Grazie ai volontari del Progetto Griffo è online (disponibile per il download gratuito) l’ePub: Tigre reale di Giovanni Verga.
La versione definitiva del romanzo, pubblicato nel 1875, è la rielaborazione di una precedente stesura del 1873, bocciata dall’editore Treves. Rispetto alla prima, Verga affianca al tema centrale della passione anche quello della famiglia. Come già era successo in Eros, la vita matrimoniale concreta e rassicurante viene proposta come alternativa alla futilità e alla vacuità delle passioni sconvolgenti.
La figura principale del racconto è Giorgio La Ferita, giovane capriccioso, diplomatico e dal debole carattere. Il fulcro di tutta la storia è l’amore tra Giorgio e la contessa russa. Nata, che il giovane conosce a Firenze e per cui egli vive un sentimento totalizzante. Il tema della passione amorosa subita passivamente, come una fatalità da cui è impossibile tentare di liberarsi, è centrale anche in questa opera. Nata è un donna bella e conturbante che si rivela al tempo stesso enigmatica e incostante. La sua vita è segnata da una terribile malattia, la tisi, che la rende spesso debole. L’idea dell’amore distruttivo e passionale è amplificata dalla presenza continua della morte: la consumazione fisica si mescola alla passione amorosa facendo calare un alone di negatività nella storia d’amore. L’intreccio dell’opera è molto complicato. Il romanzo si apre con la notizia del matrimonio tra il giovane e la signorina Erminia Rusticaglia a Catania, lasciando sullo sfondo la relazione con Nata.
Nello svolgimento del racconto alcuni episodi ricongiungono le vite dei due amanti. Giorgio arriva ad abbandonare la moglie per seguire la contessa, ormai in fin di vita. Ma il rimorso e una consapevolezza nuova lo portano a ritrovare l’equilibrio e la pacatezza nelle mura domestiche con la moglie e il figlio. Verga sancisce così la definitiva guarigione di Giorgio nella riscoperta dell’amore coniugale.
Sinossi a cura di Daniela Pescetelli.
Dall’incipit del libro:
Non sapevo più nulla di Giorgio La Ferlita allorché ricevetti il biglietto che m’invitava alle sue nozze. Dacché si era messo nella carriera diplomatica non ci eravamo visti che a rari intervalli, e come di sfuggita. L’ultima volta che l’avevo incontrato a Firenze, in tutta la pompa della sua cravatta bianca, arrivava dal Giappone, e ci stringemmo la mano alla tavola rotonda dell’Albergo della Pace. Il mio amico era un bel giovane, pieno di brio, alquanto sarcastico e motteggevole, con una vernice di buona compagnia raccolta qua e là, a Londra e a Vienna, un po’ commesso viaggiatore in uniforme d’addetto d’ambasciata. Fu gentilissimo verso di me, mi riconobbe subito, non mi parlò de’ suoi viaggi, e a mo’ di ringraziamento gli offersi un sigaro mentre prendevamo il caffè; me lo ricambiò con uno de’ suoi, accennandomene però la lontana provenienza; il discorso si metteva sul freddino, e finì lì; ci facemmo grandi promesse di vederci spesso, e ci incontrammo due o tre volte sul vestibolo, mentre egli sortiva ed io entravo, o viceversa. Un bel mattino poi mi capitò in camera come una bomba, parlandomi di non so che duello, pel quale mi pregava di assisterlo con tali discorsi e tal viso da spiritato, che dissi di no due volte invece che una, e naturalmente ci lasciammo meno amici di prima. Due giorni dopo seppi che era stato inchiodato al letto da un colpo di spada, e andai a trovarlo; egli aveva la febbre; mi narrò una storia, la quale sembrava anch’essa un delirio febbrile, e che racconterò forse in seguito.
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