Duccio Demetrio, La religiosità della terra. Una fede civile per la cura del mondo,

Raffaello Cortina Editore, Milano 2013, pp. 258, € 15,00copertina Demetrio

Il titolo del libro illumina ed incide una copertina color ocra. Una «t» minuscola che è bene, come suggerirà l’autore, resti tale, si snoda nel testo in un dialogo continuo con la terra che diventa oltre che tema centrale delle meditazioni del filosofo Demetrio, elemento pulsante del nostro io, della nostra «curiosità» a rinnovarci e a vivere con pienezza il nascere da Essa, la sacralità del vivere e il tornare a Lei quasi a restituire con un grazie tutto quello che ci ha donato.

E farne memoria, racconto, parola da destinare a sé e agli altri.

Consapevoli del mistero è proprio in esso che si declina il nostro dovere a non perdere il contatto con l’unica sacralità che ci possiamo concedere. La terra, in tutti gli aspetti, emozioni, suggestioni, contatti, pulsioni, realtà e nostalgie che ci offre, quando sappiamo coglierla, si veste di connotazioni che nella nostra ricerca da viandanti dovremmo introiettare, sentire cogliere e narrare. Ed è questo che si propone il testo, di parlarci sommessamente come le notti d’estate, come le foglie che si staccano ai primi freddi, come luogo da rispettare per amare noi stessi. E aspettarne semine e raccolti, inaridimenti e arsure, come specchio del cielo e non viceversa. Gli uccelli, le cui immagini aprono ogni capitolo sono il nostro desiderio di volo ed insieme la coscienza e consapevolezza della terra, unica dea, bellezza, speranza e ci indicano con il loro vivere tra cielo e terra come anche il cielo nella sua spaesante vastità possa avvicinarsi alla terra e tingersi dei suoi colori e risonanze, ed echi, e fragilità. Gli uccelli ridimensionano l’indifferenza degli astri e coagulano in un intero il contrasto spessoflagellante del «mistero» che pur rimanendo tale, scende a terra, fra noi e con noi.

«Noi siamo della razza di color che stanno a terra» scriveva Montale , uomini alla ricerca e custodi dell’indefinito più che dell’infinito, annotava Leopardi nello Zibaldone. La religiosità intesa come spiritualità, come energia, come «un inondarsi d’esistenza» e simile all’ungarettiano «mi ubriaco d’universo». La terra non è trascendente ma proprio dalla realtà si avvera quel miracolo percepito nelle parole dell’autore che è la consapevolezza di un bene da non sciupare, da curare, da proteggere, entro il quale rintracciare miti antichi e soffermarsi nel silenzio che si fa parola e la parola quando s’avvicina all’elegia come in questo testo è seme foriero di nascita, bisognoso di accadimento e di «stupore». Ed è la meraviglia di ogni alba che riflette verdi e colori diversi secondo le stagioni la pianta da non lasciar morire che ci guarda e ci aspetta, che percepisce la carezza o la scure, la oscurità del male e la responsabilità della cura. A noi laici è permesso strappare il cielo e portarlo sulla terra, a coprirla in un giorno di freddo a ripararla dal caldo consapevoli della caducità del sogno e per questo ancor più attaccati a panni di nuvole appese dopo la pioggia.

«Anticamente per chi profanava un bosco sacro in alcuni casi c’era la pena di morte perché dagli alberi erano nati gli dei e gli uomini» (Mario Rigoni Stern).

«Da bambino volevo curare i ciliegi quando rossi di frutti li credevo feriti». Sono le parole di una canzone che amo molto di De Andrè.

Voci vicine alla terra, un’aggiunta al coro di tante presenze amate che Duccio Demetrio riporta in una scrittura sempre più emozionalmente sovraesposta e sempre più vicina alla poesia in forma di prosa.