Dal 1 gennaio 2007 Luigi Pirandello è libero da copyright. Chiunque può rappresentarlo a teatro, stamparne le opere, creare nuove edizioni critiche. Migliori, più economiche o comunque diverse. Nuove edizioni che rendono più ricca e varia la produzione culturale. Tra non molto sarano “liberati” anche altri autori italiani: Grazia Deledda, Gabriele D’Annunzio, ecc.
Tutto ciò non deve piacere alla SIAE. In questi giorni, leggiamo che, secondo il suo Centro Studi, il copyright deve durare 6 anni e 8 mesi in più. Non possiamo sapere se queste conclusioni sono dovute a una ispirazione personale del presidente della SIAE, Giorgio Assumma, o se sono una risposta alle sollecitazioni delle grandi aziende editoriali (che – lo ricordiamo – negli ultimi anni hanno acquisito i diritti sulla quasi totalità delle produzioni culturali e artistiche).
Fatto sta che secondo questi signori i 70 anni di copyright stabiliti dall’Unione Europea non bastano più. Nonostante costituiscano a loro volta un ampliamento: precedentemente infatti il copyright durava 50 anni, e ancora prima 14. Una tendenza non solo europea. La circolazione libera e soprattutto gratuita del sapere è mal tollerata in tutto il globo. Negli Stati Uniti le potenti lobby dell’intrattenimento sono riuscite a portare la durata del copyright a 95 anni.
Di fatto, ormai ogni 20 anni circa estendono la durata del copyright di 20 anni. Così si aggira la norma, presente in diverse Costituzioni, che ne vieta una durata infinita.
L’aspetto più paradossale di questi provvedimenti è che vengono spacciati come una forma di tutela della cultura. Poche bugie sono fastidiose come quelle spudorate. Mantenere un’opera all’infinito sotto copyright vuol dire che solo il detentore dei diritti può divulgarla, può deciderne il prezzo, può stabilire chi ne fruisce e chi no.
E’ tutela della cultura e della libertà questa?