La conferenza sulla rivoluzione napoletana del 1820 (1897) cade in un periodo particolarmente fecondo per la vita di Francesco Saverio Nitti, all’epoca ventinovenne, già noto pubblicista, membro di corpi consultivi e di commissioni di studio del governo, docente universitario. Politicamente, Nitti era passato dal giovanile repubblicanesimo, ereditato dal padre Vincenzo, al conservatorismo crispino degli anni napoletani, che aveva caratterizzato i suoi esordi giornalistici, fino all’approdo al liberalismo progressista e radicale nell’ultimo decennio del XIX secolo.

A suggellare un percorso politico e culturale quanto mai intenso e precoce, nel 1894 aveva assunto la direzione della “Riforma sociale” che sarebbe stata una delle riviste più autorevoli e prestigiose nel campo della letteratura economica, giuridica e sociologica di quegli anni. L’apertura alle idee di modernizzazione e democratizzazione della società, lo studio appassionato della questione meridionale, l’attenzione rivolta alle problematiche dello sviluppo economico e della legislazione sociale, lo avrebbero inoltre condotto di lì a pochi anni ad affiancare, se non a condividere, l’opera di governo di Giovanni Giolitti, di cui fu Ministro di agricoltura, industria e commercio nel «lungo ministero» dal 1911 al 1914.

La conferenza del 1897 – tenutasi a Firenze, al Palazzo Riccardi, nell’ambito del ciclo di conversazioni sulle condizioni del Mezzogiorno pre-unitario organizzato dalla “Società fiorentina di pubbliche letture” che annoverava tra i suoi promotori Pasquale Villari – riprende un tema tipico dell’elaborazione teorica nittiana del periodo giovanile, riletto alla luce dell’interesse meridionalista: la critica all’inconsistenza materiale e culturale del ceto medio del Mezzogiorno, ben lontano dal modello ‘manchesteriano’ della borghesia dell’industria e dei commerci e del tutto inidoneo, per la sua connotazione umanistica, retorica e curiale, a formare una base sociale adeguata a un evento che ambiva a trasformare profondamente l’assetto politico del Napoletano e che invece, come si evince da pagine in cui si avverte la meditazione sull’opera di Vincenzo Cuoco, sembrò destinato sin dalle prime battute a ripetere, almeno in parte, gli errori del 1799, senza però avere la tragica grandiosità di quel rivolgimento. La critica sferzante di Nitti si rivolge non solo al sovrano borbonico, «un re, cui furon meriti supremi la menzogna e la viltà» ed al trasformismo dei vertici dell’apparato statale, dell’esercito e degli ambienti di corte, ma anche all’estrema debolezza dell’élite postasi alla testa della rivoluzione, presto compromessa dal prevalere di gruppi e correnti della carboneria mossi da faziosità e personalismi, nonché dall’incapacità di affrontare nodi cruciali, come la rivolta aristocratica che si celava dietro la questione siciliana, e di dare concretezza e tempestività all’azione del Parlamento, assicurandosi altresì la lealtà dei corpi amministrativi e, in primo luogo, dell’esercito. Quell’élite – afferma il giovane conferenziere – alla prova dei fatti, dopo il voltafaccia del re, si ritrovò isolata e minata dalle defezioni e, come era avvenuto nel 1799, dovette soccombere più per la propria debolezza che per la forza dell’antagonista. Solo il sereno sacrificio dei due ufficiali promotori del pronunciamento del 2 luglio 1820, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, giustiziati il 12 settembre 1822, valse, secondo il severo giudizio di Nitti, a riscattare colpe e miserie di una rivoluzione nata «per paura di una Corte che non volle e non seppe resistere», morta «per ignavia di una setta, anzi di una classe, che resistere non volle e non seppe».

NOTE: Si ringrazia vivamente la Biblioteca del Senato della Repubblica “G. Spadolini” per aver fornito il testo in formato immagine. Tale testo è disponibile su Internet Archive nella Collezione delle monografie della Biblioteca del Senato della Repubblica (https://archive.org/details/monografiebiblioteca-senato).

Sinossi a cura della Biblioteca del Senato della Repubblica “G. Spadolini”

Dall’incipit del libro:

I moti di Napoli del 1820 non presentano, a chi li studii con serenità, alcuno dei lati che, pur nei suoi errori, pur nelle sue esagerazioni resero sì bella e sì interessante e, sotto alcuni aspetti, sì grande la rivoluzione avvenuta ventun anno prima, nel 1799. Questa ebbe i suoi rètori, ma ebbe pure i suoi martiri: la rivoluzione del 1820 quasi non ebbe che rètori. Nata per paura di una Corte, che non volle e non seppe resistere, morì per ignavia di una setta, anzi di una classe, che resistere non volle e non seppe. Sorta per tradimento di pochi ufficiali settari, fu soffocata per tradimento di un re, cui furon meriti supremi la menzogna e la viltà.
Sicchè parlarne è assai difficile e assai penoso cómpito: tanto più penoso quando chi discorre di un periodo storico del suo paese che altri esaltò, non riesce a trovare in esso cosa che sia bella o grande.
La rivoluzione del 1799 di cui ebbi l’anno scorso l’onore di parlarvi, studiata nelle sue intime cause ci apparve come un movimento quasi di reazione alle tendenze riformatrici dei principi. Tutta l’opera di Carlo III e gran parte di quella di Ferdinando I di Borbone, almeno fino al 1799, sembrano dirette a niente altro che a diminuire la enorme potenza della feudalità e del clero. Sorgeva allora ed era già venuta in potenza una classe intermedia, destinata a sostituirsi all’aristocrazia e sorgeva non come altrove dalle manifatture o dai traffici, ma dall’intermediarismo agrario, dalle professioni liberali, la curia soprattutto, e dal commercio del danaro.

Scarica gratis: Sui moti di Napoli del 1820 di Francesco Saverio Nitti.