di
Le mille e una notte
Novelle arabe
Storia del giovine zoppo
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— Mio padre teneva nella città di Bagdad un grado da aspirare alle principali cariche, ma egli preferì sempre una vita tranquilla. Non ebbe altri figliuoli all’infuori di me e quando morì io aveva già lo spirito formato ed era in età di poter disporre delle grandi ricchezze lasciatemi.
Un giorno mentre mi ritrovava in una strada vidi venire avanti di me una gran turba di donne; per non incontrarle presi una strada traversa, e mi assisi sopra un banco vicino ad una porta. Stava di faccia ad una finestra, ove era un vaso di bellissimi fiori, su cui teneva fissi gli sguardi, quando la finestra si aprì e vidi comparire una giovine dama, la cui bellezza mi abbagliò.
Ella subito lanciò i suoi sguardi sopra di me, ed innaffiando il vaso di fiori con una mano più bianca dell’alabastro mi guardò con un sorriso che m’inspirò altrettanto amore per lei, quanta avversione avevo avuta fino allora per tutte le donne.
Dopo avere inaffiato i fiori, ed avermi lanciato uno sguardo pieno di vezzi, il quale terminò di ferirmi il cuore, serrò la sua finestra e lasciommi in una confusione ed in un disordine indicibile.
Ritornai a casa, agitato. Mi posi a letto con una gran febbre, la quale cagionò una grande afflizione al mio famigliare. I miei parenti, i quali mi amavano, spaventati da una infermità cotanto improvvisa, accorsero sollecitamente, e m’importunarono per sapere la cagione: ma ebbi gran cura di non palesarlo.
Cominciarono a disperare della mia vita. Quando una vecchia dama loro conoscente, informata della mia infermità, venne a trovarmi: essa mi considerò con molta attenzione, e dopo avermi ben bene esaminato, conobbe la cagione della mia infermità.
Essa li tirò in disparte, pregandoli di lasciarla sola meco. Uscito ognuno dalla camera, si assise al mio capezzale per dirmi:
— Figlio mio, vi siete finora ostinato a tener celata la cagione del vostro male, ma io non ho bisogno che me la manifestiate: ho esperienza sufficiente della vita per penetrare questo segreto, e non me lo negherete quando vi dirò essere l’amore il quale vi rende infermo. Io posso procurarvi la vostra guarigione, purché mi facciate conoscere chi è la fortunata che ha saputo ferire un cuore tanto insensibile come il vostro: poiché voi avete fama di non amare le donne, ed io non sarò stata l’ultima ad accorgermene, vedo finalmente che ciò che ho preveduto è avvenuto ed io son molto lieta che mi si presenti l’occasione per far quanto posso per togliervi di pena.
La buona dama disse tante cose, che ruppi finalmente il silenzio, le manifestai il luogo ove aveva veduto l’oggetto che lo cagionava, e le spiegai tutta la particolarità del mio accidente.
— Figliuol mio – mi rispose la vecchia dama – conosco la persona della quale mi parlate; essa è, come avete giudicato, figliuola del primo Cadì di questa città. Io non meraviglio punto del vostro amore per essa, poiché è la più amabile dama di Bagdad: ma ciò che m’incresce si è che è altiera e di un accesso molto difficile. Impiegherò nonostante tutta la mia destrezza: ma vi bisognerà del tempo per riuscirvi; non perdetevi di coraggio e confidate in me.
La vecchia mi lasciò. Ritornò il giorno dopo: ma lessi sul suo viso non aver nulla di favorevole ad annunciarmi. Infatti mi disse:
— Figliuol mio, non mi ero ingannata; ho da superar ben altra cosa che la vigilanza di suo padre: voi amate un essere insensibile, che si compiace di veder penare senza voler somministrare il minimo sollievo: mi ha udito con piacere, finché le ho parlato del vostro male: ma appena le ho detto alcune cose per impegnarla a permettervi di vederla, e conversare con lei, mi ha risposto:
— Siete troppo ardita di farmi simile proposta, e vi proibisco di giammai più rivedermi, quando vogliate farmi tali discorsi!!
— Ciò non vi affligga – proseguì la vecchia – io non son facile a disanimarmi al bel principio, e purché non vi manchi la sofferenza, spero di riuscire nel mio disegno.
— Per abbreviare la narrazione – aggiunse il giovine – dirovvi che quella buona messaggera fece inutilmente molti altri tentativi a mio favore, presso la crudele nemica del mio riposo.
Era considerato come un uomo il quale non aspettava se non la morte, quando la vecchia venne a restituirmi la vita.
Affinché niuno la udisse, mi disse all’orecchio:
— Signore mio caro, voi non morirete: ed in breve avrò il piacere di rivedervi in perfetta salute. Ieri, lunedì, andai alla casa della vostra dama, e la ritrovai di un umore molto allegro; me le presentai con faccia mesta, proruppi in profondissimi sospiri, e versai molte lagrime.
— Mia buona madre – mi disse – che avete? Perché vi dimostrate così afflitta?
— Ohimè, cara ed onorata signora – le risposi – vengo ora dal giovine signore del quale vi parlai l’altro giorno; egli è sul punto di morire per voi: è un gran male, vi assicuro, che la vostra crudeltà ne sia la cagione.
— Or bene – replicò essa sospirando – fategli adunque sperare che mi vedrà: ma non s’aspetti altri favori, e non aspiri a sposarmi, se mio padre non approva il nostro matrimonio. Non vedo tempo più opportuno di fargli questa grazia, se non venerdì prossimo, durante la preghiera del mezzodì. Che egli osservi quando mio padre sarà uscito per andarvi, e subito venga a presentarsi alla porta di mia casa. Io dalla mia finestra lo vedrò arrivare e calerò ad aprirgli.
— Siamo ora al martedì, – continuò la vecchia – potete fino a venerdì ricuperare le vostre forze, e disporvi a questa visita.
A misura che la buona dama parlava, sentivo diminuire il mio male, mi ritrovai del tutto risanato al fine del suo discorso.
— Pigliate – dissi consegnandole una borsa piena d’oro – a voi sola sono debitore della mia guarigione.
Il venerdì mattina giunse la vecchia nel mentre mi vestiva.
— Io non vi chiedo come state: l’occupazione in cui vi vedo me ne dice abbastanza; ma non vi laverete voi prima d’incamminarvi alla casa del primo Cadì?
— In ciò impiegherei molto tempo – le risposi – mi contenterò di far venire un barbiere e di farmi radere i capelli e la barba.
Subito ordinai ad uno dei miei schiavi di ricercarne uno valente nel suo mestiere, e molto sollecito.
Lo schiavo mi condusse il disgraziato barbiere qui presente, il quale dopo avermi salutato, mi disse:
— Voi sarete molto contento di sapere che oggi siamo al decimottavo venerdì della luna di Safar dell’anno 653 dopo il ritiro del nostro gran Profeta della Mecca a Medina; dell’anno 7320 dell’epoca del gran Iskender a due corna, e che la congiunzione di Marte e di Mercurio significa non poter sceglier miglior occasione di questo giorno, all’ora presente, per farvi rasare: ma da altra parte questa stessa congiunzione è di un sinistro presagio per voi. Mi fa conoscere che in questo giorno siete sottoposto ad incorrere in un gran pericolo, non già per perdere la vita, ma di un incomodo, il quale vi durerà per tutto il rimanente de’ vostri giorni; voi dovete essermi obbligato dell’avviso che vi do, acciò possiate essere guardingo sopra tale disgrazia, che mi rincrescerebbe molto se vi accadesse.
Giudicate, o miei signori, il dispiacere che provai di essere caduto nelle mani di un barbiere cotanto ciarlone e stravagante. Che fastidioso contrattempo per un amante il quale preparavasi ad un appuntamento! Me ne rincrebbe moltissimo.
— Finitela una volta adunque, o importuno ciarlone – esclamai – e principiate, se volete, a rasarmi!
— Signore – mi replicò il barbiere – voi mi fate un’ingiuria, chiamandomi ciarlone: ognuno al contrario mi attribuisce l’onorato titolo di Taciturno. Avevo sei fratelli, i quali avreste potuto con ragione chiamare ciarloni: ed affinché li conosciate, il maggiore si chiama Bacbouc, il secondo Bakbarah, il terzo Bakbac, il quarto Alcouz, il quinto Alnascar, ed il sesto Schahabac. Questi erano parlatori importuni: ma io, loro cadetto, son serio e conciso nei miei discorsi.
— Di grazia, o miei signori, mettetevi ne’ miei panni: qual partito poteva prendere vedendomi tanto crudemente assassinato?
— Dategli tre pezzi d’oro – dissi a quello de’ miei schiavi incaricato della spesa della mia casa – se ne vada, e mi lasci in riposo: io non voglio più farmi rasare oggi.
— Signore – mi disse allora il barbiere – che intendete dire con questo discorso? Non sono stato io a cercarvi: siete voi che mi avete fatto venire, quindi giuro per la fede mussulmana di non uscire da casa vostra se prima non vi avrò rasato.
Stanco dall’udirlo, ed arrabbiato di vedere scorrere il tempo gridai:
— Non e possibile esservi un altro uomo che si faccia come voi un piacere di far arrabbiare la gente.
— Credei – continuò il giovine zoppo di Bagdad – poter meglio riuscire praticando col barbiere la dolcezza.
— Caro signore – gli dissi – lasciate da parte tutti i vostri bei discorsi e prestamente sbrigatevi; un affare di somma importanza mi chiama fuori di casa, come già vi ho detto.
— Piano, o signore – mi disse – non v’impazientate, or ora son per principiare.
Veramente egli mi lavò il capo, e si pose a rasarmi; ma non appena ei ebbe dato quattro colpi di rasoio che si fermò per dirmi:
— Vuol dire che avete qualche affare di gran premura?
— Eh! sono da due ore – gli replicai – che ve lo dico, dovreste già avermi rasato.
Tanto più fretta io dimostrava, minore egli ne aveva ad obbedirmi. Depose il rasoio per pigliare il suo astrolabio; poscia, lasciandolo, ripigliò il suo rasoio. Il barbiere depose di nuovo il rasoio, ripigliò una terza volta il suo astrolabio, e mi lasciò mezzo rasato per andare a vedere l’ora precisa.
Egli ritornò dicendomi:
— Se voi volete, o signore, parteciparmi quale sia l’affare per cui dovete partire a mezzogiorno, vi somministrerò qualche consiglio utile.
Per contentarlo gli dissi aspettarmi certi amici a mezzodì per banchettare, e rallegrarsi meco della ricuperata salute.
Quando il barbiere udì parlare di banchetto disse:
— Il cielo vi benedica oggi come tutti gli altri giorni! Voi mi ricordate aver ieri invitato quattro o cinque amici a venire oggi a mangiare da me; me ne era dimenticato, e non ho peranco fatto alcun preparativo.
— Ciò non vi ponga in alcun impaccio – gli dissi – Ancorché me ne vada fuori di casa a mangiare, la mia tavola è sempre ben provveduta. Vi faccio regalo di quanto vi si troverà; vi farò pure dare quanto vino vorrete, avendone io dell’eccellente nella mia cantina, ma dovete con prestezza terminare di radermi.
— Il cielo vi ricompensi – esclamò della grazia che mi fate; ma ora mostratemi queste provvigioni, affinché possa vedere se vi è sufficientemente di che banchettare i miei amici.
— Ho – gli dissi – un agnello, sei capponi e una dozzina di pollastri.
Ordinai ad uno schiavo di portar tutto questo con quattro fiaschi di vino.
— Sta bene – ripigliò il barbiere – ma vi bisognerebbero delle frutta e qualche altra cosa per condire la carne.
Gli feci apprestare quanto egli ricercava; tralasciò di nuovo di radermi, per esaminare ogni cosa l’una dopo l’altra: e come quest’esame durò quasi mezz’ora, io pestava coi piedi la terra e mi arrabbiava: ma fu inutile il pestare e l’arrabbiarmi; questo birbante non si affrettava di più.
Ripigliò per altro il rasoio, ma mi rasò per qualche momento; poscia fermandosi tutto all’improvviso mi disse:
— Non avrei giammai creduto, o signore, che voi foste così generoso. Certamente non meritavo le grazie delle quali mi ricolmate, e vi assicuro che ne conserverò un’eterna riconoscenza; imperocché, o signore, affinché lo sappiate, nulla io ho se non che mi viene dalla generosità delle persone civili come voi. Io rassomiglio a Zantout il quale asciuga ognuno al bagno. Udite, o signore, questa è la canzone ed il ballo di Zantout, il quale asciuga ognuno al bagno. Guardate, vedete se ben so imitarlo.
Il barbiere cantò la canzone, danzò il ballo di Zantout. A dispetto del mio sdegno non potei fare a meno di non ridere delle sue pazzie.
— Signore – ripigliò egli – non mi negate la grazia che vi chiedo: venite a divertirvi con noi. Se vi foste trovato una volta con quelle persone, ne sareste tanto contento da rinunziare per essi a’ vostri amici.
— Non parliamo di questo, poiché non posso godere la vostra conversazione.
Nulla acquistai con la dolcezza.
— Giacché non volete venire voi da me – replicò il barbiere – bisogna adunque che voi vi contentiate che io venga con voi. Vado a portare alla mia casa quanto mi avete dato; i miei amici mangeranno, se a loro parrà bene, e ritornerò subito: non voglio commettere l’inciviltà di lasciarvi andar solo.
— Cielo! – allora esclamai – non potrò adunque liberarmi oggi da un uomo cotanto fastidioso? In nome del gran Maometto – gli dissi – terminate i vostri discorsi importuni: andate a ritrovare i vostri amici, bevete, mangiate, state allegramente e lasciatemi la libertà di andar dove voglio, non avendo bisogno che veruno mi accompagni.
— Voi vi burlate di me – ripigliò egli – se i vostri amici vi hanno convitato ad un banchetto, qual ragione può impedirmi di accompagnarvi? Farete gran piacere, ne son sicuro, di condur loro un uomo che ha, come me la maniera di far ridere, che sa piacevolmente divertire una compagnia. Checché diciate, la cosa è risoluta ed io vi accompagnerò a vostro dispetto.
Queste parole, o miei signori, mi gettarono in un grande impaccio.
— Come mai mi libererò io da questo maledetto barbiere? – diceva fra me stesso. – Se mi ostino a contraddirgli non termineremo la nostra lite.
Udiva per altro che di già chiamavasi per la prima volta alla preghiera del mezzodì e che era tempo di partire; sicché mi appigliai al partito di non profferir parola, e di far sembiante di aderire che egli venisse meco. Terminò allora di radermi, e ciò fatto gli dissi:
— Pigliate qualcheduna delle mie genti per portare con voi queste provvigioni e ritornate: io vi aspetto, né partirò senza di voi.
Partì egli alla fine, e terminai con sollecitudine di vestirmi.
Udii chiamare alla preghiera per l’ultima volta; mi affrettai ad incamminarmi, ma il malizioso barbiere il quale aveva indovinato la mia intenzione si era accontentato di andare colle mie genti fin dove poteva veder la sua casa e vederli entrare; poscia erasi nascosto in un cantone della strada per osservarmi e seguirmi; infatti, quando fui giunto alla porta del Cadì, mi voltai e lo vidi all’ingresso della strada: n’ebbi un mortal dispiacere.
La porta del Cadì era mezzo aperta, e nell’entrare vidi la vecchia dama che mi aspettava e dopo aver chiusa la porta mi condusse nella camera della giovane, della quale ero innamorato: ma appena incominciai a parlare udimmo un gran rumore nella strada.
La giovane si affacciò alla finestra col capo e vide il Cadì suo padre che ritornava di già dalla preghiera. Nello stesso tempo guardai io pure, e vidi il barbiere assiso nel luogo istesso dal quale avevo veduto la giovane dama.
Ebbi allora due motivi di timore: l’arrivo del Cadì, e la presenza del barbiere.
La giovane dama m’incoraggiò sopra il primo, dicendomi che suo padre non saliva alla sua camera se non molto di rado, ed in tal caso aveva pensato al mezzo di farmi uscire con sicurezza: ma l’indiscretezza dello sgraziato barbiere mi cagionava una grande inquietudine, e voi conoscerete non essere questa inquietudine senza fondamento.
Entrato il Cadì in casa diede egli stesso una bastonata ad uno schiavo il quale meritava di averla; questo prorompeva in grandi clamori: il barbiere credendo gridassi io, proruppe egli pure in ispaventevoli grida: lacerò le sue vesti, gettò della polvere sopra il suo capo, chiamando in soccorso tutto il vicinato.
Richiesto di ciò che egli avesse e qual soccorso potea prestarglisi, esclamò:
— Ohimè, viene assassinato il mio padrone! – e senza dir di più corse fino alla mia casa, gridando sempre alla stessa maniera, e ne ritornò accompagnato da tutti i miei servitori armati di bastoni. Picchiarono essi con furore, da non potersi concepire, alla porta del Cadì, il quale mandò uno schiavo per vedere ciò che fosse: ma lo schiavo tutto spaventato ritornò verso il suo padrone dicendo:
— Signore, più di dugent’uomini vogliono entrare per forza nella vostra casa e già principiano a forzarne la porta.
Il Cadì accorse subito, aprì la porta, e chiese qual cosa pretendevasi da lui.
Ma la sua presenza venerabile non poté inspirare rispetto alle mie genti, le quali insolentemente gli dissero:
— Maledetto Cadì, cane di Cadì, qual motivo avete voi di assassinare il nostro padrone? Che vi ha egli fatto?
— Buona gente – rispose il Cadì – perché credete aver io assassinato il vostro padrone, il quale non conosco e che non mi ha offeso? Ecco la mia casa aperta, entrate, vedete, ricercate.
— Voi l’avete bastonato un momento fa – disse il barbiere – ho udito le sue grida.
— Ma – replicò di nuovo il Cadì – quale offesa ha potuto farmi il vostro padrone per avermi obbligato a maltrattarlo, come dite? Forse egli si trova in mia casa? E se vi si trova, come vi è entrato, e chi ve lo può avere introdotto?
Appena ebbe terminate queste parole, il barbiere e le mie genti si slanciarono nella casa furibondi e si posero a rintracciarmi dappertutto.
Avendo udito quanto il barbiere aveva detto al Cadì, rintracciai un luogo per nascondermi; altro non trovai se non un gran forziere vuoto, nel quale mi posi e chiusi sopra di me.
Il barbiere, dopo aver ricercato per tutto, non lasciò di venire nella camera ov’io era. Egli si accostò al forziere, l’aprì, e vedutomi dentro, lo prese, se lo pose sopra il capo, e lo portò via; poi disceso da una scala molto alta in una corte, l’attraversò, raggiungendo finalmente la porta della strada.
Mentre egli mi portava, il forziere si aprì per disgrazia, né potendo sopportare il rossore di vedermi esposto agli sguardi e agli schiamazzi della plebe la quale ci seguiva, mi slanciai nella strada cotanto precipitosamente, che mi ruppi una gamba, e da quel tempo ne sono rimasto zoppo.
Non sentii subito tutto il mio male; mi alzai per involarmi alle risa del popolo con una pronta fuga, gittando dei pugni d’oro e d’argento, di cui la mia borsa era piena, e nel momento in cui essi si occupavano a raccoglierlo, m’involai girando per vie segrete: ma il maledetto barbiere, approfittando dell’astuzia, di cui si era servito per isbarazzarmi dalla folla, m’inseguì senza perdermi di vista, gridando di tutta sua possa: – Fermatevi signore, perché correte con tanta fretta? Se sapeste quanto sono stato afflitto pel pessimo trattamento inflittovi dal Cadì, voi cotanto generoso ed al quale tant’obbligo abbiamo i miei amici ed io! Non ve lo aveva detto, che esponevate la vostra vita con la vostra ostinazione, non volendo esser da me accompagnato? Questo è quello che per vostra colpa vi è accaduto: e se dal mio canto non mi fossi ostinato a seguirvi per vedere ove andavate, che sarebbe stato di voi? Ove andate dunque, o signore? Aspettatemi.
In simili termini il malaugurato barbiere parlava ad alta voce nella strada. Non contentavasi di aver cagionato un sì grande scandalo nel quartiere del Cadì, voleva inoltre che tutta la città ne avesse la cognizione. Nella rabbia, in cui ero, bramava di aspettarlo per strangolarlo, ma in tal guisa avrei resa più pubblica la mia confusione. Mi appigliai ad un altro partito; entrai in un Khan, del quale io conosceva il custode.
Lo ritrovai alla porta dove, per lo strepito, era accorso.
— Deh – gli dissi – fatemi la grazia che quel pazzo non entri qui dopo di me.
Egli me lo promise, ed adempì la sua promessa: ma ciò non seguì senza pena, perocché l’ostinato barbiere voleva entrare a suo dispetto, né ritirossi se non dopo averlo oppresso di mille ingiurie, e finché non fu entrato nella sua casa non cessò di narrare a tutti quelli che incontrava il gran servigio che pretendeva avermi prestato.
Questa è la maniera con la quale mi liberai da un uomo tanto importuno. Dopo ciò, il custode mi pregò di partecipargli i miei accidenti; glieli narrai, pregandolo poscia di apparecchiarmi un appartamento, finché non fossi guarito.
Difatti appena guarito presi meco gran parte del mio denaro e del rimanente delle mie sostanze ne feci donazione a’ miei parenti.
Partii adunque da Bagdad, o miei signori, e fin qui son venuto. Avevo speranza di non incontrare questo barbiere in un paese cotanto lontano, pure lo ritrovo fra voi; non siate quindi sorpresi della premura che ho di ritirarmi.
Nel terminar queste parole il giovane zoppo si alzò e partì.
Partito lo zoppo, restammo tutti molto meravigliati della sua storia. Gettammo i nostri sguardi sopra il barbiere, e gli dicemmo aver egli gran torto, se quanto avevamo udito era vero.
— Signori – ci rispose alzando il capo – il silenzio da me osservato mentre quel giovine vi ha parlato, deve servirvi di testimonianza, qualmente egli vi ha detto la pura verità: ma per quanto egli abbia potuto dirvi, sostengo aver io dovuto eseguire quanto ho operato. Io ne faccio voi stessi giudici. Non erasi egli gettato nel pericolo? E senza il mio soccorso ne sarebbe egli partito tanto felicemente? Egli è troppo fortunato di essersene liberato con una gamba incomoda. Non mi sono io esposto a pericolo maggiore, onde levarlo da una casa in cui m’immaginava venisse maltrattato? Ha egli ragione di dolersi di me e di opprimermi d’ingiurie cotanto atroci? Questo è quello che si guadagna a servir persone ingrate! Mi accusa di essere un ciarlone: e questa è pura calunnia. Di sette fratelli che noi eravamo, io son quegli che parlo meno ed ho maggiore spirito degli altri. Per farvelo vedere chiaramente, o miei signori, vi voglio narrar la mia e la loro storia. Eran tutti più ciarloni gli uni degli altri ed in quanto alla figura vi era ancora una differenza ben grande fra essi e me. Il primo era gobbo, il secondo sdentato, il terzo cieco, il quarto guercio, il quinto aveva le orecchie tagliate, ed il sesto le labbra spezzate.
Continua…
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TITOLO: Storia del giovine zoppo
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.
SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale