La disdetta di Pitagora
di
Luigi Pirandello
tempo di lettura: 14 minuti
— Perbacco!
E, rimettendomi il cappello, mi voltai a guardare la bella sposina tra il fidanzato e la vecchia madre.
Dri dri dri… — ah come strillavano di felicità sul lastrico della piazza assolata, nel mattino domenicale, le scarpe nuove dell’amico mio! E la fidanzata, con l’anima tutta ridente nell’azzurro infantile degli occhietti irrequieti, nelle guance invermigliate, nei dentini lucenti, sotto l’ombrellino sgargiante di seta rossa, si faceva vento, vento, vento, quasi a smorzar le vampe della gioja e del pudore, la prima volta che si mostrava cosí per via, bambina, alla gente, con a fianco — dri dri dri — quel pezzo di promesso sposo, esageratamente nuovo, pettinato, profumato e soddisfatto.
Rimettendosi in capo il cappello (piano, che la pettinatura non si guastasse), si voltò anche lui, l’amico mio, a guardarmi. O che c’entrava? Mi vide fermo in mezzo alla piazza, e chinò il capo, con un sorriso impacciato. Risposi con un altro sorriso e un vivace gesto della mano che voleva dire: «Mi rallegro! mi rallegro!».
E, fatti pochi passi, mi voltai di nuovo. Non m’aveva fatto tanto piacere quella vispa figurina tutt’accesa della piccola fidanzata, quanto l’aria di lui, dell’amico mio, che non vedevo da circa tre anni. O non si voltò anche lui a guardarmi una seconda volta?
— Che sia geloso? — pensai, incamminandomi a capo chino. — N’avrebbe ragione in fin dei conti! È proprio carina, perbacco. Ma lui, lui!
Non so; m’era sembrato anche piú alto di statura. Prodigi dell’amore! E poi, tutto ringiovanito, negli occhi specialmente, nella persona così evidentemente carezzata da certe cure affettuose di cui non l’avrei mai stimato capace, conoscendolo nemico di quegli intrattenimenti intimi e curiosissimi che ogni giovinotto suole avere con la propria immagine per ore e ore davanti a uno specchio. Prodigi dell’amore!
Dov’era stato in questi tre ultimi anni? Qua a Roma, prima, abitava in casa di Quirino Renzi, suo cognato, ch’era poi il vero amico mio. Infatti egli, per me, propriamente, si chiamava piú «il cognato di Renzi», che Bindi di casa sua. Era partito per Forlí due anni prima che Renzi lasciasse Roma, e non l’avevo piú riveduto. Ora, rièccolo a Roma e fidanzato.
— Ah, caro mio, — seguitai a pensare, — tu non fai piú, certamente, il pittore. Dri dri dri: le tue scarpe strillano troppo. Di’ che ti sei voltato ad altro mestiere, che ti deve fruttar bene. E io te ne lodo, non ostante che cotesto nuovo mestiere t’abbia persuaso a prender moglie.
Lo rividi due o tre giorni dopo, quasi alla stess’ora, di nuovo insieme con la promessa sposa e la futura suocera. Altro scambio di saluti accompagnati da sorrisi. Inchinando lieve e pur con tanta grazia il capo, mi sorrise anche la sposina, questa volta.
Da quel sorriso argomentai che Tito le aveva certo parlato a lungo di me, delle mie famose distrazioni di mente, ed anche detto che Quirino Renzi, suo cognato, mi chiama Pitagora perché non mangio fagiuoli; e spiegato anche perché, a mo’ d’ingiuria scherzosa, si può chiamar Pitagora chi non mangi fagiuoli, ecc. ecc. Cose che fanno tanto piacere.
M’accorsi che segnatamente alla suocera questa faccenda dei fagiuoli e di Pitagora aveva dovuto fare una buffissima impressione, perché, incontrandoli in seguito, non so piú quant’altre volte, sempre tutt’e tre insieme, quella vecchia marmotta sbruffava proprio a ridere, senza neppur curarsi di nascondere la risata, dopo aver risposto al mio saluto, e si voltava anche a guardarmi, ridendo ancora.
Avrei voluto ripigliar Tito qualche giorno da solo a solo per domandargli se la presente felicità non offrisse a lui, alla sposina e alla futura suocera alcun’altra cagione di riso, e in questo caso compiangerlo; ma non mi venne mai fatto. Desideravo inoltre da lui qualche notizia di Renzi e della moglie.
Ma ecco, un bel giorno, arrivarmi da Forlí questo telegramma: «Brutti guaj, Pitagora. Sarò a Roma domattina. Tròvati stazione ore 8,20. — Renzi».
O come! – pensai, – ci ha qui il cognato, e vuoi essere accolto da me alla stazione? Feci su quel «brutti guaj» un mondo di supposizioni, tra le quali la piú ragionevole mi sembrò questa: che Tito stésse per contrarre un pessimo matrimonio, e che Renzi venisse a Roma per tentare di mandarglielo a monte. Dopo circa tre mesi di saluti e di sorrisi, confesso che nutrivo già per quella bambola di sposina un’antipatia irresistibile e qualcosa di peggio per la madre.
Il giorno appresso, alle otto, ero alla stazione. E ora giudicate voi, se io non sono davvero perseguitato da un destino buffone. Arriva il treno, ed ecco Renzi al finestrino d’una vettura: mi precipito… ma le gambe all’improvviso mi si piegano; mi cascano le braccia.
— Ho con me il povero Tito, — mi fa Renzi, additandomi pietosamente il cognato.
Tito Bindi, quello lí? Come! E chi avevo io dunque salutato per tre mesi, lungo le vie di Roma? Eccolo là, Tito… Ah Dio mio, in quale stato ridotto!
— Tito, Tito… ma come?… tu… — balbetto.
Tito mi butta le braccia al collo e scoppia in un pianto dirotto. Guardo Renzi a bocca aperta. Ma come? Perché? Mi sento impazzire. Renzi allora m’accenna con una mano alla fronte e sospira, chiudendo gli occhi. — Chi? lui, io o Tito? — Chi è il pazzo?
— Sú via, Tito, — esorta Renzi il cognato, — calmati! calmati! Aspetta un po’ qua, tieni d’occhio queste valige. Io vado con Pitagora a ritirare il baule.
E, andando, mi narra sommariamente la storia miseranda del povero cognato, che da circa due anni e mezzo aveva preso moglie a Forlí: gli eran nati due bambini, uno dei quali, dopo quattro mesi, era accecato; questa disgrazia, l’impotenza di provvedere adeguatamente con l’arte sua ai bisogni della famiglia, le continue liti con la suocera e con la moglie sciocca ed egoista, gli avevano sconcertato il cervello. Ora Renzi lo conduceva a Roma per farlo visitare dai medici e divagarlo un po’.
Se non avessi visto con gli occhi miei Tito ridotto in quello stato, avrei senza dubbio creduto che Renzi, come tant’altre volte, volesse farsi beffe di me. Tra lo stordimento e la pena, gli confesso allora l’equivoco in cui ero caduto, come io cioè, fino al giorno avanti, avessi salutato Tito, promesso sposo, per le vie di Roma. Renzi, non ostante la costernazione per il cognato, non può tenersi di ridere.
— T’assicuro! — gli dico io. — Tal e quale! Proprio lui in persona! Da tre mesi ci salutiamo e ci sorridiamo: siamo divenuti amiconi! Ora sí, ora noto la differenza. Ma perché Tito, poverino, sfido! non si riconosce piú. Io saluto ogni giorno, invece, Tito qual era prima che partisse per Forlí, tre anni or sono. Ma proprio lui, sai? Tito, Tito che guarda, Tito che parla, Tito che sorride, Tito che cammina, Tito che mi riconosce e mi saluta… Proprio lui! proprio lui! Figurati che impressione m’ha fatto rivederlo cosí, ora, dopo averlo veduto jeri, verso le quattro, felice e raggiante con la sposina accanto.
La mia disdetta vuole, che di tutto quello che io sento nessuno mai debba o voglia tener conto. Renzi, com’ho detto, rideva, e, poco dopo, per distrarre il malato, gli volle raccontare questa bella avventura. Sentite ora che ne seguí.
Quel poveretto rimase in prima stranamente stupito del mio abbaglio; ci lavorò sú un pezzo con la fantasia, durante il tragitto dalla stazione all’albergo, e, alla fine, afferrandomi per un braccio, con tanto d’occhi sbarrati, confitti nei miei, mi gridò:
— Pitagora, hai ragione!
Mi spaventai; mi provai a sorridergli:
— Che vuoi dire, caro Tito?
— Dico che hai ragione! — ripeté egli senza lasciarmi, con un brio di luce terribile negli occhi sempre piú sbarrati. — Non ti sei ingannato! Quello che tu saluti sono io. Proprio io, Pitagora; che non ho mai lasciato Roma! mai! mai! Chi dice il contrario, è mio nemico! Qua, qua, tu hai ragione, io sto qua, sempre, a Roma, giovane, libero, felice, come tu ogni giorno mi vedi e mi saluti. Caro mio Pitagora, ah, respiro! respiro! Che peso m’hai levato dal petto! Grazie, caro, grazie, grazie… Sono felice! felice!
E, rivolgendosi al cognato:
— Abbiamo fatto un brutto sogno, Quirino mio! Dammi, dammi un bacio! Sento il gallo cantare di nuovo nel mio vecchio studio di Roma! Pitagora qui presente te lo dice. È vero, Pitagora? è vero? ogni giorno tu m’incontri qua a Roma… E che faccio io a Roma? Dillo a Quirino. Faccio il pittore! Il pittore! E vendo, no? Se mi vedi che rido, vuol dire che vendo! Ah… Va benone… Viva la gioventù! Scapolo, libero, felice…
— E la sposina? — mi lasciai scappare disgraziatamente, senza avvertire che Renzi, per prudenza, poco fa, nel raccontargli l’equivoco, aveva tralasciato questo pericoloso particolare.
Il volto di Tito s’abbujò a un tratto. Mi riafferrò questa volta per tutt’e due le braccia:
— Che hai detto? Come! Prendo moglie?
E guardò sbigottito il cognato.
— Ma che! — gli faccio io, subito, per rimediare, a un cenno di Renzi. — Ma che, caro Tito! So bene che tu scherzi con quella marmottina!
— Scherzo? Ah, scherzo, dici? — incalzò Tito, infuriandosi, stravolgendo gli occhi, agitando le pugna. — Dove sono? dove sto? dove mi vedi? Bastonami come un cane, se mi vedi scherzare con una donna! Non si scherza con le donne… Si comincia sempre cosí, Pitagora mio! E poi… e poi…
Scoppiò di nuovo in pianto, coprendosi il volto con le mani. Invano io e Renzi cercammo di quietarlo, di consolarlo.
— No, no! — ci rispondeva. — Se prendo moglie anche qui a Roma, sono rovinato! rovinato! Vedi come mi sono ridotto a Forlí, caro Pitagora? Salvami, salvami, per carità! A ogni costo bisogna impedirmelo! subito! Anche lí ho cominciato scherzando.
E tremava tutto, come per brividi di febbre.
— Ma se noi siamo qui per pochi giorni soltanto! — gli disse Renzi. — Il tempo di contrattare con due o tre signori per l’acquisto dei tuoi quadri, come s’era rimasti. Ce ne torneremo subito a Forlí.
— E non gioverà a nulla! — rispose Tito, con un gesto disperato delle braccia. — Ce ne torneremo a Forlí, e Pitagora seguiterà pur sempre a vedermi qua a Roma! come vuoi che sia altrimenti? Vivo qua sempre a Roma, Quirino mio, anche standomene lí. Sempre a Roma, sempre a Roma, negli anni miei belli, scapolo, libero, felice, come appunto m’ha visto Pitagora jeri stesso, non è vero? Eppure jeri noi eravamo a Forlí: vedi che non dico bugie?
Commosso, esasperato, Quirino Renzi scosse rabbiosamente la testa e strizzò gli occhi per frenar le lagrime. Finora la pazzia del cognato non gli s’era palesata in cosí disperate proporzioni.
— Via, via, — riprese Tito, rivolgendosi a me: — andiamo, conducimi subito dove tu mi suoli vedere. Andiamo al mio studio, in via Sardegna! A quest’ora ci sarò, voglio sperare che a quest’ora non sarò dalla sposina!
— Ma come! se sei qui con noi, Tito mio! — esclamai io sorridendo, con la speranza di richiamalo in sé. — Dici sul serio? Non sai che io ho la specialità degli equivoci? Ho scambiato per te un signore che ti somiglia.
— Sono io! Infame! Traditore! — mi gridò allora il povero pazzo; con gli occhi lampeggianti e con un gesto di minaccia. — Vedi questo pover’uomo? Io l’ho ingannato. Ho sposato senza dirgliene nulla. Ora tu vorresti forse ingannare anche me? Di’ la verità, sei d’accordo con lui? gli tieni mano? Vuoi farmi sposare di nascosto? Conducimi in via Sardegna… Già, so la via; ci vado da me!
Per non farlo andar solo, fummo costretti ad accompagnarlo. Via facendo, gli dissi:
— Scusa, ma non ricordi che non ci stai piú in via Sardegna?
S’arrestò, perplesso, a questa mia osservazione; mi guardò un tratto, accigliato; poi disse:
— E dove sto? Questo tu puoi saperlo meglio di me.
— Io? Oh bella! Come vuoi che lo sappia, se non lo sai neanche tu?
La risposta mi parve convincentissima, e tale da tenerlo fermo e inchiodato lí. Non sapevo che i cosí detti pazzi posseggono anch’essi quella complicatissima macchinetta cavapensieri che si chiama logica, in perfetta funzione, forse piú della nostra, in quanto, come la nostra, non si arresta mai, neppur di fronte alle piú inammissibili deduzioni.
— Io? Se non so neppure che stia per prender moglie! Che vuoi che sappia io da Forlí ciò che faccio qua, solo, a Roma, libero come un tempo? Lo saprai tu che mi vedi tutti i giorni! Andiamo, andiamo: conducimi; mi affido a te.
E, andando, di tratto in tratto, si voltava a guardarmi, con una muta supplichevole interrogazione negli occhi, che mi passava il cuore; perché con quegli occhi mi diceva che andava in cerca di se stesso per le vie di Roma, in cerca di quell’altro sé, libero e felice, del buon tempo andato; e mi domandava se io lo scorgessi in qualche parte, poiché egli lo cercava con gli occhi miei, che fino a jeri lo avevano veduto. Un’inquietudine angosciosa s’era impadronita di me. Se per disgrazia – pensavo – ci avvenisse d’imbatterci in quell’altro! Lo riconoscerebbe senza dubbio: la somiglianza è cosí evidente e perfetta! E poi, con quelle scarpe che strillano a ogni passo, quell’animale fa voltare tutta la gente! – E mi pareva di sentire da un momento all’altro, dietro di me, il dri dri dri di quelle scarpe maledette.
Poteva non darsi il caso? Ma neanche a dirlo!
Renzi era entrato in un negozio a comperar non so che cosa: io e Tito lo aspettavamo sulla via. Era già quasi sera. Guardavo impaziente il negozio da cui Renzi doveva uscire, e ogni minuto d’attesa, lí fermi, mi sapeva un’ora, quando a un tratto mi sento tirare per la giacca e vedo Tito con la bocca aperta a un sorriso muto di beatitudine, povero figliuolo! e con due grosse lagrime che gli gocciolavano dagli occhi chiari, ilari, parlanti. Lo aveva scorto; me lo additava lí, a due passi da noi, solo, fermo su lo stesso marciapiede.
Mettetevi un po’, una sola volta almeno, ne’ panni miei, senza ridere! Quel signore, nel vedersi guardato e additato a quel modo, si turbò; ma poi, accorgendosi di me, mi salutò al solito — tanto garbato, poverino! Io mi provai a fargli un cenno di nascosto, mentre con l’altra mano cercavo di trascinarmi via Tito. Non ci fu verso!
Per fortuna, colui aveva compreso il mio cenno e sorrideva; aveva però compreso soltanto che il mio compagno era pazzo; non s’era affatto riconosciuto nelle fattezze di Tito; mentre questi sí, subito, in quelle di lui. Sfido! Erano le sue di tre anni fa… Era lui stesso, che finalmente s’incontrava, qual era stato non piú di tre anni fa. E gli s’era accostato e lo contemplava estatico e lo accarezzava nelle braccia e nel petto, pian piano, sussurrandogli:
— Come sei bello… come sei bello… Questo è il nostro caro Pitagora, vedi?
Quel signore mi guardava e sorrideva, imbarazzato e timoroso. Io, per tranquillarlo, gli sorrisi, addolorato. Non l’avessi mai fatto! Tito notò quel nostro sorriso, e sospettando, subito qualche intesa fra noi due, si rivolse, minaccioso, a colui:
— Non prender moglie, imbecille: mi rovini! Vuoi ridurti come me? Straccione e disperato? Lascia quella ragazza! Non ci scherzare, stupido! mascalzone! Senza esperienza…
— Ma insomma! — gridò quel poveretto, rivolto a me, vedendo la gente accorrere curiosa, stupita, tutt’intorno a noi.
Io ebbi appena il tempo di dire: — Lo compatisca… — Tito mi fu sopra:
— Taci, traditore!
E mi diede uno spintone; poi si rivolse di nuovo a colui, con tono dimesso, persuasivo:
— No, calmati, per carità! Ascoltami… Sei focoso, lo so… Ma io debbo impedirti di trarmi alla rovina una seconda volta…
A questo punto Renzi accorse, cacciandosi tra la ressa, chiamando forte:
— Tito! Tito! Che è accaduto?
— Che? — gli rispose il povero Bindi. — Guardalo: eccolo là! Vuole riprender moglie! Diglielo tu che gli nascerà un bambino cieco… diglielo che…
Renzi a viva forza se lo trascinò via.
Poco dopo, io dovetti spiegare ogni cosa a quel signore. M’aspettavo che ne dovesse sorridere; ma non fu cosí. Mi domandò, costernato:
— Ma mi somiglia dunque tanto veramente?
— Ah, ora no! — gli risposi. — Ma se lo avesse veduto prima, tre anni fa, scapolo, qua a Roma… Lei in persona!
— Speriamo allora che fra tre anni, — disse, — io non debba ridurmi come lui…
Dopo tutto questo, avevo sí o no il diritto di credere che tutto fosse finito?
Ebbene, nossignori.
Ho ricevuto l’altro jeri – dopo circa due mesi dall’incontro che ho narrato – una cartolina firmata Ermanno Lèvera.
Dice cosí:
Caro Signore,
annunzi a quel tale Bindi che è stato obbedito. Non ho potuto piú dimenticarlo. M’è rimasto davanti come lo spettro del mio destino imminente. Ho sconcluso il matrimonio e parto domani per l’America.
Suo Ermanno Lèvera.
Ecco: se io non lo avessi salutato, povero giovine, scambiandolo per quell’altro, a quest’ora, chi sa! egli potrebbe essere un marito felice… chi sa! Tutto può darsi a questo mondo, anche certi miracoli.
Ma penso che se l’incontro con quell’altro poté su lui tanto, da produrre un tale effetto, anch’egli dovette credere d’incontrar nel Bindi se stesso, quale sarebbe stato fra tre anni. E fino a prova contraria non posso in coscienza asserire che questo signor Lèvera sia anche lui pazzo.
M’aspetto intanto che uno di questi giorni mi càpiti la visita della sposina abbandonata e della mancata suocera. Le spedisco tutt’e due a Forlí, parola d’onore. Chi sa che non si riconosceranno anche loro nella moglie e nella suocera del povero Tito Bindi. Ormai pare anche a me, che siano tutti, realmente, una cosa sola, con soltanto quel bambino cieco in piú, che qua, se Dio vuole, non nascerà, se è vero che questo signor Lèvera è partito jeri per l’America.
Fine.
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: <La disdetta di Pitagora
AUTORE: Pirandello, Luigi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle per un anno / Luigi Pirandello ; prefazione di Corrado Alvaro. - Milano : Club degli editori, stampa 1987. - 2 v. (1383, 1251 p.) ; 23 cm.
SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici