Come in altre opere di D’Arzo, non succede praticamente nulla in questo romanzo, ambientato forse in una Mitteleuropa ottocentesca, ma è un nulla di grande densità e spessore, ricco di meraviglia e di incanto: è un oscillare continuo tra l’essenzialità delle cose e delle persone e il loro aspetto fantastico.
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Dall’incipit del Prologo:
Marek vedovo, da che la moglie gli era stata sepolta nella valle assieme ai vecchi amici carrettieri, non metteva più piede nella strada, benché né ricordi, o particolari pene o nostalgia lo tenessero chiuso in quel suo andito dall’odore di notte o acqua notturna.
«Ehi ehi» gli andavano gridando qualche volta di giù i vecchi compagni, e uno magari portava lettere o pacchi nei cortili, magari uno teneva in mano una scopa antica e dura per aiutare il volo delle foglie «ehi ehi, mi sembra che Marek vedovo ora esageri.» O anche: «Sua moglie è in mezzo a tutti i carrettieri. È nella valle, in mezzo a tutti i vecchi carrettieri, e qualcheduno non andava mai dal reverendo Gonek per la predica». O anche, poi: «E nemmeno eran tutti vecchi, i carrettieri». (Si udiva ora la scopa di fascine stridere brevemente sopra i sassi, poi addolcirsi dentro una pozza d’acqua, poi riprendere: anche s’udiva il nome e il cognome di un vicino con degna e stizzosa voce d’uomo piccolo). E infine, e sorridevano: «Farebbe meglio ad andar giù dall’Eva, dietro il banco».
Ridendo, assicuravano di averla vista appunto un minuto prima: e dietro il banco.
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