Il becchino

di
Aleksandr Puskin

tempo di lettura: 12 minuti


Non vediamo forse ogni giorno
delle casse da morto,
Canizie dell’universo che si fa
decrepito?

Djeržavin

Le ultime masserizie del becchino Adrian Prochorov furono caricate sul carro funebre, e la scarna pariglia per la quarta volta si trascinò dalla via Basmannaja alla Nikitskaja, dove il becchino traslocava con tutta la famiglia. Chiusa la bottega, inchiodò sulla porta l’annuncio che la casa si vendeva e si dava in affitto, e si diresse a piedi verso la nuova abitazione. Avvicinandosi alla casetta gialla, che tanto tempo prima aveva sedotto la sua immaginazione e finalmente era stata da lui comperata per una notevole somma, il vecchio becchino sentiva con stupore che il suo cuore non si rallegrava. Attraversata la soglia ignota e trovata una gran confusione nella sua nuova dimora, sospirò di nostalgia per la stamberghetta antica, in cui durante diciott’anni tutto era stato regolato con l’ordine piú severo; cominciò a sgridare le sue due figliole e la donna per la loro lentezza e si mise egli stesso ad aiutarle. Ben presto l’ordine fu instaurato; la mensola vetrata con le immagini sacre, l’armadio con le stoviglie, la tavola, il divano e il letto occuparono gli angoli a loro destinati nella stanza di dietro; in cucina e nel salotto trovarono posto i lavori del padron di casa: casse da morto di tutt’i colori e di tutte le misure, e inoltre armadi con cappelli da lutto, mantelli e fiaccole. Sulla porta si levò un’insegna, che rappresentava un paffuto Amorino con la fiaccola rovesciata in mano, con sotto la scritta: “Qui si vendono e si ricoprono casse da morto comuni e verniciate, e inoltre si affittano e si accomodano quelle vecchie”. Le ragazze se ne andarono nella loro cameretta; Adrian fece il giro della propria dimora, si sedette vicino alla finestra e diede ordine che si preparasse il samovar.

L’illuminato lettore sa che lo Shakespeare e Walter Scott hanno rappresentato tutt’e due i loro becchini come persone allegre e scherzose, per colpire piú fortemente la nostra fantasia con questo contrasto. Per rispetto verso la verità noi non possiamo seguire il loro esempio e siamo costretti a riconoscere che l’umore del nostro becchino rispondeva compiutamente al suo cupo mestiere. Adrian Prochorov di solito era tetro e pensieroso. Interrompeva il suo silenzio soltanto per sgridare le sue figliole, quando le trovava senza un’occupazione a occhieggiare dalla finestra i passanti, o per chiedere un prezzo esagerato delle proprie opere a coloro che avevano la sventura (ma a volte anche il piacere) di averne bisogno. Dunque Adrian, mentr’era seduto sotto la finestra e beveva la settima tazza di tè, s’era sprofondato, secondo la sua abitudine, in dolorose considerazioni. Pensava alla pioggia dirotta che, una settimana prima, aveva colto proprio alla barriera il funerale del brigadiere in riposo. A causa di ciò molti mantelli gli si erano stretti, molti cappelli s’eran curvati. Prevedeva delle spese inevitabili, giacché la vecchia scorta di indumenti funerari gli si stava riducendo in uno stato pietoso. Sperava di scaricare il danno sulla vecchia mercantessa Trjuchina, che era in punto di morte già quasi da un anno. Ma la Trjuchina moriva al Razguljaj, e Prochorov temeva che ai suoi eredi, malgrado la promessa, fosse fatica di mandarlo a chiamare cosí lontano e concludessero l’affare con l’impresario piú vicino.

Queste considerazioni furono interrotte casualmente da tre colpi massonici alla porta. «Chi è?» domandò il becchino. La porta si aperse e un uomo, che dal primo sguardo si poteva riconoscere per un artigiano tedesco, entrò nella stanza e con aria allegra si avvicinò al becchino.

«Perdonate, caro vicino,» diss’egli in quella parlata russa che anche adesso non possiamo sentire senza ridere «perdonatemi d’avervi disturbato… io desideravo di fare al piú presto la vostra conoscenza. Sono calzolaio, il mio nome è Gottlieb Schulz, e abito dal lato della strada opposto a voi, in quella casetta che è di fronte alle vostre finestre. Domani festeggio le mie nozze d’argento, e invito voi e le vostre figliole a venire a pranzare da me all’amichevole.»

La proposta fu benevolmente accolta. Il becchino pregò il calzolaio di sedersi e di prendere una tazza di tè, e, grazie al carattere aperto di Gottlieb Schulz, ben presto si misero a discorrere amichevolmente.

«Come va il commercio di vostra signoria?» domandò Adrian.

«Eh-he-he,» rispose Schulz «un po’ bene, un po’ male. Lamentarmi non posso. Benché, certo, la mia merce non sia come la vostra: un vivo fa a meno delle scarpe, ma un morto senza cassa non vive.»

«Proprio vero,» notò Adrian «però, se un vivo non ha di che comperarsi le scarpe, cammina anche scalzo, se non vi dispiace; invece un morto povero se la prende anche gratis la cassa.»

Cosí la loro conversazione seguitò ancora un po’ di tempo; infine, il calzolaio si alzò e si accomiatò dal becchino, rinnovando il suo invito.

Il giorno dopo, alle dodici precise, il becchino e le sue figlie uscirono dalla porticina della casa da poco comperata e andarono dal vicino. Non descriverò né il caffettano alla russa di Adrian Prochorov, né l’abbigliamento all’europea di Akulina e di Darja, allontanandomi in questo caso dall’uso accolto dagli odierni romanzieri. Tuttavia ritengo non inutile notare che tutt’e due le ragazze s’erano messe un cappellino giallo e delle scarpe rosse, cosa che capitava loro soltanto nelle occasioni solenni.

Lo stretto appartamentino del calzolaio era pieno di ospiti, per la maggior parte artigiani tedeschi, con le loro mogli e i garzoni. Di funzionari russi c’era soltanto una guardia di città, il č**juchonjets Jurko, il quale, malgrado la sua umile carica, aveva saputo conquistarsi la particolare benevolenza del padron di casa. Per un venticinque anni egli aveva servito in quella carica fedelmente e onoratamente, come il postino del Pogorjelskij. L’incendio del 1812, distruggendo la capitale di prima residenza, aveva annientato anche il suo misero casotto. Ma subito dopo la cacciata del nemico al suo posto ne apparve uno nuovo, grigiognolo con delle colonnine bianche dell’ordine dorico, e Jurko cominciò di nuovo ad andare su e giú vicino a esso con l’ascia e addosso una corazza di bigello. Egli conosceva la maggior parte dei tedeschi che abitavano vicino alla porta di Nikita: ad alcuni di loro era capitato perfino di passar la notte da Jurko dalla domenica al lunedí. Adrian fece subito conoscenza con lui, come con una persona di cui presto o tardi poteva capitare d’aver bisogno, e quando gli ospiti si misero a tavola, si sedettero insieme. Il signore e la signora Schulz e la loro figliola, la diciassettenne Lottchen, pranzando tutti insieme con gli ospiti, offrivano loro le vivande e aiutavan la cuoca a servire. La birra scorreva. Jurko mangiava per quattro; Adrian non era da meno di lui; le sue figliole facevan complimenti; la conversazione in tedesco diventava di ora in ora piú rumorosa. A un tratto il padron di casa chiese un po’ d’attenzione e, stappando una bottiglia incatramata, pronunciò ad alta voce in russo: «Alla salute della mia buona Luisa!». Lo spumante cominciò a spumeggiare. Il padron di casa baciò teneramente il volto fresco della sua compagna quarantenne, e gli ospiti bevvero rumorosamente alla salute della buona Luisa. «Alla salute dei miei cari ospiti!» proclamò il padron di casa, stappando una seconda bottiglia: e gli ospiti lo ringraziarono, vuotando di nuovo i calici. A questo punto i brindisi cominciarono a susseguirsi; si bevve alla salute di ogni ospite in particolare, si bevve alla salute di Mosca, e d’un’intera dozzina di cittadine tedesche, si bevve alla salute di tutte le corporazioni in generale e di ciascuna in particolare, si bevve alla salute dei padroni e dei garzoni. Adrian beveva con zelo e diventò cosí allegro, che propose egli stesso un brindisi scherzoso. A un tratto uno degli ospiti, un grasso panettiere, alzò il calice ed esclamò: «Alla salute di quelli per i quali lavoriamo, unserer Kundleute!». La proposta, come del resto tutte, fu accolta con gioia, e all’unanimità. Gli ospiti cominciarono a inchinarsi l’un l’altro, il sarto al calzolaio, il calzolaio al sarto, il panettiere a tutt’e due, tutti al panettiere, e cosí via. Jurko, in mezzo a questi vicendevoli inchini, gridò, rivolgendosi al suo vicino: «Ebbene? bevi, batjuška, alla salute dei tuoi morti!». Tutti scoppiarono a ridere, ma il becchino si considerò offeso e aggrottò le sopracciglia. Nessuno lo notò; gli ospiti seguitarono a bere, e le campane sonavano già a vespro quando s’alzarono da tavola.

Gli ospiti si separarono tardi, e per la maggior parte in cimberli. Il grasso panettiere e un legatore, il cui viso sembrava fosse rilegato in marocchino rosso, condussero Jurko sottobraccio al suo casotto, osservando in questo caso il proverbio russo: il debito vale per la restituzione. Il becchino tornò a casa ubriaco e adirato: «Che cos’è questo, insomma?» egli ragionava ad alta voce. «In che cosa il mio mestiere non è piú onesto degli altri? il becchino è forse fratello del boia? Di che ridono quegli infedeli? il becchino è forse un buffone come quelli delle feste di Natale? Li volevo invitare a festeggiare il mio trasloco, dar loro un banchetto colossale; ma questo non sarà! Invece radunerò quelli per i quali lavoro: i morti ortodossi.»

«Che dici, batjuška?» disse la donna che intanto lo scalzava «che frottole conti? Fatti il segno della croce! Radunare i morti a festeggiare il trasloco! Che spavento!»

«Com’è vero Iddio, li radunerò» prosegui Adrian «e domani stesso. Siate i benvenuti, miei benefattori, per banchettare da me domani sera; vi offrirò quel che Dio m’ha mandato.» Con questa parola il becchino andò a letto e ben presto cominciò a russare.

Fuori era ancora buio, quando svegliarono Adrian. La mercantessa Trjuchina era morta in quella stessa notte e un messo del suo amministratore era corso a cavallo da Adrian con questa notizia. Il becchino gli aveva dato un palancone di mancia per questo, s’era vestito in fretta, aveva preso una vettura ed era andato al Razguljaj. Vicino al portone della defunta stava già la polizia e andavano su e giú i mercanti, come corvi, all’odore del corpo morto. La defunta giaceva su una tavola, gialla come la cera, ma non ancora sfigurata dalla decomposizione. Accanto a lei si pigiavano i parenti, i vicini e le persone di casa. Tutte le finestre erano aperte; i ceri ardevano, i preti recitavano le preghiere. Adrian si avvicinò al nipote della Trjuchina, un giovane mercante con un soprabito alla moda, annunciandogli che la cassa, i ceri, la coltre e gli altri oggetti funerari gli sarebbero stati dati in ottime condizioni. L’erede lo ringraziò distrattamente, dicendo che sul prezzo non mercanteggiava, ma si affidava in tutto alla sua coscienza. Il becchino, secondo il suo costume, giurò che non avrebbe chiesto piú del giusto, scambiò uno sguardo significativo con l’amministratore e andò a compier le pratiche. Scarrozzò tutto il giorno dal Razguljaj alla porta di Nikita e indietro; verso sera aveva messo tutto in ordine e andò a casa a piedi, licenziata la sua vettura. Era una notte di luna. Il becchino giunse felicemente fino alla porta di Nikita. All’Ascensione lo fermò il nostro amico Jurko e, riconosciuto il becchino, gli augurò la buona notte. Era tardi. Il becchino s’avvicinava già alla sua casa, quando a un tratto gli sembrò che qualcuno si fosse accostato al suo ingresso, avesse aperto la porticina e vi fosse scomparso. “Che cosa può significare?” pensò Adrian “chi è che ha ancora bisogno di me? Non è per caso un ladro che si è introdotto in casa mia? Ci sono forse degli amanti che vanno dalle mie sciocchine? Non voglia il Cielo!” E il becchino pensava già a chiamare in aiuto l’amico Jurko. In quel momento qualcun altro si avvicinò alla porticina e stava per entrare, ma, vedendo il padron di casa che correva, si fermò e si tolse il tricorno. Il suo volto apparve noto ad Adrian, ma nella furia egli non fece in tempo a esaminarlo per bene. «M’avete favorito di una visita» disse ansando Adrian «entrate dunque, fatemi la grazia.» «Non far complimenti, batjuška,» rispose quello sordamente «vai avanti; mostra la strada agli ospiti!» Adrian non aveva neppure il tempo di far complimenti. La porticina era aperta, egli andò sulla scala, e quello dietro a lui. Ad Adrian sembrò che per le sue stanze camminasse della gente. “Che diavoleria!” pensò e aveva fretta d’entrare… A questo punto gli mancaron le gambe. La stanza era piena di morti. Attraverso le finestre la luna illuminava i loro visi gialli e turchini, le bocche rientrate, gli occhi torbidi, semichiusi, e i nasi sporgenti… Adrian riconobbe in loro con orrore le persone seppellite per le sue cure e, nell’ospite entrato insieme con lui, il brigadiere portato a seppellire durante quella pioggia dirotta. Essi tutti, signore e uomini, circondarono il becchino con inchini e saluti, tranne un poveretto, sepolto gratis da poco, il quale, conscio e vergognoso dei propri stracci, non si avvicinava e se ne stava quieto in un angolo. Tutti gli altri eran vestiti come loro si addiceva: le defunte con cuffie e nastri, i morti funzionari in uniforme, ma con le barbe non rasate, i mercanti coi caffettani della festa. «Vedi, Prochorov» disse il brigadiere in nome di tutta l’onesta compagnia «tutti noi ci siamo levati al tuo invito; sono rimasti a casa soltanto quelli che non hanno piú forza, che sono affatto distrutti, e quelli a cui son rimaste le sole ossa senza la pelle; ma anche di questi uno non s’è frenato, tanto desiderava di venire da te…» In quel momento un piccolo scheletro si fece largo fra la folla e si avvicinò ad Adrian. Il suo teschio sorrideva benevolmente al becchino. Dei brandelli di panno verde chiaro e rosso e di vecchia tela gli pendevano addosso, come sopra una pertica, e le ossa delle gambe si dibattevano in grandi stivaloni allo scudiere, come pestelli in un mortaio. «Non m’hai riconosciuto» disse lo scheletro; «ti ricordi del sergente della guardia a riposo Pjotr Petrovič Kurilkin, quello stesso al quale nel 1799 vendesti la tua prima cassa da morto, e per di piú una di pino per una di quercia?» Con queste parole il morto gli aperse le sue ossee braccia; ma Adrian, raccolte le proprie forze, dette un grido e lo spinse lontano da sé. Pjotr Petrovič vacillò, cadde e si sgretolò tutto. Fra i morti si levò un mormorio d’indignazione; tutti presero le difese dell’onore del loro compagno, incalzarono Adrian con ingiurie e minacce, e il povero padron di casa, assordato dal loro gridío e quasi schiacciato, cadde egli stesso sulle ossa del sergente della guardia a riposo e perdette i sensi.

Il sole illuminava già da lungo tempo il letto sul quale giaceva il becchino. Finalmente, egli aprí gli occhi e vide dinanzi a sé la donna che accendeva il samovar. Con orrore Adrian rammentò tutti gli avvenimenti del giorno prima. La Trjuchina, il brigadiere e il sergente Kurilkin si presentarono confusamente alla sua immaginazione. Egli aspettava in silenzio che la donna cominciasse a discorrere con lui e gli annunciasse le conseguenze delle avventure notturne.

«Come hai dormito a lungo, batjuška Adrian Prochorovic!» disse Aksinja, porgendogli la veste da camera. «È passato da te quel vicino sarto, e il panettiere di qui è venuto di corsa ad annunciare che oggi è l’onomastico del commissario di polizia della sezione, ma tu credevi bene di dormire, e noi non volevamo svegliarti.»

«E son venuti da me dalla casa della defunta Trjuchina?»

«Defunta? Ma è forse morta?»

«Che sciocca! Ma non sei tu che ieri mi aiutavi a combinare i suoi funerali?»

«Che dici, batjuška, non sei uscito di cervello, o l’ubriacatura di ieri non t’è ancora passata? Che funerali ci sono stati ieri? Hai banchettato tutto il giorno da quel tedesco, sei ritornato ubriaco, ti sei buttato sul letto, e hai dormito finora, che le campane hanno già sonato la messa.»

«Davvero!» disse il becchino rallegrato.

«Certo che è cosí» rispose la donna.

«Su, se è cosí, da’ presto il tè, e chiama le figliole.»

1830.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il becchino
AUTORE: Aleksandr Puskin

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Romanzi e racconti / Aleksandr Puskin ; prefazione di Angelo Maria Ripellino ; traduzioni dall'originale russo di Leone Ginzburg \et al...!. - Milano : A. Mondadori, 1963. - 673 p. ; 19 cm. - (Biblioteca moderna Mondadori ; 774-777).

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)