I tre racconti di Balzac, il primo del 1832 e gli altri due del 1836, rientrano fra i 27 della raccolta Scene della vita privata; i protagonisti sono medici e uomini di legge, individui che, secondo l’autore, al pari di preti e romanzieri godono di uno sguardo privilegiato sulla società, riuscendo a coglierne con lucidità tutte le miserie. Lo spiega il procuratore legale Derville, personaggio centrale de Il colonnello Chabert:

«Sapete, amico, riprese Derville dopo una pausa, che ci sono nella nostra società tre uomini, il prete, il medico e l’uomo di leggi, che non possono aver stima del mondo? Essi veston di nero forse perchè portano il lutto di tutte le virtù, di tutte le illusioni. Il più disgraziato dei tre è l’avvocato. Quando l’uomo va per cercare un prete è spinto dal pentimento, dal rimorso, da una fede che lo fa meritevole di sollecitudine, che lo rialza, che conforta l’animo del mediatore, il cui compito non va disgiunto da una specie di gioia: egli purifica, ripara, concilia. Ma noi legali vediamo eternamente riprodursi gli stessi sentimenti malvagi; nulla li corregge; i nostri studi sono delle fogne che nessun mezzo vale a spurgare. Quante cose non ho dovuto vedere esercitando il mio ufficio!»

Le vicende narrate ne Il colonnello Chabert e L’interdizione, per molti aspetti paradossali, sono imperniate sulle vicissitudini di personaggi che, esclusi per scelta o per costrizione dal proprio ambiente, cercano con grande dignità di affermare la propria identità, i propri diritti e i propri valori contro un contesto avverso in cui dominano arrivismo, corruzione, interesse e conformismo. Nel primo racconto, il protagonista è “il preteso colonnello Chabert”, un uomo il cui aspetto mostra i segni di un’estrema povertà e delle ferite ricevute combattendo eroicamente nell’esercito napoleonico:

«[…] un osservatore, e soprattutto un legale, avrebbe ancora scorto in quellʼuomo atterrato i segni di un dolore profondo, gli indizi di una miseria che ne aveva deturpato il volto, come le goccie di pioggia deturpano a lungo andare una bella statua di marmo. Un medico, un romanziere, un magistrato avrebbero intuito il dramma alla vista di quellʼorrore sublime, che aveva il pregio, tra lʼaltro, di rievocare quelle macabre fantasie cui i pittori si compiacciono talora dar corpo disegnando sui margini delle loro pietre litografiche, mentre conversano con gli amici.»

Alla sua vista, nessuno potrebbe immaginare di trovarsi di fronte a un “conte dell’Impero, grand’ufficiale della Legion d’onore”, un eroe della Grande Armata insignito dell’onorificenza dallo stesso Napoleone, da lui idolatrato e che a sua volta ne riconosceva ed apprezzava il valore; infatti, quando si reca dal giovane avvocato per far riconoscere la propria identità, viene deriso dai praticanti dello studio legale per le sue pretese, in stridente contrasto con il suo miserevole aspetto:

— È forse il colonnello morto a Eylau? chiese Huré, che, non avendo ancor detto nulla, era impaziente di aggiungere un motteggio a quelli degli altri.
— Quel desso, signore, rispose il curioso messere con semplicità antica.

Riuscirà a convincere l’avvocato e, grazie a lui, a riacquisire i propri beni, i titoli e il posto nella società che gli spettano di diritto?

In La messa dell’ateo, al centro della scena c’è il mistero dell’illustre Desplein, un luminare della medicina, maestro e modello di Orazio Bianchot; quest’ultimo, un giovane chirurgo talentuoso, intelligente e ricco di virtù, qui come nel successivo racconto fa da spalla al protagonista, che ammira non solo per le eccezionali qualità professionali, ma anche per le sue idee, che condivide a partire dall’ateismo ostentatamente dichiarato:

«Desplein non viveva nel dubbio: affermava. Il suo ateismo franco e schietto era simile a quello di molti scienziati, la miglior gente del mondo, ma invincibilmente atei, atei come i credenti non ammettono che ce ne possano essere. Nè altrimenti avrebbe potuto opinare un uomo avvezzo, sin dall’età giovanile, a notomizzare l’essere per eccellenza.»

Con suo grande stupore, però, il giovane Orazio un giorno sorprende Desplein mentre, in aperta contraddizione con i principi che professa, sta entrando nella chiesa di San Sulpizio per assistere devotamente ad una messa in onore della Vergine. Il discepolo, incuriosito e nel contempo deluso, si improvvisa così investigatore, nella convinzione che quel comportamento inspiegabile richieda «un’investigazione scientifica, poichè non era pensabile una contraddizione diretta fra il pensiero e il contegno di un uomo come quello.».

Il terzo racconto è ambientato nuovamente nel mondo legale, ben noto a Balzac grazie ai suoi studi giovanili; il protagonista è il giudice istruttore Popinot, incaricato di stendere una relazione in merito alla richiesta, presentata dalla marchesa d’Espard, di interdire il marito, da lei ritenuto pazzo. Lo sarà davvero o questo è solo un espediente della moglie (e del fratello del marchese, che ne diverrebbe il tutore) per impossessarsi dei suoi beni e riacquistare la libertà? La decisione spetta all’acume di Popinot, che «giudice come l’illustre Desplein era chirurgo, penetrava nelle coscienze come quel dotto penetrava nei corpi.».

Balzac guarda con rimpianto alla nobiltà virtuosa dei tempi antichi, depositaria di valori sopravvissuti ormai solo in pochi individui d’eccezione come il marchese d’Estang; pur ritenendo i nobili superiori per nascita, non si esime però dall’attribuire un animo elevato anche a persone di bassa estrazione sociale, come la signora Jeanrenaud, o a borghesi come Popinot, che egli pone allo stesso livello del marchese, superando le differenze di classe, in una scena in cui i due riconoscono a vicenda:

«Il marchese porse la mano a Popinot, e Popinot vi pose dolcemente la sua, volgendo a quel grand’uomo della vita privata uno sguardo carico di armonie penetranti, cui il marchese rispose con un gentile sorriso. Quelle due nature, così fervide e ricche, lʼuna borghese e divina, l’altra nobile e sublime, s’erano messe allʼunisono, dolcemente, senz’urto, senza scoppio di passioni, come se due raggi di purissima luce si fossero in uno confusi. Il padre di tutto un quartiere si sentiva degno di stringere la mano di quell’uomo due volte nobile, e il marchese sentiva nel fondo del cuore un moto che gli diceva come la mano del giudice fosse una di quelle donde perennemente sgorgano i tesori d’una filantropia inesauribile.»

Si tratta però solo di epifanie momentanee, che non smentiscono, anzi confermano da un lato la visione classista di Balzac, dall’altro il suo pessimismo di fondo, che fa sì che simili individui siano inevitabilmente destinati a soccombere in una società che, oltre a non riconoscerne i meriti, non si perita di distruggere chi ostacola il cammino degli arrivisti verso il successo.

Tre racconti, un unico contesto: la Parigi dal tramonto dell’età napoleonica agli inizi della Restaurazione. Una Parigi in cui la ricchezza ostentata da nobili e borghesi, legati ai potenti e da questi protetti, si affianca alla miseria che regna non solo fra il popolo ma perfino nelle case degli studenti universitari e dei giovani avvocati e dei medici all’inizio della loro carriera. Lusso e vita “alla moda” sono stigmatizzati da Balzac, ed associati a personaggi protesi esclusivamente al raggiungimento di potere e ricchezza, disposti a sacrificare senza alcuna remora principi morali, affetti e persone care pur di raggiungere la meta. Nei tre racconti, l’apice della negatività s’incarna nelle figure femminili, donne ciniche e spregiudicate che se il marito e perfino i figli intralciano il loro cammino verso il successo, spietatamente se ne liberano. Così Orazio Bianchon, ne L’interdizione, descrive ad un amico la marchesa d’Espard, emblema delle “donne alla moda”:

«La tua donna alla moda non sente nulla, la sua bramosia di piaceri ha radice nel desiderio di riscaldare il suo gelido sangue; essa vuole delle emozioni e dei godimenti, come un vecchio che si mette in agguato sullo scalone dell’Opera. Poichè ha più testa che cuore, sacrifica al suo trionfo le passioni sincere e gli amici, come un generale che manda allo sbaraglio i suoi più devoti luogotenenti per vincere una battaglia. La donna alla moda non è più donna: non è nè madre, nè moglie, nè amante; in linguaggio medico è un sesso situato nel cervello. Così la tua marchesa presenta tutti i sintomi della sua mostruosità: il becco dell’uccello di rapina, l’occhio limpido e freddo, la parola melata; essa è tersa e lucente come l’acciaio d’una macchina, può sommuovere tutto, tranne il cuore.»

Ai poveri che popolano i tre racconti, Balzac, pur mantenendosi fedele al realismo che lo contraddistingue, guarda invece non con sprezzante distacco, ma con umana compassione. Lo cogliamo nella descrizione di coloro che, sempre ne L’interdizione, affollano l’atrio della casa del giudice Popinot, adibito a “parlatorio”, con la speranza di ricevere un aiuto per risollevarsi da situazioni disperate:

«Qui, la faccia rugosa d’un austero vecchio dalla candida barba, dal cranio di apostolo, rappresentava di tutto punto un san Pietro. Il suo petto, scoperto al sommo, lasciava scorgere un forte rilievo di muscoli, segno d’una costituzione di bronzo che gli era servita per sorreggere un’intera odissea di sventure. Là, una giovane donna dava il seno all’ultimo dei suoi piccini, per farlo tacere, e un altro bambino teneva, di forse cinque anni, tra le ginocchia. Quel seno, la cui bianchezza spiccava fra mezzo ai cenci, quella creaturina dalle carni translucide, il fratellino già arditamente atteggiato come un monello di strada, intenerivano l’anima per un commovente, quasi grazioso contrasto con la lunga fila di volti arrossati dal freddo, frammezzo ai quali si vedeva quel piccolo gruppo familiare.»

Le descrizioni degli ambienti sono accuratissime, e lasciano trasparire il giudizio dell’autore anche sui personaggi che li popolano, come i praticanti dello studio legale di Derville:

«L’odore di queste vivande si amalgamava così bene col puzzo della stufa arroventata e col profumo caratteristico degli uffici e degli scartafacci, che il fetore di una volpe non vi si sarebbe sentito. Il pavimento era già coperto di fango e di neve portativi dagli impiegati. […] Dietro il primo sostituto stava un enorme casellario appoggiato al muro dall’alto in basso, di cui ogni compartimento era zeppo di fascicoli donde pendevano innumerevoli etichette e quei capi di filo rosso che dànno una fisonomia caratteristica ai volumi degli atti processuali. I piani inferiori del casellario erano colmi di cartelle ingiallite dall’uso; orlate di carta azzurra, sulle quali si leggevano i nomi dei grossi clienti, dei quali si stavano cucinando allora i succolenti processi. La finestra dai sudici vetri lasciava passar poca luce.»

I personaggi vengono ritratti con realistica efficacia, tratteggiandone una descrizione fisica che, come quelle manzoniane del contemporaneo I promessi sposi, ne suggerisce fin dal loro primo apparire sulla scena il carattere: il marchese d’Espard «era sottile della persona e biondo; il suo volto aveva, nel taglio e nell’espressione generale, unʼeleganza originaria che rifletteva un elevato sentire», mentre in Popinot «lʼincuria del vestiario, che denotava in Popinot lʼuomo costantemente preoccupato, non è forse un segno distintivo dellʼalta coltura, della passione per lʼarte, del pensiero perpetuamente attivo?»

Il successo de Il Colonnello Chabert è testimoniato dai numerosi film che ne hanno mantenuto generalmente anche il titolo: il francese del 1911 di André Calmettes ed Henri Pouctal, l’italiano di Carmine Gallone del 1921, i tedeschi di Hans-Jürgen Völcker del 1924 e di Gustav Ucicky e Roger Le Bon del 1932, il francese di René Le Hénaff del 1943, il tedesco di Volker Von Collande del 1967, per arrivare al più recente, di Yves Angelo, del 1994, con Gérard Depardieu, Fanny Ardant, Fabrice Luchini, André Dussollier e Julie Depardieu (https://fr.wikipedia.org/wiki/Films_basés_sur_l’œuvre_d’Honoré_de_Balzac).

La traduzione è di Michele Lessona (1894-1953), da non confondere (come fanno invece Wikipedia e l’Opac SBN) col naturalista Michele Lessona (1823-1894). Il traduttore di Balzac infatti parla di libri pubblicati oltre 30 anni dopo la morte del naturalista.

Sinossi a cura di Mariella Laurenti

Dall’incipit del libro:

— Ci siamo! Ancora il nostro vecchio carrick!
Questa esclamazione proveniva da uno di quegli impiegati che negli studi legali si sogliono chiamar saltafossi, e che in quel momento mordeva con eccellente appetito in un pezzo di pane; egli ne cavò un po’ di mollica, ne fece una pallottola e la lanciò, per beffa, dal portello della finestra alla quale stava appoggiato. Ben diretta, la pallina rimbalzò sin quasi all’altezza della vetrata, dopo aver colpito il cappello d’un tale che attraversava il cortile d’una casa situata in via Vivienne, dove dimorava dòmine Derville, procuratore legale.
— Suvvia, Simonnin, non fate dei dispetti alla gente, o vi caccio fuori. Per quanto povero sia, un cliente è pur sempre un uomo, che diavolo! – disse il primo sostituto interrompendo l’addizione di una nota di spese.
Il fattorino salta-fossi è per solito, come lo era Simonnin, un ragazzo dai tredici ai quattordici anni, che in tutti gli studi si trova sotto l’autorità diretta dell’impiegato principale, di cui le commissioni e i bigliettini amorosi lo occupano quando va a portare delle citazioni agli uscieri e dei placet in Curia. Tiene del monello di Parigi pei suoi costumi, del mondo curialesco per suo destino. Questo ragazzo è quasi sempre senza pietà, senza freno, riottoso, autore di strofette beffarde, motteggiatore, avido e pigro. Tuttavia, quasi tutti i salta-fossi hanno una vecchia madre dimorante ad un quinto piano, e con essa dividono i trenta o quaranta franchi del loro mensile.

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