Sembra che, negli ultimi anni, in varie forme, la narrativa, tanto quella d’arte, quanto, in modo ovviamente meno meditato e più schematico, quella di genere e di consumo, abbia ritrovato e riscoperto (forse anche per reagire al frammentismo, alla dispersione, all’assenza di coordinate e di gerarchie propri dello sguardo postmoderno, per rinnovare un rapporto consapevole con la realtà e con la storia, per tornare ad essere, insomma, pur se nei modi e nei limiti che le sono propri, uno strumento di conoscenza) un respiro epico, una volontà di abbracciare vasti panorami e di cogliere l’essenza di una stagione e di un clima sociale e culturale.
È questo l’intento che si intuisce alla base del vasto Romanzo per la mano sinistra di Giancarlo Micheli (Manni, Lecce 2017, pp. 635, euro 30), che ripercorre, dalla genesi del nazifascismo fino alle folgoranti, ed inquietanti, carriere post-belliche di alcuni scienziati ed imprenditori precedentemente collusi con la dittatura e alle ombre del golpe Borghese e della strategia della tensione (ma non senza accennare alla coeva e speculare oppressione sovietica), le linee di forza e di azione politiche e militari che si sono, nel corso del secolo, tese per imbrigliare e stritolare la libertà e la dignità dell’uomo.
Ma non si deve pensare che il romanzo si risolva in una rappresentazione manichea, patetica o moralistica, o in una semplice e monolitica, per quanto legittima, condanna. Fin dal titolo (che allude forse allo straordinario Concerto per la mano sinistra che Ravel scrisse per Paul Wittgenstein), il romanzo immerge gli eventi in un’atmosfera studiata, straniante, ostentatamente artificiosa, sia nelle situazioni e nei dialoghi (che sembrano mantenere una sorta di quasi teatrale formalità, volutamente inverosimile, anche quando sullo sfondo sono evocati i crudeli ed impassibili inferni del Novecento, come se la vita e la storia fossero una recita in cui ad ognuno è già stata assegnata una parte) che nel registro linguistico e stilistico (sempre elevato, sintatticamente tornito, solcato fino all’estremo da sottilissime venature analitiche ed introspettive – e riuscire a mantenere coerentemente tale sostenutezza e tale finezza di stile e di tono per più di seicento pagine rappresenta un’ardua sfida, una perigliosa scommessa).
Come a sottolineare, in quest’assenza di moralismo o di ideologismo troppo marcato, in questo tono quasi distaccato, a tratti ironico (anche se con un tragismo sotteso, sepolto eppure ancora vivo e parlante, per così dire, sotto la superficie levigata dello stile e quella insanguinata e dolorante degli eventi), l’impotenza (peraltro mai esplicitamente dichiarata) della parola letteraria – fosco alato che leva il proprio volo sul far del crepuscolo – di fronte a quegli orrori, a quei paradossi e a quella ferocia con cui pure accetta di misurarsi.
È interessante, in particolare, il modo in cui, nel romanzo, la sfera estetica si interseca con quella tragica, le meraviglie dell’arte (pur dense di significati e di potenzialità conoscitive, e pur evocate dallo scrittore in una luce affascinata e affascinante) assistono, per così dire, inerti, fatalmente impotenti, agli orrori e ai soprusi, come a sancire la possibilità, la seduzione, ma infine l’illusorietà e il fallimento, di qualsiasi catarsi estetica.
È il caso della figura del pio Gioacchino nella Cappella degli Scrovegni (e nei Vangeli Apocrifi), prima respinto e reietto, poi salvato da un radioso intervento angelico; o dell’Apocalypsis cum figuris del Dürer, accostata alla distopia hitleriana; o dei «nastri di celluloide intrecciati in ghirlande di tempo», dei tuffatori trasfigurati in angeli, in Olympia di Leni Riefenstahl, personificato paradosso, quest’ultima, di un’arte che conserva la propria dignità estetica pur asservendosi al potere, e anzi mettendo al servizio di esso quella stessa dignità che pur resta, paradosso nel paradosso, intatta ed innegabile; della splendida, magica visione, della «auratica ed illusoria sospensione» in cui si avvolge una Ferrara divisa fra il Castello Estense, testimone di tutti gli splendori e di tutte le miserie del potere, e le Muse inquietanti di De Chirico, che sovvertono e deformano e straniano ogni prospettiva temporale e conoscitiva.
Forse proprio la dechirichiana maschera che «tracciava dal proprio invertito punto di vista i contorni degli oggetti in primo piano» può essere simbolo di quest’arte narrativa, che (se vogliamo scomodare i maestri del Novecento) raccoglie la «sfida al labirinto», al groviglio, al gliuommero degli eventi scanditi da un’indecifrabile teodicea, e che traccia o tenta di tracciare una «prospettiva della prospettiva» in cui inquadrare e guardare tempi e spazi e figure, senza però avere la pretesa di una soluzione definitiva e rassicurante.
Eppure, infine, sono pur sempre la voce della memoria, la parola della testimonianza, a scongiurare, almeno temporaneamente, lo spettro sempre ritornante dell’oppressione. Grazie alla testimonianza, «il flusso di capitali si interruppe, le camionette militari refluirono nelle caserme, ed al principe del vecchio ordine l’oratio obliqua s’inceppò tra il palato e il pomo d’Adamo». La parola, anche se a posteriori, e pur se nella sua nudità e nella sua fragilità immedicabili, qualcosa ancora può (quasi come l’oscura e disperata, ma vitale, resistenza delle donne di Ravensbrück, pure evocate, spettri vivissimi e potenti, nel romanzo) contro il linguaggio, sordo ottuso pietroso, della violenza.