Un team di astronomi ha pubblicato uno studio che pone severi limiti alla presenza di pianeti intorno alla vicina stella di Barnard ed esclude definitivamente l’esistenza di due pianeti di tipo gioviano, «scoperti» negli anni ’60 dall’astronomo di origine olandese Peter van de Kamp. Questi nuovi risultati fanno da mesto contraltare all’entusiasmo con cui all’inizio degli anni ’70 fu varato il Progetto Daedalus, un ambizioso tentativo durato cinque anni di progettare un’astronave interstellare in grado di raggiungere la stella di Barnard e i suoi presunti pianeti nell’arco di una vita umana.
Una stellina apparentemente insignificante
GJ 699 e HIP 87937 sono solo due dei tanti nomi – dipende dal catalogo che si usa – di una modesta stellina di classe spettrale M4V nella costellazione di Ofiuco. Si tratta di una nana rossa grande circa un quinto del Sole: con un diametro di 277.000 km, non raggiunge neppure il doppio del diametro di Giove. Rispetto a quest’ultimo è però molto più massiccia: stazza circa 165 masse gioviane, pari al 16% della massa del Sole.
Con una magnitudine apparente di 9,5, questa piccola nana rossa è del tutto invisibile a occhio nudo. Ha una temperatura effettiva di 3.134 K (contro i 5.778 K del Sole) e una luminosità nelle frequenze del visibile che è solo 0,4 millesimi di quella della nostra stella. La luminosità bolometrica, cioè l’emissione totale in tutte le frequenze dello spettro, è un po’ maggiore (3,46 millesimi di quella del Sole), a causa del fatto che le nane rosse raggiungono il picco di emissione nel vicino infrarosso e non nella luce visibile come il Sole. La stellina è comunque così fioca che, se si trovasse al centro del sistema solare, sarebbe solo cento volte più brillante della Luna piena: la stessa luminosità che avrebbe il Sole, se l’osservassimo da un pianeta lontano più del doppio di Plutone.
Lecito domandarsi, a questo punto, quale importanza possa mai avere, per noi terrestri, questo piccolo astro anodino. La risposta la fornì nel 1916 Edward Emerson Barnard, un astronomo dell’Osservatorio di Yerkes dotato di eccezionale capacità di osservazione: si accorse infatti, comparando la posizione delle stelle su lastre fotografiche risalenti a epoche diverse, che quella nana rossa aveva un moto proprio, cioè uno spostamento angolare nel cielo rispetto al nostro punto di osservazione, che nessun altro oggetto possedeva. Contro uno sfondo di stelle immobili, quella che da allora è universalmente nota come la «stella di Barnard» sfrecciava letteralmente nel cielo, macinando 10,3 secondi d’arco all’anno. La sua velocità è tale che le bastano «solo» 180 anni per spostarsi rispetto al nostro punto di vista di una distanza angolare pari al disco della Luna piena. Solo i pianeti del sistema solare si muovono più velocemente, grazie al fatto che, in termini astronomici, si trovano praticamente appena fuori la nostra porta di casa.
Ma cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire innanzitutto che la stella di Barnard è vicinissima al sistema solare. Il fatto che possiamo vederla spostarsi significativamente nel cielo nell’arco di pochi anni, mentre tutte le stelle circostanti restano pressoché immobili, è un po’ come guardare scorrere il paesaggio dal finestrino di un treno: gli oggetti in primo piano sfrecciano via rapidamente, mentre quelli lontani appaiono quasi fermi. Questa impressione intuitiva è stata ampiamente confermata dai rilievi astrometrici, per esempio quelli del satellite Hipparcos, che all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso misurò con alta precisione la parallasse trigonometrica di oltre centomila stelle e con minor precisione quella di altri due milioni e mezzo.
La misura della parallasse stellare ha a che fare con angoli ridottissimi, che diventano più piccoli e difficili da misurare quanto più una stella è lontana. Ciò implica che il metodo funziona bene solo con stelle piuttosto vicine. Per fortuna la stella di Barnard è davvero molto vicina e dunque il metodo della parallasse ci dà la sua distanza con notevole accuratezza. Il satellite Hipparcos misurò un angolo di 549 ± 1,58 millesimi di secondo d’arco, al quale corrisponde una distanza di 1,8215 ± 0,0052 parsec: circa 5,95 anni luce. Insomma, questa nana rossa è la stella più vicina alla Terra, fatta esclusione per il sistema triplo di Alfa Centauri.
Ma la velocità con cui la stella di Barnard si sposta annualmente sullo sfondo delle stelle più lontane non vuol dire solo che è molto vicina. Vuol dire anche che ha un moto intrinsecamente veloce, quanto meno rispetto al sistema solare: 142,7 km/s in base alle misurazioni più recenti. Di questa velocità totale, la componente della velocità radiale, cioè il vettore che punta dalla stella di Barnard al Sole, è di 110,8 km/s.
La velocità radiale si misura spettroscopicamente, grazie al cosiddetto effetto Doppler, che in questo caso è uno spostamento verso il blu: la stella di Barnard si sta, infatti, avvicinando sempre più al sistema solare e continuerà a farlo per altri 7.800 anni circa, quando raggiungerà la distanza minima di 3,75 anni luce. A quel punto avrà guadagnato una magnitudine in luminosità apparente, ma sarà ancora troppo fioca per essere visibile a occhio nudo. Comincerà quindi gradualmente ad allontanarsi: gli astronomi di quell’epoca futura, se ve ne saranno, troveranno che l’effetto Doppler mostrerà non più uno spostamento verso il blu, ma verso il rosso.
Un pianeta, anzi due
Altre caratteristiche salienti della stella di Barnard sono la metallicità (cioè la percentuale di elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio) nettamente inferiore a quella del Sole nonché la scarsa velocità di rotazione, stimata con prove in verità piuttosto deboli: sembra che la stella compia una rotazione completa in 130,4 giorni terrestri, contro i poco più di 25 giorni di una rotazione solare. La bassa metallicità e la lentezza della rotazione, unite all’alta velocità del moto rispetto al sistema solare, sono elementi indicativi di una stella molto vecchia, con un’età probabilmente superiore a dieci miliardi di anni. Gli astronomi sono per lo più concordi nel considerare la stella di Barnard una stella di Popolazione II intermedia, intendendo con ciò che possiede caratteristiche a metà strada tra quelle di una stella del disco galattico come il Sole, relativamente giovane e ricca di «metalli», e una stella dell’alone galattico, al quale appartengono invece tipicamente stelle molto vecchie e povere di «metalli».
Ma definire la stella di Barnard una stella vecchia è in realtà un controsenso. Le nane rosse sono le stelle più longeve in assoluto. A dieci e passa miliardi di anni di età, questa stella non ha ancora raggiunto neppure la metà del suo ciclo vitale. La bassa velocità con cui il suo motore termonucleare consuma la riserva iniziale di idrogeno le garantisce ancora molti miliardi di anni sulla sequenza principale.
Vicina e longeva com’è, apparve fin da subito una destinazione ideale per un ipotetico, futuristico primo viaggio interstellare della specie umana. Questo sogno visionario fu grandemente alimentato, a partire dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso, dagli studi di Peter (Piet) van de Kamp.
Di origine olandese, talentuoso e cocciuto, van de Kamp visse a lungo negli Stati Uniti, dove fu professore di astronomia presso lo Swarthmore College e direttore dell’osservatorio astronomico Sproul dal 1937 al 1972. Patito di astrometria, condusse uno studio protrattosi per decenni, nel corso del quale misurò accuratamente, con un livello di precisione nell’ordine dei micrometri, la posizione della stella di Barnard su oltre cento lastre fotografiche dal 1938 in poi, alla ricerca di minuscoli sbalzi («wobbles») della traiettoria, che indicassero la trazione gravitazionale di uno o più pianeti in orbita intorno alla stella. In un primo tempo, si convinse di aver identificato gli effetti della presenza di un pianeta da 1,6 masse gioviane, orbitante a 4,4 unità astronomiche dalla stella di Barnard, con un angolo d’inclinazione di 77°. Successivamente, nel 1969, corresse il tiro, pubblicando un articolo in cui asseriva la presenza non di uno, ma di due pianeti gioviani: il più interno, con una massa pari a 0,8 volte quella di Giove, orbitava a 2,8 unità astronomiche dalla stella con un periodo di 12 anni, mentre il più esterno, con una massa 1,1 volte quella di Giove, distava 4,7 unità astronomiche e percorreva la sua orbita in 26 anni.
Questi risultati furono fortemente contestati da ricerche successive di altri astronomi. Ci fu chi trovò una correlazione tra i microspostamenti della stella di Barnard misurati da van de Kamp e la periodica manutenzione del telescopio dell’osservatorio Sproul, le cui lenti venivano smontate, pulite e poi rimontate. Ma van de Kamp non ammise mai di potersi essere sbagliato. Anzi, in un ultimo studio del 1982 dedicato all’argomento confermò l’esistenza dei due pianeti, correggendome però ancora una volta i parametri: 0,7 masse gioviane e un’orbita circolare di 4.383 giorni (12 anni), inclinata di 106°, per il pianeta più interno; 0,5 masse gioviane e un’orbita di 7.120 giorni (20 anni), inclinata di 116°, per il pianeta più esterno.
Il Progetto Daedalus
Il credito riscosso dalle ricerche di van de Kamp all’inizio degli anni ’70 fu decisivo perché si scegliesse proprio la stella di Barnard come destinazione del primo viaggio interstellare di una futuribile astronave, alla cui ideazione fu dedicato un complesso e lungo studio teorico chiamato Progetto Daedalus.
Per circa cinque anni, dal 1973 al 1978, un gruppo di scienziati e ingegneri appartenenti alla British Interplanetary Society lavorò alacremente a sviluppare l’idea di una sonda robotica, che, nell’arco di 50 anni dal lancio, potesse:
- raggiungere una destinazione interstellare;
- raccogliere autonomamente informazioni sulla presenza di pianeti ed eventuali segni di vita;
- comunicare via radio le informazioni raccolte.
Benché il sistema triplo di Alfa Centauri sia più vicino alla Terra della stella di Barnard, nessuna ricerca era riuscita a dimostrare la presenza di pianeti in orbita intorno a qualcuna delle sue tre stelle. Per la stella di Barnard, invece, gli studi astrometrici di van de Kamp sembravano garantire la presenza di almeno un pianeta. Si stabilì, dunque, che la nana rossa sarebbe stata la prima destinazione ufficiale dell’astronave interstellare al cui sviluppo era dedicato il progetto.
L’idea partorita alla fine dal gruppo di studio era ambiziosa, costosissima, molto difficile da realizzare, ma scientificamente fattibile (anche se non nell’immediato), se solo si fossero trovate la risorse economiche, il tempo e la volontà politica per provare a tradurre l’idea in realtà. Cosa che purtroppo non avvenne.
Per farla breve, il progetto prevedeva che l’assemblaggio della sonda interstellare Daedalus sarebbe avvenuto nello spazio, in orbita intorno alla Terra. Si trattava di mettere insieme un colosso grande quanto un grattacielo, pesante 54.000 tonnellate, delle quali 50.000 di carburante e 500 di carico scientifico. Il sistema di propulsione immaginato consisteva in un motore a impulsi, basato su fusione nucleare e confinamento magnetico. Avrebbe funzionato facendo esplodere in una camera di combustione 250 pellet al secondo, costituiti da una mistura di deuterio e di rarissimo elio-3 (da estrarre per buona parte dall’atmosfera di Giove, che ne è ricchissima). Ogni pellet sarebbe stato bombardato da scariche di elettroni ad alta energia che lo avrebbero trasformato in una minuscola bomba termonucleare, la cui esplosione sarebbe stata poi controllata e diretta verso il retro del veicolo da potentissimi campi magnetici, in modo da garantire la necessaria spinta propulsiva.
Il primo dei due stadi dell’astronave sarebbe servito ad accelerare il velivolo fino al 7,1% della velocità della luce in due anni, per essere poi spento e sganciato. Il secondo stadio avrebbe quindi completato il lavoro, accelerando Daedalus per altri 1,8 anni, fino al raggiungimento del 12,2% della velocità della luce. Viaggiando alla velocità di crociera di 36.600 chilometri al secondo, in 46 anni la sonda avrebbe infine raggiunto la stella di Barnard (un satellite artificiale che viaggiasse a una simile velocità compirebbe una rivoluzione completa intorno alla Terra in poco più di un secondo).
Già 25 anni prima di arrivare a destinazione, l’intelligenza artificiale di Daedalus avrebbe provveduto a spacchettare i suoi due telescopi ottici da 5 metri e i due radiotelescopi da 20 metri, lanciando un intensivo programma di studi della stella e dei suoi dintorni, alla ricerca di pianeti da esplorare. Il compito di raggiungerli sarebbe però toccato non alla sonda madre, sprovvista di un sistema per decelerare, ma a 18 sonde robotiche autonome alimentate da motori ionici, ciascuna dotata di fotocamere, spettrografi e di ogni sorta di strumento scientifico e di comunicazione. Le sonde avrebbero dovuto scandagliare l’atmosfera e la superficie dei presunti pianeti barnardiani, nella speranza di trovare segni di vita o, quantomeno, condizioni compatibili con la vita per come noi la conosciamo.
Il report finale del Progetto Daedalus reca la data del 15 maggio 1978. Nel corso di cinque anni di lavoro erano stati impiegati tredici progettisti fissi più numerosi consulenti, per un totale complessivo di circa 100.000 ore di lavoro. A oltre tre decenni dalla chiusura di quel progetto, possediamo oggi tecnologie sicuramente migliori e più potenti, ma manca una volontà politica e popolare di perseguire seriamente l’ambizioso sogno del viaggio interstellare. Purtroppo, l’entusiasmo e i finanziamenti che avevano reso possibile l’epopea dell’esplorazione spaziale negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso sono oggi quasi del tutto scomparsi. Soprattutto i secondi.
Nel 2009 è stato varato il «figlio» di Daedalus, il Progetto Icarus, sotto l’egida della Tau Zero Foundation e, ancora una volta, della British Interplanetary Society. Molto modestamente, il charter del progetto annuncia che il proposito è quello di rendere possibile il viaggio interstellare entro il 2100. Nel sito dedicato all’impresa, a parte un pulsante per le donazioni e una lista di pubblicazioni, c’è poco altro.
Viviamo tempi che non sembrano fatti per sognare.
Pianeti? Quali pianeti?
Bene o male il lavoro della scienza va avanti ugualmente, accumulando dati con certosina pazienza, anche se a volte quello che si scopre non è bello. Per esempio, un gruppo di studiosi appartenenti ad alcune delle principali università americane (Berkeley, Yale, Caltech ecc.) ha pubblicato una ricerca che esclude definitivamente, prove alla mano, la possibilità che vi siano intorno alla stella di Barnard quei pianeti di tipo gioviano, la cui esistenza van De Kamp aveva strenuamente sostenuto e difeso.
Per arrivare a simili conclusioni, Jieun Choi, primo autore dello studio, e i suoi sette colleghi hanno analizzato in ogni modo possibile 248 misurazioni Doppler della stella di Barnard, ottenute usando i sofisticati strumenti degli osservatori Lick e Keck nell’arco di ben 25 anni, tra il 1987 e il 2012.
Non ci addentreremo nel labirinto di precauzioni e sottigliezze adottate dagli autori dello studio per ridurre al minimo le possibilità di errore e i segnali di rumore. Quel che vale la pena di sottolineare è che il lavoro si è basato su misurazioni della velocità radiale dotate di un alto livello di precisione e di affidabilità. Almeno per quanto riguarda i dati del Keck dopo l’upgrade del 2004, la soglia di errore è ridotta per esempio a non più di 1,2 metri al secondo.
Per arrivare a identificare gli eventuali segnali attribuibili alla presenza di pianeti, gli autori hanno dovuto innanzitutto separare dai loro dati la parte di variazione della velocità radiale che dipendeva dall’accelerazione secolare della stella di Barnard rispetto al sistema solare. Questo effetto geometrico è causato dalla variazione nel tempo della proporzione con cui la velocità totale della stella si distribuisce nella componente trasversa e in quella radiale. Con i mezzi tecnologici a disposizione, è un valore che diventa significativo e calcolabile solo per oggetti molto vicini e molto veloci […] come appunto la stella di Barnard. È risultato, dunque, che la sua velocità radiale è soggetta a un’accelerazione secolare di 4,515 ± 0,002 m/s all’anno: un valore di cui i ricercatori hanno dovuto tener conto in ogni successiva analisi dei dati Doppler in loro possesso.
Per quanto riguarda la verifica sui presunti pianeti di van de Kamp, in primo luogo Choi e colleghi hanno generato artificialmente le curve di variazione della velocità radiale della stella di Barnard che avrebbero provocato con la loro attrazione due pianeti con le esatte caratteristiche descritte da van de Kamp nel suo ultimo studio sull’argomento del 1982. Successivamente, hanno confrontato le 248 misurazioni Doppler eseguite dagli osservatori Lick e Keck con le curve dei due ipotetici pianeti. Il risultato, come si può notare dal grafico riprodotto di seguito, non dà adito a dubbi: non c’è alcuna possibilità che quei dati, ottenuti con metodi molto più moderni e precisi delle misurazioni su lastra fotografica di van De Kamp, possano adattarsi alle curve dei due pianeti, che dunque – ora possiamo dirlo con certezza – non ci sono.
Per la verità, Choi e gli altri hanno fatto di tutto per «salvare» i pianeti di van de Kamp. Hanno pensato, per esempio, che, per una circostanza sfortunata, i segnali attribuibili all’attrazione dei due pianeti potessero aver interferito distruttivamente tra loro durante le fasi di osservazione, come due onde fuori fase che si cancellano a vicenda, per poi interferire costruttivamente solo all’esterno delle finestre di osservazione. Ma è una possibilità che non regge ai fatti: la differenza nei presunti periodi orbitali dei due pianeti è di otto anni, dunque nei venticinque anni di dati disponibili il rapporto di posizione tra i due corpi sarebbe dovuto variare abbastanza da rendere sempre più debole l’ipotetica interferenza distruttiva e più visibile la distinta impronta di entrambi sulla velocità radiale.
Un’altra possibilità esplorata dai ricercatori è stata l’inclinazione dell’orbita. Se van de Kamp si fosse sbagliato e i due pianeti, invece che trovarsi ad angoli di 106° e 116° come da lui sostenuto, si trovassero «face-on», cioè come se noi guardassimo il sistema perpendicolarmente, rimane una piccola possibilità che il loro segnale sia sfuggito alle rilevazioni della velocità radiale. Ma, tenuto conto di tutti i dati disponibili e del modo in cui si combinano, il verificarsi di una simile eventualità richiederebbe quella che gli autori dello studio hanno definito «una piuttosto insidiosa cospirazione della natura».
Alla luce di tutto ciò, a Choi e colleghi non è restato che concludere:
I due pianeti asseriti da Peter van de Kamp sono estremamente improbabili, in virtù di questi 25 anni di precise misurazioni RV [= velocità radiale]. Abbiamo portato a termine un programma durato un quarto di secolo di accurate RV della stella di Barnard con lo scopo dichiarato di riesaminare l’esistenza di questi storici pianeti. Senza dubbio, Peter van de Kamp rimane uno dei più rispettati astrometristi di tutti i tempi per la sua cura nelle osservazioni, per la tenacia e la creatività. Ma a questo punto possono esserci davvero pochi dubbi sul fatto che i due pianeti putativi di van de Kamp non esistono.
E non si è salvata neppure la teoria del pianeta singolo da 1,6 masse gioviane, in orbita a 4,4 unità astronomiche dalla stella, proposta inizialmente da van de Kamp nel 1963: «Le RV degli Osservatori Lick e Keck, che impongono limiti sulla velocità stellare riflessa di soli alcuni metri al secondo, non lasciano di fatto alcuna possibilità per pianeti di massa gioviana entro 5 unità astronomiche, salvo che per improbabili orbite face-on».
La «strage» di pianeti intorno alla stella di Barnard compiuta dagli autori di questo studio non si limita peraltro ai corpi di massa gioviana, ma va molto più a fondo, arrivando ad escludere la possibilità di oggetti anche poco più massicci della Terra:
Abbiamo stabilito saldi limiti superiori alle masse minime (M sin i) di pianeti intorno alla stella di Barnard per periodi orbitali che vanno da poche ore a 20 anni. Per periodi orbitali sotto i dieci giorni, pianeti con M sin i maggiore di due masse terrestri sarebbero stati rilevati, ma non sono stati visti. Per periodi orbitali sotto i 100 giorni, pianeti con masse minime di circa 3 masse terrestri sarebbero stati rilevati, ma non ne è stato trovato nessuno. Per periodi sotto i due anni, pianeti con masse minime oltre le 10 masse terrestri sono ugualmente esclusi.
Solitudine
La mancanza di pianeti intorno alla stella di Barnard è piuttosto soprendente. Choi e colleghi non mancano di notare che sono in corso due programmi di ricerca di esopianeti, del tutto indipendenti tra loro e basati su metodi differenti, HARPS e la missione Keplero, che hanno entrambi scoperto numerosi pianeti relativamente piccoli, poco più massicci della Terra, in orbita intorno a stelle nane di classe M simili alla stella di Barnard. Il fatto di non aver trovato pianeti intorno alla nostra vicina è rimarchevole, se non altro perché la sensibilità delle misurazioni utilizzate nella ricerca è uguale se non superiore a quella dei programmi HARPS e Keplero. La conclusione degli autori è inevitabilmente piuttosto amara:
Il mancato rilevamento di pianeti di massa simile alla Terra intorno alla stella di Barnard è sicuramente sfortunato, dal momento che la sua distanza di soli 1,8 parsec renderebbe qualsiasi pianeta di taglia terrestre un bersaglio prezioso per l’acquisizione di immagini e la spettroscopia nonché una destinazione obbligata per sonde robotiche alla fine del secolo.
Ma siamo davvero sicuri che la stella di Barnard sia sola nel suo viaggio? In verità no. Lo studio di Choi & soci non fa altro che definire dei limiti superiori, per giunta piuttosto ampi. Ritornando all’idea del viaggio interstellare, l’ideale sarebbe che esistesse almeno un pianeta di tipo terrestre nella zona abitabile della stella di Barnard. Questa possibilità non è affatto esclusa, come si desume da un passaggio del medesimo studio che abbiamo esaminato finora: «Per la stella di Barnard, la HZ [= zona abitabile] è situata approssimativamente tra 0,05 e 0,1 UA (periodi orbitali di 10-30 giorni) e appare priva di pianeti con M sin i > 3 masse terrestri».
In parole più semplici, il calcolo della velocità radiale esclude che vi siano pianeti con una massa minima di almeno tre masse terrestri nella ristretta fascia compresa tra 7,5 e 15 milioni di km di distanza dalla stella di Barnard, che, in base a calcoli presuntivi (non del tutto affidabili), è ritenuta la zona abitabile di quella nana rossa. Ora, escludiamo pure i pianeti con tre o più masse terrestri: ma cosa impedisce che vi sia in quella fascia un Mercurio, un Marte o una Terra rocciosi e ricoperti d’acqua e di nuvole? Per quello che ne sappiamo, nulla. La verità è che i nostri strumenti di rilevazione, per quanto sofisticati, sono ancora troppo deboli per darci un quadro completo del numero e della natura dei corpi che popolano lo spazio intorno ad altre stelle, neppure quando sono a noi vicinissime (in termini astronomici, ovviamente), come il sistema di Alfa Centauri e la stella di Barnard. Non ci resta che aspettare e sperare che futuri progressi ci permettano di vedere con chiarezza ciò che per ora rimane invisibile.
E si tratta di una speranza importante. Libri e film di fantascienza hanno commesso spesso un errore: ci hanno fatto sembrare terribilmente semplice e veloce superare le distanze interstellari. «Signor Sulu, velocità WARP!»: un ordine del capitano Kirk e viaggiare più veloci della luce era cosa fatta. Invece le cose sono molto complicate. Ciò che vi è di più veloce nell’universo, la luce, è in realtà una lumaca rispetto all’immensità delle distanze interstellari e, per di più, la nostra tecnologia è ancora ben lontana dal permetterci di raggiungere frazioni significative di quella velocità. Insomma, superare la solitudine cosmica della specie umana non è, e non sarà, per niente facile. Sarebbe stato bello scoprire che la stella di Barnard, una delle pochissime destinazioni forse realmente raggiungibili da un manufatto umano «intelligente», possiede pianeti da esplorare. E ancor di più sarebbe stato bello, anzi epico, progettare l’impresa di andare a visitarli.
Dopo aver fotografato per decenni i panorami deserti di pianeti e satelliti del sistema solare, come esseri intelligenti non possiamo fare a meno di domandarci se siamo davvero soli nel cosmo e se esistano altri luoghi, magari non troppo lontani, dove un giorno membri della nostra specie potrebbero trasferirsi e riuscire a sopravvivere. Ma dobbiamo nel frattempo trovare una destinazione per la quale valga la pena di impegnare risorse e un metodo per superare le immense distanze che ci separano anche dalle stelle più vicine. E in ogni caso nulla può essere garantito in anticipo. Anche se scoprissimo in futuro che nella zona abitabile della stella di Barnard c’è un pianeta con caratteristiche simili alla Terra, anche se riuscissimo miracolosamente a inviarvi una sonda, quel luogo potrebbe rivelarsi terribilmente inospitale e inadatto alla nostra sopravvivenza.
Si è scoperto, per esempio, che la stella di Barnard è molto meno tranquilla di quello che la sua età putativa lascerebbe presumere. Sono state osservate variazioni più o meno periodiche nelle sue emissioni, attribuibili alla presenza di macchie stellari e attività magnetica, che le sono valsi l’inclusione nel catalogo delle stelle variabili con il nome di V2500 Ophiuchi. Nel 1998, inoltre, fu registrato un anomalo e potentissimo brillamento che fece aumentare di mezza magnitudine o più (non esistono stime esatte) la luminosità della stella. Si calcola che il fenomeno, durato almeno un’ora, sia stato caratterizzato da una temperatura di almeno 8000 K, più che doppia della temperatura tipica della stella e superiore di una volta e mezzo alla temperatura superficiale del Sole. È facile immaginare cosa potrebbe accadere a dei coloni terrestri atterrati su un ipotetico pianeta situato nella zona abitabile della stella di Barnard, se fossero investiti da un simile, improvviso flusso di radiazioni. Si salverebbe probabilmente solo chi avesse la fortuna di trovarsi nella zona-notte del pianeta: qualsiasi corpo di piccola massa situato a pochi milioni di km dalla nana rossa si troverebbe, infatti, certamente bloccato in un’orbita sincrona, rivolgendo alla stella sempre la stessa faccia, così come fa la Luna alla Terra.
Se esistesse un luogo simile, sarebbe comunque magnifico poterlo visitare, qualunque fosse il rischio da correre. Ulisse, almeno, la penserebbe così.
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Questo articolo è stato pubblicato la prima volta ad agosto 2012, ma le informazioni in esso contenuto sono tuttora valide. Nel frattempo, è partito un progetto scientifico per la ricerca di pianeti intorno a un’altra piccola nana rossa, ancora più vicina della stella di Barnard. Il progetto si chiama Pale Red Dot e la stella è Proxima Centauri. Ne sapremo di più nei prossimi mesi.
Michele Diodati scrive sul blog astronomico Media Meraviglia.