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Il conte pecoraio di Ippolito NievoIl conte pecoraio

di Ippolito Nievo. Dall’incipit del libro:

Un bel paesino guarda nel mezzano Friuli lo sbocco d’una di quelle forre, che dividono il parlare italico dallo slavo; ma quanto le montagne gli si radunano da tergo aspre e aggrottate, altrettanto esso ride tutto aperto e pampinoso incontro al sole che lo vagheggia dall’alba al tramonto anche nelle giornate piú avare del verno. Pronunciare cosí di botto le tre dolci sillabe del suo nome, sarebbe come innamorarvene addirittura, e togliere a me scrittore il merito di un tal trionfo; onde, lettori garbati, accontentatevi di sapere per ora, come lo divida per mezzo il torrente Cornapo, nato poche miglia piú sopra tra le prime vedette del grande accampamento slavo. A destra si digrada per poggi e valloncelli un giardino intrecciato di castagneti e di vigne; e sembra che il Pittore eterno, compiaciutosi troppo di quella parte del quadro, ne abbia poi sbozzato affrettatamente le altre, dove le nude rocce si drizzano, si storcono, e precipitano nel torrente in atteggiamenti orribili e mostruosi. Ciò nullameno sulla riva sinistra torreggia anche adesso un vasto caseggiato, che raccoglie gli aspetti di palazzo e di fattoria; e dietro di esso fino ad alcune rovinose merlature feudali s’inerpica un bosco di castagni confitto e saldato su quei greppi dalla solerte mano di molte generazioni. Quel caseggiato poi, per quanto, conosciuto dappresso, abbia viso piú d’un villan rifatto che d’un rigido guerriero o d’un parruccone patrizio, ha redatto dalle soprastanti rovine il titolo di castello, per quel sottile buon senso delle lingue volgari, che mirando al fondo delle cose o, come esso dice, alla morale della favola, imbercia sempre nel vero.

Elementi di pittura di Leon Battista AlbertiElementi di pittura

di Leon Battista Alberti. Dall’incipit del libro:

Vedestu mai che un cieco insegnasse la via a chi vedea? Apresso noi qui con questi brevissimi ricordi, quali chiamiamo Elementi, assequirai che chi forse per sé non sa designare, e’ mostrerà vera e certa ragione e modo a diventare perfetto designatore, purché tu non fugga aprendere quello che tu iudichi impossibile. Prova prima se ti riesce, e poi iudica e della nostra erudizione e del tuo ingegno quello te ne pare. Provando mi crederai, e credendomi ti deletterai conoscerli tutti. Tu così fà, e amami.

De Pictura di Leon Battista AlbertiDe Pictura

di Leon Battista Alberti. Dall’incipit del libro:

Io solea maravigliarmi insieme e dolermi che tante ottime e divine arti e scienze, quali per loro opere e per le istorie veggiamo copiose erano in que’ vertuosissimi passati antiqui, ora così siano mancate e quasi in tutto perdute: pittori, scultori, architetti, musici, ieometri, retorici, auguri e simili nobilissimi e maravigliosi intelletti oggi si truovano rarissimi e poco da lodarli. Onde stimai fusse, quanto da molti questo così essere udiva, che già la natura, maestra delle cose, fatta antica e stracca, più non producea come né giuganti così né ingegni, quali in que’ suoi quasi giovinili e più gloriosi tempi produsse, amplissimi e maravigliosi. Ma poi che io dal lungo essilio in quale siamo noi Alberti invecchiati, qui fui in questa nostra sopra l’altre ornatissima patria ridutto, compresi in molti ma prima in te, Filippo, e in quel nostro amicissimo Donato scultore e in quegli altri Nencio e Luca e Masaccio, essere a ogni lodata cosa ingegno da non posporli a qual si sia stato antiquo e famoso in queste arti. Pertanto m’avidi in nostra industria e diligenza non meno che in benificio della natura e de’ tempi stare il potere acquistarsi ogni laude di qual si sia virtù. Confessoti sì a quegli antiqui, avendo quale aveano copia da chi imparare e imitarli, meno era difficile salire in cognizione di quelle supreme arti quali oggi a noi sono faticosissime; ma quinci tanto più el nostro nome più debba essere maggiore, se noi sanza precettori, senza essemplo alcuno, troviamo arti e scienze non udite e mai vedute.

L'obbedienza non è più una virtù di Lorenzo MilaniL’obbedienza non è più una virtù

di Lorenzo Milani. Dall’incipit del libro:

Star sui coglioni a tutti come sono stati i profeti innanzi e dopo Cristo. Rendersi antipatici noiosi odiosi insopportabili a tutti quelli che non vogliono aprire gli occhi sulla luce”. Don Milani priore di Barbiana studia da profeta. Lo dice a volte con l’ironia ed il sarcasmo che gli sono consueti. E lo dice da profeta moderno, anche con il suo linguaggio che per forza e immediatezza non può non ricordare i profeti della Bibbia. Isaia in testa. Quella di don Lorenzo Milani, prete ortodosso fino allo spasimo, fino alle lacrime, è una vera e propria strategia, un metodo: sulle orme di Socrate e di Cristo, vuol turbare le coscienze, condurle alla riflessione critica. “Io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero” scrive, illustrando il suo metodo pastorale. “Vedi, con la dolcezza – spiega a un altro prete, don Renzo Rossi – raggiungerei soltanto quelli che non hanno bisogno delle mie osservazioni. Con la durezza invece ho la speranza di sconquassare quelli, in buona fede, che non potrei raggiungere. Chi riceve uno schiaffo, se è in mala fede, reagisce male, si ribella. Se invece è in buona fede, viene scosso, e poi è portato a riflettere. Con la dolcezza lo lascerei nell’illusione!”. Sulla sua figura di profeta il priore di Barbiana scherza con una strana drammaticità. “…ho cambiato malattia – fa sapere in una lettera al suo avvocato, Adolfo Gatti -. Contro ogni regola scientifica son passato dal linfogranuloma alla leucemia mieloide. Due malattie altrettanto inguaribili ma l’una e l’altra dotate dell’unica qualità che mi sta a cuore cioè di non richiedere operazioni.

I vecchi e i giovani di Luigi PirandelloI vecchi e i giovani

di Luigi Pirandello. Dall’incipit del libro:

La pioggia, caduta a diluvio durante la notte, aveva reso impraticabile quel lungo stradone di campagna, tutto a volte e risvolte, quasi in cerca di men faticose erte e di pendii meno ripidi. Il guasto dell’intemperie appariva tanto più triste, in quanto, qua e là, già era evidente il disprezzo e quasi il dispetto della cura di chi aveva tracciato e costruito la via per facilitare il cammino tra le asperità di quei luoghi con gomiti e giravolte e opere or di sostegno or di riparo: i sostegni eran crollati, i ripari abbattuti, per dar passo a dirupate scorciatoje. Piovigginava ancora a scosse nell’alba livida tra il vento che spirava gelido a raffiche da ponente; e a ogni raffica, su quel lembo di paese emergente or ora, appena, cruccioso, dalle fosche ombre umide della notte tempestosa, pareva scorresse un brivido, dalla città, alta e velata sul colle, alle vallate, ai poggi, ai piani irti ancora di stoppie annerite, fino al mare laggiù, torbido e rabbuffato. Pioggia e vento parevano un’ostinata crudeltà del cielo sopra la desolazione di quelle piagge estreme della Sicilia, su le quali Girgenti, nei resti miserevoli della sua antichissima vita raccolti lassù, si levava silenziosa e attonita superstite nel vuoto di un tempo senza vicende, nell’abbandono d’una miseria senza riparo. Le alte spalliere di fichidindia, ispide, carnute e stravolte, o le siepi di rovi secchi e di agavi, le muricce qua e là screpolate erano di tratto in tratto interrotte da qualche pilastro cadente che reggeva un cancello scontorto e arrugginito o da rozzi e squallidi tabernacoli, i quali, nella solitudine immobile, guardati dagl’ispidi rami degli alberi gocciolanti, anziché conforto ispiravano un certo sgomento, posti com’eran lì a ricordare la fede a viandanti (per la maggior parte campagnuoli e carrettieri) che troppo spesso, con aperta o nascosta ferocia, dimostravano di non ricordarsene.

Il fu Mattia Pascal di Luigi PirandelloIl fu Mattia Pascal

di Luigi Pirandello. Dall’incipit del libro:

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: — Io mi chiamo Mattia Pascal. — Grazie, caro. Questo lo so. — E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: — Io mi chiamo Mattia Pascal. Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a un tratto che… sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente.

Mastro-don Gesualdo di Giovanni VergaMastro-don Gesualdo

di Giovanni Verga. Dall’incipit del libro:

Suonava la messa dell’alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. Tutt’a un tratto, nel silenzio, s’udì un rovinìo, la campanella squillante di Sant’Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia, gridando: ― Terremoto! San Gregorio Magno! Era ancora buio. Lontano, nell’ampia distesa nera dell’Alìa, ammiccava soltanto un lume di carbonai, e più a sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone basso che tagliava l’alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l’allarme anch’esso; poi la campana fessa di San Vito; l’altra della chiesa madre, più lontano; quella di Sant’Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l’altra s’erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre. ― No! no! È il fuoco!… Fuoco in casa Trao!… San Giovanni Battista! Gli uomini accorrevano vociando, colle brache in mano. Le donne mettevano il lume alla finestra: tutto il paese, sulla collina, che formicolava di lumi, come fosse il giovedì sera, quando suonano le due ore di notte: una cosa da far rizzare i capelli in testa, chi avesse visto da lontano.

I Malavoglia di Giovanni VergaI Malavoglia

di Giovanni Verga. Dall’incipit del libro:

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto.

Elegia di Madonna Fiammetta di Giovanni BoccaccioElegia di Madonna Fiammetta

di Giovanni Boccaccio. Dall’incipit del libro:

Voi sole, le quali io per me medesima conosco pieghevoli e agl’infortunii pie, priego che leggiate; voi, leggendo, non troverete favole greche ornate di molte bugie, né troiane battaglie sozze per molto sangue, ma amorose, stimolate da molti disiri, nelle quali davanti agli occhi vostri appariranno le misere lagrime, gl’impetuosi sospiri, le dolenti voci e li tempestosi pensieri, li quali, con istimolo continuo molestandomi, insieme il cibo, il sonno, i lieti tempi e l’amata bellezza hanno da me tolta via.

Lo scarabeo d’oro di Edgar Allan PoeLo scarabeo d’oro

di Edgar Allan Poe. Dall’incipit del libro:

Molti anni or sono mi legai di stretta amicizia con un tale William Legrand. Egli apparteneva a un’antica famiglia ugonotta e una volta era stato ricco; ma una serie di disgrazie l’aveva ridotto in miseria. Per sfuggirne la mortificazione, decise di abbandonare New Orleans, città dei suoi avi, e si trasferí nell’isola di Sullivan, presso Charleston, nella Carolina meridionale.

Quest’isola è molto singolare. Consiste di poco altro che sabbia marina, e ha circa tre miglia di lunghezza. In larghezza non misura mai piú di un quarto di miglio. È separata dalla terraferma da una gora appena visibile che filtra attraverso una macchia fangosa di canne, ritrovo favorito della gallina acquatica. La vegetazione, come è facile supporre, vi cresce misera e nana. Non vi si vedono alberi che possano dirsi propriamente tali.

Verso l’estremità occidentale, dove si trova il forte Moultrie e qualche miserabile casuccia di legno, abitata, l’estate, da gente che sfugge le febbri e la polvere di Charleston, s’incontra, è vero, il palmetto spinoso; ma, fatta eccezione di questo punto occidentale e di una striscia dura e biancastra sul mare, tutta l’isola è coperta da una fitta macchia di mirto odoroso, tanto apprezzato dagli orticultori inglesi. I cespugli, qui, raggiungono spesso l’altezza di quindici o venti piedi e formano un folto quasi impenetrabile, che appesantisce l’aria della sua fragranza.

Madame Bovary di Gustave FlaubertMadame Bovary

di Gustave Flaubert. Dall’incipit del libro:

Stavamo studiando, quando entrò il preside seguito da un nuovo alunno vestito in borghese e dal bidello che trasportava un grosso banco. Quelli che dormivano si svegliarono e si alzarono in piedi come sorpresi in piena attività. Il preside ci fece cenno di star comodi, poi si rivolse all’insegnante: «Professor Roger,» disse sottovoce «le raccomando questo allievo. Viene ammesso alla quinta, ma se il profitto e la condotta lo renderanno meritevole, passerà fra i grandi, come richiederebbe la sua età». Il ‘nuovo’, un giovane e robusto campagnolo d’una quindicina di anni circa, alto di statura più di ognuno di noi, rimaneva in un angolo dietro la porta, di modo che lo vedevamo appena. Aveva i capelli tagliati diritti sulla fronte, come un chierichetto di paese: sembrava assennato e molto intimorito. Benché non avesse le spalle larghe, dava l’impressione che la giacchetta di panno verde con i bottoni neri lo stringesse sotto le ascelle; gli spacchi dei risvolti delle maniche lasciavano vedere i polsi arrossati a furia di rimanere scoperti. Le gambe calzate di blu sbucavano da un paio di pantaloni giallastri sostenuti con troppa energia dalle bretelle. Portava scarpe chiodate robuste e mal lucidate. Cominciammo a recitare le lezioni. Egli stava tutto orecchi ad ascoltarle, attento come se ascoltasse un sermone, senza osare nemmeno incrociare le gambe o appoggiarsi al gomito, e alle due, quando suonò la campana, il professore dovette chiamarlo perché si mettesse in fila con noi.