La macchina mondialedi Bartolomeo Di Monaco

[Per le altre sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.]

Le contraddizioni della civiltà industriale furono vissute sulla propria pelle da questo autore sensibile, nato ad Urbino nel 1924 e morto ad Ancona nel 1994, che non mancò mai, lungo tutto l’arco della sua vita, di sperare e di sognare una convivenza non soffocata dall’avidità del denaro, ma nutrita da una solidarietà più partecipata e generosa, in ciò assimilando la lezione di Adriano Olivetti, di cui fu amico e dirigente aziendale.
Iniziò con i libri di poesia, uno dei quali, “Le porte dell’Appennino” (1960), si aggiudicò il Premio Viareggio.
Il primo romanzo “Memoriale” è del 1962; ad esso seguirono: “La macchina mondiale”, 1965, con il quale vinse il Premio Strega, “Corporale”, 1975, “Il sipario ducale”, 1979, Le mosche del capitale”, 1989.
Il primo pensiero che ci prende leggendo “La macchina mondiale” è quello di trovarci in presenza di un processo di disarticolazione che l’autore intende avviare su tutto ciò che lo circonda o che si trova dentro l’uomo: un congegno smontabile e riassemblabile anche in sfumate o decise variazioni, così come si può fare coi giocattoli moderni, che ora si trasformano in uomini fantascientifici ora in una spada, in un disco volante e così via. La creazione e l’uomo vi sono affrontati nel tentativo di scoprirne tutte le possibili ricomposizioni: “più oscillavo e più sentivo dentro di me comporsi chiaramente la macchina, delinearsi le regole della meccanica; comporsi per prima la mia stessa macchina, nei gesti di una gamba, di un ginocchio e nello scatto di un movimento, che partiva sempre da uno stimolo anche minimo che io potevo accendere con un interruttore interno sopra gli occhi”. Così analizza il tempo in cui, da ragazzo, suo padre lo bastonava: “egli stava contravvenendo le forze della vita e cercando di rompere una cosa che egli non aveva costruito e della quale non era padrone e che viveva e che aveva il suo spazio e le sue regole al di fuori di quelle sue proprie, staccate, senza alcuna relazione con le sue se egli alle sue negava ogni scopo con quella violenza, che faceva e ripeteva.”
L’autore ci informa che il protagonista, insieme con il libro, ne sta componendo un altro, in cui più tecnicamente il progetto è descritto e mandato avanti: è il trattato “Per la costituzione di una nuova Accademia dell’Amicizia di qualificato popolo”, di cui ogni tanto ci fa conoscere alcuni passaggi. L’obiettivo è, dunque, “la felice convivenza degli uomini, nell’eternità universale.”
La storia è ambientata in un paesino della Marche, San Savino, e il protagonista narrante, Anteo Crocioni, proprietario terriero, è costretto a comparire – siamo nel 1959 – davanti al Tribunale di Urbino, accusato di maltrattamenti dalla moglie, Massimina Meleschi, che è fuggita e fa la domestica a Roma. Da un testimone è considerato “un uomo violento e accanito […], ozioso al punto da restare intere giornate sdraiato a guardare per aria oppure da rigirare nella rena con una canna tutto un giorno, come se fosse alla ricerca di una pietra preziosa, oppure da non uscire di casa per settimane, nemmeno dopo un temporale che avesse devastato le sue proprie colture.”
Secondo Anteo, le varie testimonianze che si accaniscono contro la sua persona, sono tutte mendaci, giacché quei suoi accusatori (la moglie avanti agli altri) “non hanno mai pensato ad una accademia della felicità, non hanno mai cercato di capire la sorte umana e non hanno mai guardato nemmeno il paese e nemmeno gli uomini.”
È un concetto, questo, che assume come relativa e soggettiva la qualità delle relazioni umane, nei cui confronti il giudizio varia a seconda della più o meno accentuata disposizione a immedesimarsi negli altri da parte di coloro che si apprestano a giudicare, quasi sempre convinti che il soggetto osservato non “possa fare qualcosa di diverso, muoversi, esistere, compiersi, da quanto loro stessi in quel momento hanno in mente e credono determinante per la condotta di quell’essere che guardano.”
Il processo in Pretura e poi in Tribunale si rivela un’occasione per accompagnare molte riflessioni, che sono l’autentica vocazione del protagonista: “A quindici anni ho avuto la fortuna di cominciare a pensare, a venti di cominciare a scrivere.”
Volponi si pone, attraverso Anteo, degli interrogativi che assillano l’uomo da sempre e li svolge cercando delle risposte che non siano sempre le stesse, e soprattutto che siano scevre esse stesse dal generare ulteriori dubbi. Segue, ossia, una logica che potremmo definire meccanica, rispetto alle altre specie, condannate a restare sempre uguali a se stesse, “coloro che hanno progettato l’uomo come macchina”, gli hanno assegnato il compito di “ripetere l’opera dei suoi progettisti, però con materiali e forme diverse: quindi avrebbe dovuto arrivarci attraverso un lunghissimo tirocinio, soddisfacendo gli entusiasmi e le ambizioni richiesti dalla sua vita nel mondo, i quali attraggono l’uomo verso una meta sconosciuta per lui ma ben conosciuta da coloro che lo hanno voluto.”
Vi è contenuta una concezione deistica dell’universo, in cui l’uomo è osservato nel suo muoversi e agitarsi verso la meta dai medesimi che si sono divertiti a crearlo, non si sa con quanto piacere o con quanto sarcasmo, allo stesso modo che un uomo guarda, compiaciuto ed ironico ad un tempo, alla fatica che le numerose formiche sopportano per dare un senso alla loro vita.
Volponi lo fa avvalendosi della sua lunga esperienza di lavoro, svoltasi a contatto con gli uomini. Non v’è dubbio, infatti, che una concezione di questo tipo nasca dall’osservazione della moltitudine, più che del singolo uomo, anche se, partendo dalla moltitudine, l’occhio restringa via via il suo spettro fino a fissarsi unicamente sul singolo per misurarne e penetrarne ogni fibra e giuntura, in cerca forse di una risposta a quell’ancestrale paura che sempre lo accompagna. Il giovane seminarista silenzioso, Liborio, che esce dal fiume e che tiene “un braccio davanti e uno di dietro e il corpo piegato”, lo fa perché ha paura e “la paura poteva essere quella della sua nudità”.
Volponi, alla ricerca continua di un punto di appoggio dal quale poter proseguire la sua ricerca, procede un poco alla volta, servendosi anche dei dialoghi, condotti alla maniera degli antichi, con domande e risposte che aprono piccoli varchi via via sempre più grandi. Così che il lettore si trova trascinato a poco a poco all’interno di quegli stessi interrogativi che lo hanno accompagnato sin dai primi momenti in cui ha cominciato ad organizzare il suo pensiero intorno alle ragioni della propria esistenza e del proprio rapporto con il mondo. L’autore conduce una inchiesta che ci appartiene, è sempre stata nostra, anche se non siamo mai stati in grado di trovare gli strumenti adatti per giungere alla conoscenza. Che Volponi ci aiuti in questo impegno nei confronti del quale ci sentivamo già sconfitti, è un risultato che fa del romanzo anche una ricerca teologica tutta speciale, non nutrita ossia dalla fede, ma da una scienza interamente condotta dentro i limiti e con le ansie tipiche della nostra specie. Mentre si trova sul sedile posteriore di una moto guidata da un lavoratore che gli ha dato un passaggio, il protagonista pensa all’incontro avuto in precedenza con il giovane novizio, Liborio: “Il frate di Serra aveva parlato di martirio e di resurrezione, ma io dietro quella schiena capivo e anche sentivo che essa era fatta soltanto per una fossa.” Anteo è attratto da segni, linee, circonferenze, movimenti, convinto com’è che mediante essi potrà leggere e decifrare i misteri della creazione: “Dovevo andare avanti da solo, con pochi strumenti e poche parole e sforzarmi di non cadere in devozione, anche secondo il vizio dei libri di Liborio, davanti all’unità dell’Ente Motore, il cui concetto mi guidava come un globo. Dovevo sezionare le membra di questo concetto, catalogarle e anche selezionarle e trovare per loro un veicolo razionale che le muovesse e le articolasse nel telaio che intravedevo e che m’interessava. Il movimento del telaio, che trovavo dovunque e il cui ritmo vibrava intorno a me, toccava tutte le cose.”
È una ricerca tanto vasta e immane al punto che si riflette nella nostra piccolezza, agendovi come una minaccia in grado di travolgerci e annientarci, lasciandoci preda di “un’ansia che avrebbe potuto svuotarmi”. Paura ed ansia ci accompagnano, dunque, in un percorso planetario in cui, sebbene vi brilli il nostro pensiero, sia pure come una luce infinitesimale, l’unica possibilità che ci resta è il persistere nel tentativo di “disegnare il mio telaio.” Quella che Volponi disegna è la traccia di un nuovo umanesimo, che fa dell’uomo e della sua intelligenza il fine supremo della creazione: “disegnando potevo osservare attentamente ogni cosa e potevo arrivare a capire dei diversi particolari non soltanto la struttura, ma anche il loro mistero, della loro struttura e di quella dell’intero meccanismo.” Perfino il suo pellegrinare di notte nei campi con un bastone in mano, assume il valore della conoscenza che stimola e rafforza l’uomo: “La notte mi tentava con la sua magia per deviare anche me dalla strada della scienza e sottomettermi nella paura. Pensai che se avessi superato i suoi belletti avrei trovato nel suo volto le tavole delle costruzioni e le parabole di tutti i meccanismi. La notte aveva cercato di difendersi, ma io avevo varcato i suoi cancelli.” Nel romanzo, che appare pervaso dalla modernità delle macchine, si respira, tuttavia, quell’aria antica, direi perfino leonardesca, che, sospinta da una simbologia delicata, un po’ alla volta ci ha guidato ai nostri tempi, non modificando per nulla ostinazione, impegno, ombre, paure, trepidazioni e speranze che ci ispirano e ci fanno muovere da sempre. Il lirismo che qualche volta segna di venature la scrittura limpida di Volponi, si trasforma presto, lungo il cammino che porta il protagonista dall’infanzia alla maturità, nell’emozionante punto di congiunzione tra il vecchio uomo del Rinascimento e quello moderno.
C’è un pensiero che riassume bene il tema principale in cui si trova coinvolto l’autore e che intende svolgere con questa storia. Lo si trova espresso nella prima parte e vale la pena di riportarlo per intero: “Pensai allora se alla fine di tutto non fosse davvero necessario o inevitabile un giudizio universale, un giorno in cui in una grande pianura scavata dalle macchine, gli automi-autori non venissero a chiederci i conti, ad emettere un giudizio, a chiedere ragione di come le nostre macchine fossero state usate e perdute, esse che invece avrebbero potuto liberarsi e perfezionarsi fino a diventare veramente lo strumento completo dell’intelligenza stessa degli autori, fino a raggiungere una libertà che significasse una vita senza rapporti e senza regole, articolata in tutti gli incontri che uno volesse, al di là della meccanica stessa, ma sempre nell’ordine di una amicizia completa e di una armonia tale tra i popoli da superare i popoli stessi ed anche i limiti dei loro diversi mondi.” Ossia: “in che modo la meccanica, superata la fisica, poteva diventare filosofia.”

Eppure, in questo autore che cerca di interpretare ogni articolazione dell’uomo, smontandolo e rimontandolo, la tradizione vi occupa un posto di rilievo, al punto che si potrebbe dire che la sua ricerca è possibile per un radicamento affettivo con i sentimenti e le costumanze della sua gente. Basterà leggere le pagine dedicate al primo incontro, in una fiera paesana, a Pergola, con la ragazzina che diventerà poi la moglie del protagonista, Massimina, che successivamente – come si è già scritto – lo abbandonerà per trasferirsi a Roma. Nel ricordare un giorno che la accompagnò a casa in moto, penserà: “portando dietro Massimina, mi pareva di averla costruita io come un mucchio dolce e animato di gentilezze, con le sue pieghe remissive e con i suoi gomiti e ginocchi che puntavano in confidenza contro il mio corpo.” E ancora, a dimostrazione di un modo di accarezzare il passato con una originalità portatrice di un fascino nuovo ed insolito: “davanti a quello che vedevo sentivo di avere costruito Massimina togliendo le parti più tenere a quei ponticelli di terra rotti alla base da tagli e cave, e la parte più bianca, interna, a quei boschi di rovi.”
Ma il libro è una continua miniera di riflessioni che rivelano l’impegno dell’autore a ricercare tutte le strade, tutte le possibilità affinché si affermi “quel tempo nuovo che, fino a poco tempo prima, la notte aveva voluto negare.”
Lo stile asseconda una vocazione quasi mistica (“io debbo costruire altri frutti e liberare gli uomini e anche la loro campagna, dalla morte, dalle inutili giornate che si passano a stare a guardare la campagna e la natura e ad aspettare la morte senza far niente che possa diventare meglio della morte stessa.”), dolorosa quale frutto di una sofferenza provocata da una specie di martirio. Le parole diventano ispirate, con il sapore di una suggestione e di un canto biblici: “Le macchine vanno fermate e indirizzate dando loro un pensiero, dando loro cioè un sistema felice, come è felice il sistema del pensiero.”; “allora io supererò la figura che di me hanno disegnato con i vecchi segni i poveri servi della miseria, che hanno poco pane e poche parole, e sarò davvero agli occhi di tutti un filosofo ed un inventore.”; “Io voglio essere un filosofo e non un profeta”.
Sembra quasi che in questo lucido disegno, si possa scorgere una fantasia allucinatoria quale quella che agitò la mente di Don Chisciotte nel momento in cui, forte della sua fede, abbandonò la casa e i vecchi affetti per andare incontro – vestito della sua armatura allo stesso modo che vi va incontro il protagonista sostenuto dal suo trattato – ad una realtà tanto apparente quanto feroce: “Allora, siccome anche i preti avevano capito questo, miravano a impoverirmi, spogliandomi della mia terra, convinti che la miseria, la povertà e la perdita di Massimina mi avrebbero piegato come un giunco e di sicuro screditato agli occhi di tutti come proprio è screditato un mendicante.” La Chiesa vi è raffigurata come la tenutaria di un ordine considerato immutabile, pronta a difenderlo ad ogni costo con ostilità e presunzione. Dirà Anteo, riguardo alle richieste degli inviati di Massimina, i suoi tre fratelli: “giacché era peggio che impiccarmi chiedere di rinunciare in quel modo alle mie idee come se esse fossero davvero una colpa infamante.” Il dissidio tra Massimina e Anteo acquista nel romanzo il significato sempre più marcato di scontro tra il vecchio e il nuovo, tra la realtà e il sogno.
L’ombra di Cervantes si allunga sempre di più su questo insolito romanzo, sospeso tra visionarietà e sogno: “sentivo che la giornata non ammetteva più quei ritagli e quelle inerzie che sono possibili all’inizio e alla fine, quando la grande testa di tutta la terra non è ancora tesa e non si sprigiona corrispondenza per ogni cosa e si abbandona in quei chiarori liquidi della mattina e della sera come in un bagno.” Più si va avanti, più ci si accorge che lo nutre e lo ispira all’interno di una scrittura che ha la medesima sapienza tragica ed ossessiva, in cui la rarissima presenza di capitoli e di paragrafi, o comunque di una qualsiasi forma prolungata di sospensione e di pausa, fanno pensare a un ininterrotto cantico rivolto alla vita e ai suoi misteri. Sia pure diverse, Dulcinea e Massimina rappresentano quell’aspirazione al sogno e al possesso che muove tanto Don Chisciotte quanto Anteo.
Per ritrovarla, il protagonista si trasferisce a Roma e, finiti i soldi, trova un primo lavoro presso un circo, addetto alla gabbia dei leoni: “Massimina era diventata una fissazione e non c’era posto dove io non credessi di poterla trovare.”
L’accesa discussione che Anteo ha con una sua datrice di lavoro, la lupinara, che gli costerà il posto, mostra un ardimento tutto utopistico, ma sostenuto dalla forza dell’ideale e del sogno: è la lotta del bene contro il male, della miseria contro lo sfruttamento, della libertà contro la schiavitù. Trovare Massimina, nel fuoco di questa lotta, significa dare un’altra chance alla realizzazione dei suoi sogni. Anche solo rivederla per poi separarsi di nuovo. Lo scontro (una vera e proprio invettiva contro il sopruso) con l’avvocato e consigliere Luigi Frugiferenti, presso cui Massimina lavora, che non vuole fargliela incontrare (“l’inutile grido di un gallinaccio”), è un altro momento significativo del percorso che Anteo si è prefissato: “Dovevo […] tenere presente che io non potevo accettare la persecuzione e ripiegare con i miei progetti nella lotta contro l’autorità e la società, ma che dovevo con indifferenza andare avanti, pensando che con i miei proponimenti io perseguivo il modo stesso di beneficare e migliorare l’autorità e la società e quindi di rompere i motivi della loro lotta contro di me.”
Scacciato da Roma con un foglio di via della Questura, fa ritorno a casa senza Massimina.
L’assenza della donna amata ha un risvolto nella vita di Anteo, che avverte uno stato di selvatico ancoraggio alla natura, ancor più nel rigore di un inverno rigido che lo vede passeggiare nei boschi con il fucile in spalla ad osservare e a cacciare. Taluni episodi che gli accadono, come l’uccisione di una volpe che si butta contro il suo sparo “per morire subito” danno la misura di un movimento aggiuntivo alla sua analisi e alla sua esperienza, talché “mi proposi di dover inventare il modo di tirare avanti senza il bisogno di nessuna comodità.” È un immedesimarsi che si connota di una specie di crudeltà bestiale, come quando (era già accaduto con la volpe) “Un branco di tordi era venuto addirittura sul rosmarino del mio orto e tutti insieme svolazzavano, si beccavano l’un l’altro, stretti come se fossero dentro la cocca di un fazzoletto. Presi il fucile e dalla finestra della cucina sparai un colpo che fece restare per terra, ai piedi del rosmarino, nove tordi”. La condanna contro la società ingiusta e violenta (gli dirà Liborio: “la tua vita è diventata quella di un ribelle”) rischia di trasformarsi, dunque, in una vocazione alla solitudine, quale creatrice e motrice di una vita primordiale. Sembra una scossa, un contatto che dà al protagonista l’avvertimento di una china pericolosa, quasi un monito a tenersi lontano da una congiunzione che non può più essere ormai quella di un’età che l’evoluzione ha cancellato per sempre: “cercai di reagire e capii prima di tutto che dovevo distruggere le tagliole e che dovevo mettermi subito dalla parte di quegli animali, tordi e lepri, che avevo fino a quel momento cacciato”. E ancora: “Da queste decisioni ritrovai subito il pensiero della scienza, il quale cominciò col farmi intendere che stavo andando indietro, indietro nel tempo storico e nella mia condizione di uomo in quella maniera di cacciatore solitario e di amante della natura, come appunto va indietro l’uomo che non ha scienza e non frequenta la scienza.” Anche se poi preferirà rubare ai vicini e fracassare “la testa di un porcello, me lo caricai sulle spalle e tornai a casa.” Infatti, il suo proposito sarà di breve durata: “Le galline andavano via pedinando ed io le abbattevo con dei colpi micidiali”, a dimostrazione di un percorso che le contrarietà della vita non rendono mai del tutto sicuro.

La bellezza della scrittura di Volponi sta nel suo trasformarsi improvvisamente in una luce e in un incanto da favola. Non si ha più certezza se ci troviamo a leggere parole o a vedere direttamente, come se le vivessimo, scene della natura nelle quali ci sentiamo immersi come in un quadro di Bruegel. Il cammino nei boschi che conduce Anteo ad Acquaviva, dove va a far visita a Liborio (“dopo quattro mesi che non parlavo con nessuno”), divenutone parroco, dà al lettore le medesime suggestioni che scaturiscono da “Cacciatori nella neve” del grande pittore fiammingo.
Da questa visita, sostenuta da un dialogo serrato, intenso ed esplicativo, trae nutrimento il suo spirito ribelle, che si manifesta ancor più incrudelito giacché, come gli fa notare Liborio, “la tua scienza ed i tuoi studi mi sembrano spesso insufficienti.”
Il cammino di Anteo, partito da una ricerca scientifica, tutta impregnata dell’esattezza e della lucidità della scienza, trova in Massimina e nell’ostinato amore verso di lei, il suo punto di arresto, ossia il momento in cui la forza della scienza si misura con l’arcano e l’invisibile che è in noi e ne resta soggiogata se non addirittura sconfitta.
Il desiderio di Massimina domina la sua mente, lo assilla e lo affligge a tal punto che il corpo di Massimina non è più quella carne che lo attira e lo fa delirare, ma si trasforma in una sottile e inesorabile sfida alle sue convinzioni: “Temevo davvero di avere ceduto qualcosa all’amore di Massimina”. E poco più avanti: “la scienza non può essere altro che incertezza ed evoluzione e che come incertezza altro non è che lo strumento per comunicare, toccare, andare avanti e che come evoluzione è la spinta a migliorare e a credere che sempre ogni cosa debba cercare di diventare migliore di quello che è fino a… Aspettare dunque, anche nella scienza, come diceva Massimina”. È l’avvio di una disperazione, che si rifugia nell’ostentazione di una sicurezza verso una scienza che nessuno comprende e riconosce. L’udienza presso il Tribunale di Urbino troverà il Pubblico Ministero pronto a sostenere che “la sua impudenza e la sua criminalità non sono umane e di certo un’impudenza così sfacciata e tanto sottile è il frutto di una mente perversa e ben cosciente, che mira alla disintegrazione della società…” Quella di Anteo viene, dunque, considerata alla stregua dell’ostinazione che porta Don Chisciotte a combattere contro i mulini a vento: “Le sue idee sono il frutto della sua follia”. Il miraggio di Anteo si rivela, pur tuttavia, come la sola forza che riesce a sorreggerlo, e a mano a mano che si accresce il suo tormento per una lotta impari che lo vede soccombente, essa scema via via al pari di quella statuina rubata nella villa della contessa Carsidoni, che a poco a poco Anteo svuota del suo originale contenuto. La tragedia che lo colpisce (siamo nel gelido gennaio del 1960) fa da detonatore a quanto fino ad allora si era illuso di costruire e congiungere: “Dopo il mio corpo si irrigidì e la mia mente restò tagliata fuori di me; entrambi senza nessuna possibilità di agire, entrambi per proprio conto, come se tutti i pezzi, perduta ogni intenzione unitaria e finale dei costruttori, ritornassero in libertà dentro e fuori, con o senza neve.”
Ne scaturisce un delirio che lo allontanerà per sempre, come in un volo senza più ritorno, dalla realtà, all’interno della sua idea che, come una minuta navicella, lo condurrà altrove: “forse perché io sono ormai a mezz’aria e fuori dalle continenze della terra e del suo sistema posso guardare, come non avevo mai guardato, direttamente e con tanto affetto ogni cosa, di nuovo”.