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(voce di SopraPensiero)
Quando Francis Scott Fitzgerald pubblicò sulla rivista «Collier’s» «Il curioso caso di Benjamin Button» seppe accettare di buongrado la critica impietosa di un lettore, affrettato nel condannare l’opera. Il racconto sviluppa una riflessione leopardiana di Mark Twain sulla vita, che purtroppo offre le gioie più intense all’inizio per poi riservare il maggior dolore al crepuscolo, proponendo una visone fantastica e reinterpretata della natura umana non facile da condividere. La critica che venne mossa al romanziere statunitense era concisa, come si fa con gli autori di poco valore: semplicemente il lettore affermava di aver conosciuto molti scrittori asini, ma per lui Fitzgerald era « […] il più asino di tutti.» Colui che decretava tale stroncatura probabilmente non aveva colto la sottile ironia presente nella storia di Benjamin Button, attraverso cui si rivelano i paradossi della vita.
La serenità alberga inevitabilmente nell’incoscienza, da questo punto di vista quella del neonato è la condizione migliore della natura umana, priva di aspirazioni che possono essere disilluse e di sofferenze psichiche; il neonato se non soffre fisicamente è felice, almeno nella visione dell’esistenza presentata da Twain e sviluppata da Fitzgerald. Le altre età mettono l’uomo alla prova con traguardi da raggiungere e difficoltà da superare, queste ultime diventano insormontabili con il passare degli anni, quando le forze fisiche e la lucidità mentale vengono meno. Siamo portati a ritenere che lanatura, quella Natura Matrigna di cui parla Leopardi, si prenda gioco dell’essere umano, che conosce solo per breve tempo la completa felicità, per poi giungere a una visione della vita sempre più disillusa e pessimista.
Ne «Il curioso caso di Benjamin Button» accade l’esatto contrario. La storia in Italia è stata resa nota dall’omonimo film di David Fincher, con Brad Pitt nei panni del protagonista, che in realtà segue solo a grandi linee la trama di Fitzgerald, ma ne mantiene il messaggio di fondo. Una vita inevitabilmente fatta di episodi felici e infelici, ma che si conclude nella serenità dell’incoscienza.
Il signor Button, ricco abitante di Baltimora proprietario di un’affermata azienda che produce nel settore della ferramenta, fa nascere il proprio bambino in ospedale; è il 1860 e le consuetudini degli statunitensi prevedono ancora che il parto avvenga tra le mura domestiche. Button appare all’avanguardia da questo punto di vista, ma proprio lui che dimostra tanto interesse per il destino della sua prole, si trova ad avere una terribile delusione. Sua moglie ha paradossalmente partorito un vecchio di oltre settant’anni alto un metro e settantacinque, che sa parlare fin dai primi minuti di vita. L’evento incredibile non ha spiegazioni e il povero padre non è intenzionato a trovarne; non accetta la tragedia che lo ha colpito e pretende che il figlio già vecchio si comporti in tutto e per tutto come ogni altro bambino, almeno fino a che non raggiunge la maggiore età e viene inscritto a Yale.
Fitzgerald fa iniziare la vita del suo personaggio nelle difficoltà e nella sofferenza fisica, seguendo la riflessione di Twain cerca di reinterpretare l’esistenza umana con lo scopo di renderla forse più giusta. Benjamin non si sente accettato dalla famiglia, è costretto a fingere di essere chi non è e anche la società lo rifiuta quando viene cacciato in malo modo dall’Università, perché smettendo di tingersi i capelli appare nel suo vero aspetto senile. Il padre fin da piccolo lo aveva costretto a travestirsi affinché non dovesse vergognarsi troppo di lui, ma quando la sua età inevitabilmente si avvicina a quella del figlio, poiché quest’ultimo va a ritroso e il genitore invece segue l’ordine normale dell’invecchiamento, Roger Button impara a dialogare con Benjamin, che finisce per manifestare doti inaspettate.
Il nostro assume la direzione dell’azienda di famiglia, che riesce a portare a livelli insperati attraverso una serie di manovre commerciali vincenti. Singolare la sua idea di recuperare i chiodi dalle casse di imballaggio per venderli insieme a quelli prodotti dalla sua fabbrica, con un decisivo incremento degli utili. Per il protagonista il periodo buio dell’esistenza sembra essersi concluso e il tono narrativo di Fitzgerald si fa palesemente ironico. Diventato un’intraprendente uomo di mezza età, il pupillo dei Button oltre a rivelarsi vincente negli affari, sposa una ragazza di buona famiglia e combatte valorosamente nella guerra ispano-americana. Ma quando torna dal fronte con il corpo di un trentenne, scopre di non provare più attrazione per la moglie ormai cinquantenne, che finisce per tradire con donne più giovani. Dopo i dolori delle terza età e l’impegno per affermarsi, adesso Benjamin è nel pieno delle forze e vuole godersi senza riserve il periodo più bello della vita.
Anno dopo anno le sue cellule ringiovaniscono costantemente, fino a farlo divenire un anziano all’anagrafe con le sembianze prima di un adolescente e poi di un bambino. È ormai sul tramontare dell’esistenza e per lui tornano gravi difficoltà, in particolare nel farsi accettare nella sua singolare condizione dal figlio, che divenuto un uomo maturo e con una propria famiglia mal sopporta la presenza di un padre giovanissimo sotto il suo tetto. Nel finale, però, Fitzgerald mantiene fede alla riflessione filosofica di Twain e riserva al suo personaggio una tarda età vissuta con le fattezze di un neonato in modo sereno, raccontata con una dolcezza assoluta che avvince il lettore. Il narratore esterno spiega che il mondo del piccolo ormai ruota intorno alla sua balia e alla palla di color giallo nel cielo che ha imparato a chiamare sole, piange solo quando ha fame e il suo ricordo più bello è quello del sapore del latte, fino a quando per lui non rimane che l’oscurità.
È inevitabile chiedersi se la vita di Benjamin Button sia stata davvero più felice di quella di qualsiasi altro uomo, al di là della serenità degli ultimi anni. Fitzgerald nel lettore insinua il dubbio che, malgrado il suo singolare processo biologico, il protagonista ha vissuto un’esistenza simile a quella di qualsiasi altro essere umano. Visto ancora una volta in chiave leopardiana, il romanzo non offre una soluzione all’infelicità, i momenti di illusione e disillusione di Benjamin sono diversi rispetto al consueto ordine della vita, ma permangono. Egli inizia il suo cammino soffrendo, conosce la realizzazione quando il suo percorso è già avanzato (felicità che gli appariva insperata, non come un giovane che ha coltivato i suoi progetti e gioisce nel vederli realizzati) e giunto alla fase finale non si piega alla vecchiaia, tornando a provare delusione e insofferenza.
Del resto lo stesso Twain non aveva parlato di una vita totalmente serena, ma solo della possibilità di concentrare le paure e le angosce nella fase iniziale, lasciando intendere di creare i presupposti per la felicità. Fitzgerald, però, attraverso la storia di Benjamin Button dimostra che, anche vivendo al contrario, l’uomo continua a non essere stato creato per la felicità.