. Del resto, non apparteneva ai coloni della Contessa, e de’ suoi fatti ella non se n’era interessata più che tanto. Ma ora sentiva bisogno di penetrare in quel cuore.

Nel dopo pranzo d’Ognissanti la gente concorre tutta alla chiesa, e pregano per i defunti. I sacerdoti, dopo aver cantato in tuono funebre l’esequie e asperso d’acqua benedetta il catafalco eretto nel mezzo della chiesa a ricordare il dì dei morti, e gli antichi sepolcri dell’interno, passano processionalmente nel cimitero e si fermano sui tumuli a recitare le preci raccomandate dalla pietà dei superstiti. Alcuni li seguono, la maggior parte si ferma inginocchiata sui banchi, e accompagnano sommessamente quelle voci monotone e devote, che si sentono farsi or più dappresso or più lontane a seconda del luogo dove riposano le ossa dei trapassati. La funzione dura a lungo, sicchè la gente viene e va per dar luogo agli altri ed assistervi tutti alla lor volta. L’Ardemia era venuta anch’essa, e cercando cogli occhi per la chiesa vi rinvenne la Rosa, che inginocchiata in un angolo vicino alla parete pregava con gran devozione, e ogni tanto sollevava all’altare gli occhi bagnati di lagrime, poi di nuovo tirandosi sulla faccia il fazzoletto si nascondeva con esso e colle mani congiunte su cui si teneva abbassata. Le stava dappresso uno dei figliuoletti, e stanco di pregare l’andava ogni qual tratto punzecchiando. Parve che la donna si lasciasse finalmente persuadere da quella muta eloquenza, perchè, difatti, di lì a pochi istanti sorse, e giunta alla pila dell’acqua benedetta, colla mano con cui si aveva segnata toccò le dita al bambino, gli fece fare la croce e devotamente inchinatasi partì con esso. Venne allora in mente all’Ardemia di approfittare del momento in cui tutti erano alla chiesa per recarsi non veduta da lei a vedere se pur poteva in qualche maniera asciugare quelle lacrime. Uscì con questa intenzione, e lenta lenta s’avviò verso la dimora della Rosa. Giunta alla casuccia, ristette in forse sull’uscio semichiuso, mal sapendo se dovesse spalancarlo ed entrarvi, mentre udiva i due fanciulli che tra loro altercavano, e la madre pareva che fosse salita disopra ad acquietare il piccino.

— Capiscila una volta, Menichetto! Lascia stare quella sedia. Vuoi romperti il collo? Lo dico alla mamma veh! Mamma! (strillava con voce più acuta.) Ve’ Menichetto che ha messo una sedia sulla tavola e s’arrampica a dispiccare l’ultimo manipolo dell’uva che ci ha portato pappà!

— Ho fame io! gridava l’altro piangente. Tu se’ stato a casa, e avrai mangiata intanto mezza la pappa di Vigi, e poi mi hai tolto il pane dei morti….

— Il pane dei morti non si può mangiare se prima non si prega.

— Ma io sono stato in chiesa, ho pregato e voglio mangiare. È diventata una cosa curiosa in questa casa. Adesso non si fa più polenta, non minestra…. Tu e la mamma non fate che continuamente piagnucolare. Ha ragione il pappà che diceva l’altra sera ch’è stufo di voi altri….

— Vien qui, ti dico! Non vedi la sedia che tentenna? Via, da bravo, aspettiamo la mamma e mangeremo insieme il pane dei morti.

In quello si sentiva la donna che discendea la scala. Mise un grido, vedendo dove s’era arrampicato quel diavoletto, lo prese in braccio, gli tolse l’uva che aveva già dispiccata, e fattili inginocchiare tutti e due, recitò adagio un Pater ed un’Ave, che essi accompagnavano con quelle loro vocine infantili. Poi diviso il manipolo dell’uva, lasciò che se la mangiassero insieme col pane. — E tu mamma, non mangi uva? chiese il più grandicello.

— No, figliuoli miei; sapete pure ch’io non ci penso.

— Ma, e questa mattina per dare a noi la polenta che ti aveva regalato la Maddalena non hai neanche fatto colazione….

— E adesso, ripigliava Menichetto, e adesso pane solo! Mangia, mamma, un po’ di uva! Ti prego, almeno questo picciolo grappoletto! Guarda com’è bello, neppur un acino ammezzito!…

— Via, da bravi bambini, state quieti. Anzi per non spargere i granelli e insudiciarmi la tavola, prendete là quella panierina e andate giù nell’orto sotto la pergola; ch’io mi fermo qui per sentire se piange Vigi.

— Eh! disse allora il maggiore colla voce piena di lacrime, tu ci mandi via!… So bene io perchè! La donna non rispose, ma il fanciullo gettandosele fra le braccia:

— Ah mamma! continuò, tu vuoi fare come jer l’altro: invece di mangiare, tu ti metti qui colla testa fra le mani appoggiata sulla tavola, e piangi tanto tanto! Oh Dio mio! se fai così, tu diventi ogni giorno più pallida e finirai coll’ammalare….

— Via mattuccio! che pensieri son cotesti? Sapete pure, che quando voi altri siete buoni, io sono sempre contenta. Ed alzatasi, mise ella stessa l’uva nella panierina, aprì la porta dell’orto, ve li condusse e li congedò, accarezzando prima la bionda e ricciuta testolina del vispo Menichetto, e poi quella di Tita, che quando si sentì sul capo la mano di sua madre, alzò la faccia e gliela baciò con trasporto affettuoso. L’Ardemia allora si fece coraggio e si mostrò sull’uscio come in atto di picchiare.

— La Contessa! sclamò la donna meravigliata.

— Sì, mia buona Rosa, son io, diss’ella, che tornando dalla chiesa ho voluto venirvi a trovare. E presa la sedia ch’ella le offeriva, vi si assise con tutta dimestichezza.

— Sai tu, che quando ti ho veduta questa mattina, io mi sono grandemente rimproverata d’aver lasciato passare tanto tempo senza vederci? Siediti qui, Rosa, e discorriamola un poco insieme, perchè una volta noi eravamo grandi amiche….

— Oh! ella mi ha sempre trattata con bontà….

— Di’ che ti voleva un gran bene, e che tu pure allora me lo volevi! Dopo ci hanno divise; mi hanno messo in convento, ho vissuto in città, mi sono maritata…. Insomma sono passate tante cose!… E se tu sapessi quanto ho patito! Ma ora non vado più via, sai; mi stabilisco per sempre qui in campagna, e vogliamo rinnovare la nostra antica amicizia. E strinse con affetto la mano alla contadina.

— Ti ricordi, Rosa, quanto correre insieme per i prati di Soleschiano, allorchè si andava a caccia di farfalle? e quei tanti fiori che tu mi portavi?…

— Erano bei tempi quelli! – disse Rosa commossa, abbassando gli occhi e chinando la testa sul petto.

— Io mi ricordo sempre di un nido di capinere che tu avevi scoperto dietro il viale, e che andavamo ogni giorno a visitare godendoci a guardar quei poveri uccellini implumi che ci pigolavano incontro, come se loro avessimo portato l’imbeccata. Ma non gli abbiamo mai toccati! ci faceva compassione la madre, che ci svolazzava dappresso osservandoci e tremando per i suoi piccini. A proposito, e quanti figliuoletti hai tu?

— Ne ho tre…. I tre che avevo meco stamane.

— In quella confusione ho avuto appena tempo di guardarli; ma me li condurrai in casa, non è vero?

— O signora! poichè me lo permette….

— Via, trattiamoci con confidenza, Rosa. Io sono sola al mondo! Ho la disgrazia di non aver figli…. Oh! se tu sapessi come amerei una creaturina che fosse mia…. Ma mi fa piacere l’accarezzare almeno quelli degli altri; quelli degli amici. Compensami un poco, Rosa, e promettimi di condurmi spesso i tuoi…. Rosa, a questa preghiera che le rivelava la fraternità della sventura, dimenticò ogni differenza di condizione, e gettate con impeto le braccia al collo della Contessa si strinsero entrambe in un amplesso, come quando erano fanciulle e si amavano ignare ancora delle umane vicende e delle triste disuguaglianze della sorte.

— Dimmi, e dov’è tuo marito? Chiese la Contessa dopo un momento di pausa.

— Ah…! egli è fuori. — E la Rosa si lasciò andare a un dirotto di pianto.

— Non mi nasconder nulla. Io ho già letto nel tuo cuore. Tu sei infelice! e devi confidarti con me che ti sono amica e sorella. Non sai tu, che s’io non posso asciugarle, voglio almeno divider le tue lagrime? Povera la mia Rosa! dunque egli non ti ama più?… E dov’è andato? Dimmi tutto, che io comprendo il tuo dolore. Ho tanto patito in questo mondo, che purtroppo so per prova che cosa sia voler bene e vederci pagati d’ingratitudine. Rosa non poteva parlare, ma scuotendo il capo accennava che non era già questa la cagione del suo cordoglio. Quando credette d’essere in grado di superarsi, raccolse tutta l’energia di cui era capace, e proferì con voce calma:

— No! non è del suo amore ch’io mi lagno. Ei non ha veruna colpa meco, e ci ama anche troppo. Ma non posso nè devo dirvi di più. Tradirei quel povero disgraziato, e non farei altro che precipitare me stessa e le mie creature!

— Precipitarti? precipitar le tue creature? Che dici mai Rosa? Egli potrebbe dunque cader in mano della giustizia? Egli ha dunque commesso qualche delitto?

— Ah no, buon Dio, che non lo avrà commesso! La Madonna benedetta, che ho tanto pregato a questi giorni, gli avrà tenuto la mano sul capo! È tanto tempo ch’io non inghiotto che lagrime! Possibile, ch’egli voglia farmi morire? — e si torceva le dita quasi fuori di sè stessa.

— Or via, tranquillizzati, e discorriamo insieme. Chi sa ch’io non possa giovarti? Intanto dimmi, dov’è? Sai ch’io ti voglio bene, e di me puoi fidarti come di te stessa. Forse che astretto dal bisogno….

— Sì! il vederci senza pane…. quelle creature che piangevano….

— Ma…. e dunque il mestiere non vi dava abbastanza da campare? Io ho sempre creduto che non vi mancasse il modo di sussistere onoratamente, perchè…. non era egli che lavorava da sarto in quasi tutte le famiglie del paese?

— Quand’io l’ho sposato, le cose andavano bene; si mise a narrar la donna allorchè si fu un poco rimessa in calma. Egli cuciva non solo a tutti quei del villaggio, ma anche a parecchie famiglie dei vicini. Non ci mancavano mai lavori. Di più, io avevo da ragazza, quando venivo per casa vostra, imparato dalle cameriere della mamma a dar qualche punto, a stirare ed azzimar la biancheria, e m’ingegnavo a guadagnarmi qualche soldo col lavare i fazzoletti di tulle alle contadine e con altri piccioli servigetti. Avevamo allora la nostra cucina ben fornita, non ci mancava niente, e nel nostro stato potevamo dirci ricchi, mentre ci avanzavano sempre un pajo di talleri. Ma un disgraziato accidente ci ha rovinati…. A poco a poco egli ha perduto tutti gli avventori….

— Ma come è stata questa faccenda? Via da brava, narrami tutto.

— Oh Dio! disse Rosa, se sapeste, quante umiliazioni ho sofferte! Sentirci trattar da ladri! Veder il mio Tita scacciato dalla compagnia degli altri fanciulli come un mariuolo…! E le donne chiacchierare dei nostri fatti! E quand’io entrava nelle loro case, guardarmi sospettose per paura che involassi qualche cosa…. Mi sono avvilita, non ho più ardito dimandar lavoro a nessuno…. Non oso più neanche lasciarmi vedere…! E tutto per uno sbaglio, per una cosa da nulla, che può succedere a qualunque galantuomo.

— E perchè non palesar subito il caso e scolparvi col dire la verità?

— Oh sì! che ci avrebbero creduto! E poi, quando noi ci siamo accorti, il danno era già fatto. Ecco come fu l’istoria. Egli aveva in costume d’uscir qualche volta con lo schioppo. A me veramente non garbava gran fatto, perchè a cagione di cotesto ei si trovava di necessità in compagnia di certi giovinastri poco di buono, o almeno sfaccendati, a cui se avesse somigliato sarei stata disperata. Sopportavo peraltro. Era così chiuso e sedentario, che un poco di svago mi pareva necessario alla sua salute. Una mattina, eravamo sul finire d’ottobre, e da parecchie settimane si lavorava giorno e notte per allestire due spose, egli stanco mi getta il sottanino che cuciva e mi dice alzandosi: Non manca che di fare il sopraggitto alle cuciture e di terminare la balzana, e per que’ pochi punti già basti tu. Non ho proprio più volontà di lavorare, e a forza di star giù piegato mi duole il collo. Invece d’andarmene a giornata, esco con lo schioppo. Mi han detto che sul Nadisone ieri si son visti vari stormi d’anitre selvatiche. Voglio vedere se posso buscarti da cena. — La sera non era tornato. Mi coricai inquieta e pensando a mille malanni. Venne assai tardi e mi accorsi che aveva bevuto. Nel dimani io era ingrognata, egli pentito procurava di rabbonirmi a forza di carezze. Sai, Rosa, mi disse, ch’io non son solito a darti di questa sorte di dispiaceri, e ti prometto che sarà l’ultima volta. E voleva darmi lo schioppo, che lo chiudessi nell’armadio oppure che lo vendessi, onde non lasciarsi mai più tentare a far di simili scappate. Poveretto! sarebbe stato crudeltà privarlo di quel suo unico divertimento. Solo lo pregai a voler per amor mio sfuggire le compagnie e non gettar malamente i soldi all’osteria e star fuori, senza avvertirmi, la notte, perchè era questo che mi dava pena. È stato un puro accidente, egli allora mi disse; un accidente curioso, che voglio narrarti. Ieri mattina,quando sono uscito alla caccia, io mi tirai verso le ghiaje del Nadisone dove confluisce colla Torre, ed era affatto solo. Girava tra i saliceti ed i pioppi laggiù lungo il renajo in traccia dei maggiorini. Il sole era bellissimo e dava nelle acque che da lungi luccicavano tra i sassi. Io guardava la corrente, quando in un sito mi parve di scorgere qualche cosa di bruno, come una turba di volatili che si sciaquattassero. Pensai che fosse il selvaggiume, e messomi carpone dietro un cumulo di ghiaie mi strascinai adagio adagio così nascosto finchè credetti d’essere a tiro. Alzo un momento la testa, ed era uno stormo infinito che mi fece balzare il cuore dalla gioja. Allora lascio andare la schioppettata e salto in piedi per esser pronto coll’altra canna a dar la seconda, allorchè si fossero aggruppati alzandosi in colonna. Ma qual fu la mia sorpresa, quando, invece di levarsi a volo, li vidi fuggir tutti sparnazzati per la corrente. Capii d’averla fatta grossa, e che erano le anitre del vicino mugnaio. Mortificato mi trassi al torrente e le uccise venivano giù per l’acqua supine e co’ piedi all’aria. Ne pescai cinque. Non sapeva che farmi. Portarle a casa, temeva che passando per il villaggio qualcheduno me le vedesse. Andare al molino e confessare lo sbaglio, no davvero non me ne sentiva il coraggio. La Giustina avrebbe fatto uno scalpore del diavolo, nessuno al mondo avrebbe potuto persuaderla della mia innocenza. Tu sai che donna è colei: la sola idea d’impicciarmi colla sua lingua mi faceva tremare. Sicchè, non vedendo rimedio, guadata l’acqua, le portai all’osteria di Bolzano. Ivi erano parecchi amici stati alla caccia prima di me, che annoiati di non trovar nulla s’erano messi a bere, e le abbiamo mangiate insieme. – Ahimè! invece di codesto sarebbe stato ben meglio sopportare tutte le contumelie della Giustina, e pagargliele magari un occhio del capo! O che l’oste abbia parlato, o fors’anche qualcuno degli stessi compagni, il fatto sta, che non andò guari che la cosa si riseppe. Cioè, si riseppe che mio marito aveva portato a cucinare nell’osteria di Bolzano le cinque anitre. La mugnaia che le aveva cercate per mare e per terra, e che ogni sera si fermava ore e ore sull’uscio del molino e lungo il canale a chiamarle a perdita di voce, andò sulle furie. In quell’anno, per soprassello di disgrazia, qui e colà per il paese erano spariti parecchi capi di bestiame. La Giustina non mancò di vociferare colle comari, come finalmente si sapeva dov’erano andati, e narrava a suo modo la storia delle anitre. Si cominciò a guardare sinistramente mio marito, e nelle case dove andava al lavoro lo tenevano d’occhio. I contadini, che costumano uscir tutti pe’ campi alle loro faccende e lasciar la casa abbandonata, non trovavano più del loro conto servirsi di persona sospetta. Per trarsi d’impiccio barattarono sartore. Oggi una famiglia, dimani l’altra, in poco d’ora si perdette tutti gli avventori. Egli uggioso, tra per le malegrazie che riceveva, tra per le strettezze domestiche, si mise a frequentar l’osterie, credendo col vino d’assopir la passione. Ivi fece delle conoscenze…. Certi disgraziati cominciarono allora a bazzicarci per casa. Capitavano a straore, domandavano di lui, e c’era sempre qualche mistero, qualche secreto. Dio! o Dio! come fu tutto in breve cangiato. Egli, che una volta non faceva pensiero senza tosto comunicarmelo, diventato taciturno mi sfuggiva, mi trattava come una straniera, pareva che avesse paura della mia presenza. Vedendomi strillare, e i fanciulli mal nutriti, piangenti, arrabbiava e teneva certi propositi così poco cristiani ch’io ne fremeva, e piuttosto che udirli quasi desiderava se ne stesse fuori. Una volta ci portò dell’uva. Alla mia dimanda: come avuta? rispose: regalata nelle famiglie dove cuciva; ed era un anno che non dava un punto! Questi giorni passati pareva che mulinasse qualche gran cosa. Guardava accorato ai bambini, e a me disse: che se voleva morire, mio danno…. ma che le sue creature egli voleva ad ogni costo nutrirle; che il mondo era grande, e che roba ce n’era per tutti! Poi diede in iscandescenze scagliandosi contro i ricchi e profferendo bestemmie orribili che mi fanno ancora agghiacciare il sangue. Ieri l’altro, dopo l’Avemaria, vennero qui a cercare di lui due persone ch’io non aveva mai più vedute, e verso mezzanotte è partito con essi.

— E ora dov’è? chiese la Contessa con visibile sgomento.

— Di preciso non lo so…. — e Rosa tremava, e colle mani convulse strignendo quelle di lei, continuò come in atto di preghiera:

— Per amore del cielo! che nessuno al mondo lo sappia….! ma vedendo quelle facce sinistre…. quando sono andati disopra a confabulare, io era lì…. — e accennava la scala.

— E hai potuto scoprire….?

— Dio, o Dio! parlavano di sete…. di forzare un magazzino…. di trovarsi questa sera alle nove sotto le colline di Cormons, insieme con altri che nominavano, e là complottare….

— Dicesti sotto le colline di Cormons?…

— Sì: udii che specificavano il sito accennando un comunale chiuso a sinistra da una sterpaglia, a un tiro di schioppo dal quadrivio….

— Di là del Nadisone? Che va a Gorizia, a Cividale….? Ho capito. E levata in piedi s’avviava concitata per andarsene a casa. Rosa colle mani giunte la seguiva lagrimando e pregando: non volesse tradirla! non aprisse bocca! Pietà di lei, dei figli! di quel disgraziato!…

— Fídati al mio cuore! le gridò la Contessa, e sparì via per la strada che pareva che volasse. Giunta a casa, ordinò che si attaccassero i cavalli e salì disopra nella sua camera. Ella non aveva preso nessuna risoluzione determinata; non sapeva ella stessa che cosa avrebbe fatto; ma con quell’impeto e con quell’ostinazione, che in mezzo alla loro debolezza sanno talvolta rinvenire le donne quando mettonsi in capo di riuscire, marciava intanto al luogo indicato, e deliberata di tutto adoperare, aspettava dal caso e dal proprio cuore i mezzi opportuni. Verso le otto il signor Giovanni, ch’era stato al suo solito in canonica dal cappellano, se ne tornava a casa bel bello. Vide dinanzi alla porta la carrozza, e formulando in una interrogazione il pensiero che gli passò per la mente:

— Oh! oh! disse, e dove si va mo adesso?

— Ha ordinato la padrona, risposero i servi. In quella sortiva la Contessa vestita da viaggio, e vedutolo:

— Siete capitato proprio a proposito, esclamò. Su da bravo! montate in carrozza ed accompagnatemi. Il buon vecchietto, quantunque a malincuore, pure s’adattava ad obbedire sul momento. Ma ella, datagli un’occhiata:

— Eh no così, per bacco! disse. Prendete il vostro soprabito, perchè fa freschetto, e forse che ci tocca star fuori tutta la notte. Allora sì che il signor Giovanni si sentì proprio mancar le gambe. Ma ella aveva un’aria così risoluta, che non osò metter in campo obbiezioni, e come un agnello, fatto quanto gli aveva imposto, le si assise dappresso.

— Per la via di Mangano a Cormons. Ordinò la Contessa. Strada facendo il signor Giovanni cercò più volte di mettersi in dialogo; ma ella pareva troppo occupata dei propri pensieri per dargli retta. Rispondeva qualche monosillabo tanto da troncare il discorso, e mostrava evidentemente d’aver per la testa qualche progetto ch’egli non arrivava a discoprire.

Ricacciato così, suo malgrado, alle proprie riflessioni, il signor Giovanni non poteva a meno di non trovare assai poco a proposito quella gita in quella giornata e a quell’ora. Ahi! pensava tra sè. Eccoci di nuovo ad uno dei soliti capriccetti! e io, che fidandomi alla bonaccia di quest’autunno, osava sperare che finalmente fosse guarita? Sì poi!… E come all’improvviso l’è saltata la mosca! Sta mattina a messa, dispensare colle proprie mani il pane dei morti, a’ vespri tutta divota e compunta che pareva una santa…. e adesso presto in carrozza, e chi sa dove diaccene anderemo! Oh! donne, donne!… concludeva il buon fattore, e involontariamente gli si affacciava il proverbio: che chi è matto non guarisce mai.

Passato il Nadisone, la Contessa ordinò che si andasse a passo. La notte era placida, faceva un bel chiaro di luna, e le colline di Rosazzo, quelle più lontane del Coglio e la facile catena che termina col monte di Cormons coronato la fronte del suo vecchio castello, apparivano nitide e si disegnavano in bruno su d’un fondo cilestrino tempestato di rade e pallide stelle. Per la via non incontravi anima viva. I contadini a quell’ora erano tutti ritirati in casa a recitare il lungo rosario dei morti; e la credenza che le anime come in quella notte vadano vagolando intorno avvolte nel funereo lenzuolo, non avrebbe lor certo permesso di lasciarsi trovar fuori. Sicchè la campagna era affatto deserta, solo sentivi a un buon tratto di distanza tutti i campanili del circondario sonar a distesa le malinconiche danze dei mortinota 1. Giunti su di un quadrivio, la Contessa fece fermare; e aguzzando gli occhi guardava di qua e di là con un’attenzione, che al signor Giovanni mise i brividi. Poi cavò l’orologio e lo fece battere. Otto e trequarti. Era evidente ch’ella aspettava qualcheduno.

— Si trattasse mai di qualche intrighetto!… pensò con angustia il signor Giovanni. E io qui testimonio! allora sì! che la vorrei veder bella co’ suoi signori parenti…. — e si passò due dita tra il collo e la cravatta come per allargarne il nodo, onde poter meglio inghiottire la scialiva che a questa riflessione gli si era ingrossata. La Contessa intanto aveva raffigurato la siepe e il comunale indicati dalla Rosa, e le parve di veder in lontananza qualche ombra, che attraversasse in quella direzione la campagna.

– Sono là senza dubbio! pensò ella, e, o nell’andata o nel ritorno è impossibile che su questo quadrivio ei non debba capitare. E avvolta nel suo ampio fazzoletto, si disponeva imperterrita ad aspettare magari tutta la notte.

In quella, si sentì un passo affrettato che si faceva sempre più dappresso. Comparvero due paesani, che, data un’occhiata sinistra a quella carrozza lì ferma, continuarono la loro strada verso Cormons. Quando si furono allontanati:

— Ecco due, che non hanno paura nella notte dei morti! disse il signor Giovanni che aveva osservato con una specie di terrore quelle due facce proibite.

— No davvero! rispose la Contessa. Ma e’ mi pare che siano forestieri; o almeno io non so d’averli mai più veduti.

— Eh! il diavolo saprà a che razza di gente appartengono, sclamò egli. Ma, e noi…. s’arrischiò poscia a dimandare, che cosa facciamo noi qui fermi a quest’ora?

— È una mia idea, che più tardi saprete. Vi spiegherò tutto, mio caro amico, ma per ora…. per quanto strana vi possa parere la mia condotta, vi prego, tacete, e lasciatemi fare.

— Buon Dio! mormorò il fattore, purchè non incappiamo nei malandrini!… Di lì a pochi minuti, per la via di Corno venivano altri tre. La Contessa li guardava con grande attenzione. Uno portava una specie di botticella, che dal modo con cui dondolava pareva vuota, e attraversavano il quadrivio dirigendosi dalla parte di San Giovanni.

— O per bacco! È Nardo il nostro sartore, gridò la Contessa. Ehi! Nardo! fatti in qua. Guarda che fortuna a incontrarti qui a quest’ora! Mi faresti un piacere? diss’ella al sartore, che sentendosi chiamare per nome s’aveva cavato il cappello e s’era messo alla portella. Monta a cassetta ed accompagnaci fino a Corno.

— Volentieri, diss’egli…. ma devo….

— Capisco che ti preme d’andare a casa; ma ti scuserò io colla Rosa; e poi noi torniamo indietro subito; e coi cavalli non dubitare che faremo presto.

— Bene, rispose allora Nardo, un momento, tanto che dica una parola ai miei compagni. E andato ai due ch’erano rimasti in disparte, sussurrò loro alquante frasi inintelligibili, e, consegnata ad essi la botticella, tornò verso la carrozza.

— Guarda che gente coraggiosa! gli disse la Contessa. Tra la notte dei morti e tra le fantasie che correvano per la mente al signor Giovanni, io mi era messa in una tale paura, che non ardiva andare nè avanti nè indietro.

— Ma paura di che? ripigliò il sartore. Sono anni che qui in questi dintorni non si sentì mai che sia avvenuto il minimo accidente.

— Ecco una parola da uomo! Ora che vieni anche tu in compagnia, mi sento più tranquilla. Monta dunque vicino al cocchiere, e andiamo, diss’ella. Poi rivolta al signor Giovanni, gli mormorò sotto voce:

— Ricordatevi che a Corno voi dovete cercarmi un foglio di carta da bollo, la quale vi guarderete bene dal trovare….

Giunti al villaggio, il fattore eseguì a puntino l’ordine ricevuto.

— O che combinazione!… sclamò la Contessa. E adesso che cosa si fa? Se non premesse…. Ma gli è che quella benedetta scrittura dev’esser fatta proprio entr’oggi. Giacchè siamo in ballo, e la notte continua ad esser bella, l’unica sarebbe di andare fino a Cividale! Che ne dici Nardo? ti spiacerebbe star fuori ancora un paio d’ore? E corsero a Cividale, dove la Contessa trovò, ci s’intende, tutto quello che desiderava; poi, invece della via percorsa, fecero un giro, e per Grupignano e per Butrio tornarono a casa, ch’era la mezzanotte. La Contessa volle che il sartore si fermasse a cena con lei. Era allegrissima, e pareva orgogliosa per quella sua gita notturna: tanto, diceva, l’avevano divertita il chiaro della luna, l’ora insolita, la solitudine dei campi e il correre affrettato dei cavalli. — Ma se non eri tu, disse rivolta al sartore, invece di godermi, mi sarei inspiritata; perchè il signor Giovanni tirava fuori certi discorsi di morti, di malandrini…. Ma dopo anch’egli s’è quietato, e abbiamo tranquillamente ciarlato di certi nostri progetti…. Anzi, a proposito, bisogna che ti faccia una domanda. In un anno, quanto a presso a poco puoi calcolar di ricavare col tuo mestiere di sartore?

— Io! rispose Nardo. Cosa vuole? si lavora a contadini….

— Pure?

— Po! a stare assidui, appena tanto da campare.

— E se trovassi chi ti desse una buona paga, avresti difficoltà ad abbandonare il mestiere?

— Ma, che cosa potrei fare in quella vece? Io non so nè leggere nè scrivere; il contadino, non ci sono avvezzo….

— E se io ti dicessi: in luogo di star lì tutto il santo giorno a cucire, prenderai in ispalla un archibugio e guarderai i miei campi; cioè, guarderai i nuovi lavori ch’io vo facendo, affinchè le bestie o i male intenzionati non me li guastino…. e ti passerò all’anno duecento fiorini?

— Sarebbe possibile? duecento fiorini? disse Nardo stupefatto.

— Accetteresti? Già, io credo che non ci sarebbe molto da fare, perchè in paese, grazie a Dio, abbiamo tutta buona gente. Fo solo per tranquillizzare il signor Giovanni, che brontola sempre per paura di veder una volta o l’altra guastati i suoi nuovi lavori.

— Oh Dio buono! disse il sartore. E posso sperare tanta fortuna? E Rosa, e i miei poveri figliuoli avranno dunque la polenta?

— Via rispondi, se sei sì o no contento.

— Contento?… Ah! se sapeste il bene che voi mi fate…. servirvi, adorarvi finchè avrò vita!…

— Presto dunque, signor Giovanni, andate dalla Rosa, e se anche è a letto, fatela subito alzare, e conducetela qui: chè non vogliamo stabilir nulla senza di lei. — Il signor Giovanni, che fino allora aveva sempre obbedito senza capir nulla, e che si sentiva metter in bocca discorsi e progetti che non gli erano mai passati pel capo, credette proprio di sognare; ma ricordandosi della promessa ch’ella gli aveva fatto di spiegargli ogni cosa, continuò di buona grazia la parte passiva che gli era stata intanto assegnata, e preso il cappello, andò per la donna. Ell’era seduta sul limitare della porta, e quando lo vide, gli corse incontro e tutta in lagrime:

— Mio marito! gridava. Che cos’è di mio marito?…

— Vostro marito è colla Contessa che cena, ed ella mi ha ordinato di venirvi a prendere…. Rosa ansante gli prese tutte due le mani, e senza neanche chiudere la porta di casa, corse via con lui che pareva fuori di sè stessa. Entrati nel tinello, la povera donna non poteva credere ai propri occhi, e lì tutta pallida e tremante a traverso certi goccioloni di lagrime che le cadevano inavvertite, guardava sorridendo al marito, alla sua benefattrice, senza poter proferire neanche una parola. La Contessa le raccontò come lo aveva incontrato; la gita che avevano fatta; poi le espose il progetto, dimandandole se era contenta. Per tutta risposta Rosa le cadde dinanzi inginocchioni, e piangendo come una bambina non rifiniva mai di stringerle e baciarle la mano.

Si sedettero a tavola. Tutti erano commossi; e perfino il signor Giovanni, quantunque per lui fosse ancora ogni cosa nel mistero, vedendo gli altri, faceva ogni tanto una smorfia e di soppiatto andava asciugandosi le lacrime.

Fine.


nota 1 – Chiamano così i contadini il sonar delle campane, che si fa in quella notte, e molte famiglie mandano qualche fiasco di vino in regalo a quelli che suonano purchè duri a lungo la scampanata, che intendono sia in suffragio dei loro defunti.
[Torna]


Troverai tanti altri racconti da leggere nella Mediateca di Pagina Tre (clicca qui!)


Liber Liber

Scopri sul sito Internet di Liber Liber ciò che stiamo realizzando: migliaia di ebook gratuiti in edizione integrale, audiolibri, brani musicali con licenza libera, video e tanto altro: https://www.liberliber.it/.

Fai una donazione

Se questo libro ti è piaciuto, aiutaci a realizzarne altri. Fai una donazione: https://www.liberliber.it/online/aiuta/.


QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il pane dei morti
AUTORE: Caterina Percoto

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

TRATTO DA: Racconti / di Caterina Percoto - Firenze : F. Le Monnier, 1858 - 553 p. ; 19 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)