Il vampiro

di
Guido Cremonese

tempo di lettura: 21 minuti


Quando una passione attecchisce improvvisamente in un essere debole e malato, è capace di divampare in indomabile incendio.

I forti fisicamente sono, per lo più, i sani di mente, padroni di sè, capaci di dominarsi prima di cedere alla passione, e di vincersi dopo averle ceduto.

I deboli, invece, amano da deboli: quando la fiamma vince la resistenza della fibra, divora tutto e domina vincitrice e signora.

Tale fu il caso di Fausto Salvioli.

Orfano fin dalla più tenera età, egli era stato allevato da un tutore severo, ma – rara avis – onesto, che gli aveva serbato, accresciuto con arte di amministratore, il cospicuo patrimonio paterno, e che, sentendosi presso a morire e vedendo il suo pupillo ormai maggiorenne, capace di dirigersi senza soccorso estraneo nei pericolosi meandri della vita moderna, gli aveva fatto, press’a poco, questo discorso:

— Tu sei padrone di un’immensa fortuna: e questo è un fatto provvidenziale, perchè, data la tua scarsa salute, ti risparmia delle fatiche che non potresti sopportare. Tu corri due pericoli: quello di essere sfruttato pel tuo denaro, e quello di essere ucciso dal tuo denaro.

Ucciso, perchè il denaro è una chiave che apre tutte le porte: e non v’è soddisfazione viziosa che un uomo forte e depravato non possa concedersi mediante il denaro. Tutti i Don Giovanni, tutti i Rocambole, coi loro mezzi personali d’eccezione, diventano dei poveri di spirito davanti a chi ha la ricchezza e sa servirsene.

Questo è bene che tu sappia appunto perchè non ti venga mai la tentazione di servirtene.

Il patrimonio, le rendite, dovranno accumularsi durante la tua esistenza: e l’unico tuo vantaggio, nel possederli, sarà quello di essere al riparo dalla miseria e in grado di mantenerti bene e di curarti.

I tuoi genitori sono morti tisici entrambi. Io spero che tu potrai sfuggire al male divoratore; ma potrai riuscirvi a due condizioni: non prender moglie e non aver vizi.

Quanto ai vizi, ti credo troppo assennato perchè tu possa cadervi: quanto alla moglie, ricordati che un uomo debole non ha diritto di sacrificare una donna sana al proprio capezzale, e tanto meno di mettere al mondo dei figli anticipatamente condannati ad una dolorosa fine.

Le parole del vecchio tutore avevano fatto una grande impressione a Fausto, il quale, per molti anni dopo la sua morte, si attenne scrupolosamente ai saggi consigli.

Se non fosse stato ammalato e la sua malattia non gli fosse stata impressa sul volto come una maschera mortale, sarebbe stato un bel giovane. Alto, l’abito inestetico del moderno borghese nascondeva l’estrema e patologica magrezza del suo corpo. Il volto pallido, incorniciato di nero corvino; l’occhio fulgido, il naso romano, gli davano una distinta fisionomia completata dall’eleganza delle movenze.

Pure, con queste belle qualità fisiche, non piaceva.

In lui si sentiva il debole, lo sfibrato: la voce velata, il respiro corto, esprimevano fisicamente quella fiacchezza morale che appariva in ogni sua parola, in ogni suo gesto.

Irresoluto, timido, non aveva altra volontà che quella del tutore, la cui memoria, come ombra protettrice, aleggiava ancora intorno a lui e suppliva al suo carattere.

Per alcuni anni non ebbe che una mania: farsi visitare dai medici e far delle cure.

Ma con l’andar del tempo si persuase che il periodo pericoloso della sua vita era trascorso: credette di potere star tranquillo; e vivacchiando inutile a sè ed agli altri, giunse ai trentacinque anni: l’età pericolosa materialmente e moralmente: l’età delle grandi risoluzioni.

Conobbe Alba De Nigris per caso.

Per curar la propria salute non mancava di passare, ogni anno, un mesetto in riva al mare.

Per una debolezza prudente dello spirito, egli evitava le spiagge celebri ed i luoghi di grande lusso, sapendo che le troppe distrazioni e le facili conoscenze trascinano e travolgono: ed il vizio, che spia l’anima umana ad ogni svolto delle vie della vita, poteva più facilmente ghermirlo a Baden o al Lido – ove i modi di soddisfare le passioni, e ove i tentatori e le tentatrici non mancano – più facilmente che a Cattolica o a Fano, dove i bagnanti vivono in famiglia, nel modesto godimento del sole e del mare.

Ma Alba De Nigris non era ricca: e una donna amante del mare e non ricca deve contentarsi di Fano o di Cattolica: perchè Baden o il Lido sono sogni irrealizzabili per lei.

Chi era Alba De Nigris? Una bellissima, meravigliosa creatura, alta, piena, dal colorito di creola, dagli occhi anche troppo eloquenti, dalla capigliatura bruna a riflessi di rame. Una donna pericolosa, ardente, piena di spirito e di vita, che, dopo aver sognato un principe e aver disdegnato la mediocrità, giunta presso la trentina, guardava la vita come un mare senza confini, e non cercava altra salvezza dal naufragio della gioventù, che un rottame qualunque cui aggrapparsi, per poi tentare – potendo – una nuova vita ed una nuova fortuna.

Lo stato di zitella le pesava: rendeva il suo carattere irritabile e dava alla sua frase ed alla sua voce quel nervosismo di tensione che indica le persone impazienti, annoiate di tutto e di tutti, sdegnanti tutto e tutti nella loro divina superiorità.

Aveva, è vero, un cugino che da anni le faceva la corte. Ma era Enrico l’uomo adatto a lei?

Si assomigliavano troppo: erano due avventurieri, i quali nella vita non aspettano che l’occasione di far fortuna; e nessuno dei due poteva far la fortuna dell’altro.

Enrico non era che un ufficiale di cavalleria, sempre indebitato e sempre in cerca di un patrimonio che risolvesse in una sola volta i molti problemi della sua vita.

Malgrado quest’impossibilità di allearsi una volta per sempre, quei due si intendevano.

Da molti anni facevano l’amore in un modo strano: come due esseri divisi dalla fortuna, ma che sentono di essere della medesima tempra, degni l’uno dell’altro, animati dagli stessi ardimenti e dalle stesse speranze.

Esisteva un formale fidanzamento? No: erano un po’ l’uno il tiranno dell’altro. Chi, dei due, avesse per primo spiegato il volo verso il proprio destino, avrebbe incontrato le ire ed i vituperî dell’altro: ma tutti e due, senza confessarselo, legandosi sempre più con delle tenerezze e delle libertà amorose che la parentela non poteva giustificare, sentivano in fondo all’animo che, ognuno per proprio conto, presentandosi l’occasione, avrebbe spezzato la tenue ma lunga catena di piaceri e di depravazione che li univa, ed avrebbe pensato ai propri interessi.

Fu così che Alba divenne una donna nervosa, conscia della vita e dell’arte di amare in tutto ciò che essa ha di più raffinato e meno pericoloso per una vergine; fu così che divenne una donna temibile per un incauto.

La fama delle ricchezze di Fausto si sparse per lo stabilimento balneare di Fano con una rapidità prodigiosa.

Quelle povere ragazze prive di dote, aspiranti da anni a quel caso ormai raro che si chiama matrimonio, lo trovarono prima bello e distinto; poi amabile; in fine, irresistibile addirittura.

I pretesti per avvicinarlo furono subito trovati.

Le signorine Negretti erano famose per avvolgere un corteggiatore nelle spire della loro arte: ed ogni anno – ed ormai erano molti – i cicisbei, legati al loro civettuolo carro coi nastri rosei della frivolezza mondana, non si contavano più.

Vi fu una gara di gentilezze, di inviti, di sorrisi languidi, di sospiri: la maggior parte degli spasimanti abituali furono ecclissati dal nuovo astro sorto all’orizzonte: e, complice la moda, non mancarono le tentatrici che, sedendo di fronte a lui nelle pose di abbandono estivo, gli offersero allo sguardo delle magre o pingui grazie femminee, nell’atto di una gamba troppo accavallata sul ginocchio in posa da lasciar vedere la compagna, o nella scollatura della veste e nella eccessiva trasparenza delle maniche.

Ma durante tutto questo armeggio Alba si tenne in disparte, quasi sdegnosa di misurarsi con costoro, sicura che, entrando in lizza, avrebbe sgominato tutto lo stuolo avversario con un sol gesto.

Fausto notò questo fatto: ed osservò pure due effimere apparizioni del cugino, il quale pareva non mirasse ad altro – con la sua condotta – che a compromettere Alba agli occhi di tutti. E Alba si lasciava compromettere con l’indifferenza del forte che si sente superiore al mondo ed alla sua morale.

In un pick-nick (una di quelle pericolose invenzioni fatte dalle donne per accalappiare gli uomini) le signorine Negretti aprirono il fuoco di combattimento.

Erano una ventina di persone: il campo di…. battaglia era stato scelto in una villa a pochi chilometri dalla città: ed il piccolo esercito aveva raggiunto la mèta in tre squadre. Avanti camminavano le signorine più giovani – quelle che non osavano pensare a Fausto e che, più praticamente, si divertivano con alcuni scavezzacolli della loro età –; poi veniva Fausto con una coorte di signorine, fra cui Rita Negretti, Sofia Livi, Giulia Banti; in fine, la retroguardia formata dalle madri e dai bambini.

Durante l’andata non si pensò che a cicalare, a far la corte a Fausto, a ridere: quelle giovani non erano gelose l’una dell’altra o, per lo meno, sentivano istintivamente così forte la superiorità di un’assente, che pel momento dimenticavano di guerreggiar fra loro, alleate tacitamente contro il comune nemico.

Durante la merenda regnò molta confusione e non si fece un discorso sensato; ma al ritorno, specialmente in vista del nessun effetto che producevano in Fausto tante grazie riunite, Rita Negretti diede il segnale dell’assalto contro il nemico occulto.

— Abbiamo passato un bel pomeriggio, signor Salvioli.

— Certo.

— Non sarebbe stato così, se avessimo dovuto goderci il broncio della signorina De Nigris.

— Crede?

— Crede forse il contrario? – chiese con un po’ di stizza la signorina Livi.

— Io… non credo nulla.

— Vada là: le pose di quell’artista drammatica le fanno effetto. Lei le prende sul serio.

— Io? Ma no. Penso che voi donne, più o meno, siete tutte un po’ artiste.

Vi fu un coro di proteste: si fecero dei nomi; ma poi si tornò all’arrembaggio.

— Succede sempre così – mormorò la Banti –. La donna meno degna è quella che piace di più. Ne sono una prova le cantanti di caffè concerto che hanno migliaia di adoratori.

— Degni di loro, signorina.

— Non sempre. Ogni tanto qualche giovane di buona famiglia si uccide per una di quelle donne.

— Si uccide: non la sposa. Badi che son due cose diverse. Si tratta di giovani inesperti ed insensati che….

— Oh, sì. E lei crede che resisterebbe a lungo alle arti magiche della De Nigris?

— Io non credo nulla: è un problema che non mi riguarda.

— Non le manca nulla per piacere: nemmeno il cugino di parentela discutibile…. che ha tutta l’aria di essere ben altra cosa che un cugino. Quello serve da stimolante.

Fausto parve un po’ seccato dalla piega che prendeva il discorso.

— Non facciamo troppe maldicenze. Son cose che non ci interessano e che potrebbero sapersi…

— Ecco che la difende!

— Si sbaglia, signorina Banti: io non difendo e non attacco nessuno, perchè nessuno ha bisogno di me nè mi fa ombra: solo, non vorrei che andassimo troppo oltre nel parlar di un’assente che, fra l’altro, io non conosco affatto, non avendole mai rivolta la parola.

— Oh, ma troverà la bella Alba il modo di rivolgergliela, stia sicuro!

Fausto cambiò discorso: ma evidentemente il nuovo argomento non aveva interesse per le signorine, perchè la conversazione languì e Fausto sentì che una specie di vuoto si era fatto nella corona di simpatie che lo aveva cinto fin allora. Perchè?

Non sapeva spiegarselo: egli considerava ingenuamente quelle giovani come innocue compagne di villeggiatura, camerate pronte a dividere con lui qualche innocente divertimento e nulla più.

Niente, nella sua condotta, giustificava questa gelosia irritante e stupida che egli non aveva in alcun modo autorizzata: ed Alba De Nigris era un’estranea per lui.

Ma il giorno venne in cui Alba – vedendo l’indifferenza di Fausto, che si lasciava cullare da tutte quelle adulazioni, nelle quali egli non iscorgeva alcun pericolo – fece un primo passo.

Seduta vicino a lui sulla rotonda dello stabilimento, lasciò cadere un ventaglio e non si curò di raccoglierlo: e quando Fausto glielo porse, ringraziò con dura freddezza.

Andandosene, fece un saluto forzato; il giorno dopo si degnò di inchinarsi… e dopo due o tre giorni, rammollitasi, scese fino a rivolgergli la parola sul bel tempo e sul mare.

— Questa parte dell’Adriatico è deliziosa.

— Sì: questo tratto di costa, col profilo di Pesaro e del suo monte che le fanno da cornice, non ha nulla da invidiare alle più belle spiagge del mondo.

— Io non so perchè tanta gente vada a gettare i denari a Baden o a Biarritz… quando ci sono tante bellezze così vicino.

— È la stessa ragione per cui molti uomini vanno a prender moglie lontano da casa, alleandosi spesso assai male, mentre hanno delle belle virtù a portata di mano.

— Ha ragione, signore. Purtroppo, è il cattivo gusto, l’andazzo della moda, ciò che predomina. Ed è una fortuna per noi buongustai e benpensanti: chè altrimenti le nostre belle spiagge tranquille sarebbero invase da un mondo eteroclito ed equivoco, scandaloso, spendereccio, corrotto. Lei è romano?

— Sì.

— Beato lei!

— Perchè?

— Perchè… l’inverno a Roma dev’essere delizioso quanto qui l’estate. È tanto triste l’andare a seppellirsi a Perugia, come dobbiamo far noi.

— Perugia? È una bella città.

— Ma priva di vita, monotona… mentre Roma…

— La conosce?

— Ci sono stata varie volte. È per me come un sogno irrealizzabile.

— Nulla è irrealizzabile: specialmente, poi, una cosa tanto semplice.

Le Negretti guardavano i due: cercavano di non perdere una parola del loro dialogo; ma erano… di un altro partito, e per nulla al mondo avrebbero consentito ad entrare in discorso con una donna che non esitavano a chiamare equivoca.

Tutta la loro tattica era lì: e, quantunque vicine a Fausto, non gli rivolgevano la parola affinchè comprendesse certe differenze.

E la De Nigris sentiva il peso di questo trattamento: e, pur non degnandosi di curarsene, non prolungò il dialogo quanto avrebbe voluto.

Appena le si offrì un pretesto, prese il lavoro e se ne andò dalla rotonda, lasciando il campo alle avversarie.

— Ci è riuscita! – mormorò concitatamente la Banti alla maggiore delle Negretti.

E questa, ad alta voce:

— Il signor Salvioli è soddisfatto?

— Di che?

— La sfinge ha parlato.

— Fortunatamente non mi ha dato indovinelli da risolvere.

— Non è difficile… indovinare certe persone.

Anche una volta Fausto dovette destreggiarsi per non cadere nell’ingranaggio dei pettegolezzi: ed appena gli fu possibile, se ne andò a casa, seccato di tutto e di tutti.

Che male aveva fatto perchè gli amareggiassero quelle giornate di sole e di mare, cui non chiedeva che salute? Era caduto in un ginepraio dei più fastidiosi: e, ripensando alle piccole schermaglie di poco prima, non comprendeva il perchè di tanto accanimento contro una persona che, fin ora, era stata riservatissima con lui e con tutti.

Non aveva cercato alcuna nuova relazione: tanto meno questa che il suo istinto gli diceva pericolosa.

Solo la cortesia innata lo aveva costretto a sottomettersi alla capricciosa civetteria di Alba: ed egli non s’accorse che, una volta sottomesso – anche per una innocente conversazione – era preso.

Non parliamo della madre di Alba, perchè, quantunque fosse una complice pericolosa, la signora Maria non era che uno strumento nelle mani della figlia.

Fausto non era avvezzo alle schermaglie di una civetta consumata. I capricci più strani, le scortesie inattese ed ingiuste, le confidenze molli ed appassionate che come un brusco risveglio troncava rudemente, erano un’arte troppo pericolosa per chi, fin allora, aveva vissuto fra persone equilibrate, col solo pensiero della propria salute.

Dopo dieci giorni la ciera di tisico bemportante era scomparsa; alla sua arrendevole cortesia era subentrato un nervosismo irrequieto; la mente non formulava che un pensiero: fuggire.

E si provò: e la bella lo lasciò fuggire sapendo che sarebbe ritornato… Era un vecchio giuoco sicuro, per lei.

Quel mese di bagni fu un’agonia lenta e straziante. Il cugino, con le sue violenze, con le sue apparizioni improvvise, era un eccitante per quel povero carattere che ormai amava e temeva di vedersi sfuggire l’oggetto amato: la stagione declinante gli annunziava una prossima separazione, con la fine delle assiduità, delle libertà che si godono ai bagni; la severità sprezzante di Alba gli faceva temere un rifiuto se avesse osato chiedere… ciò che ormai non osava neppur pensare senza sentirsi venir meno.

Con uno spasimo sempre più profondo sentiva intervenire Enrico, la cui presenza era per lui come un’ombra sinistra.

E fra Enrico ed Alba vi fu, una sera, al ritorno dalla spiaggia, una spiegazione vivace e non certo elegante.

— Chi è costui che ti va ronzando intorno come un moscone?

— Chi è? – rispose lei, un po’ sottomessa in principio al suo dominatore – È un riccone che…

— Poche parole: da domani non vi parlerete più.

— E perchè? Che cosa significa questo tono di comando?

— Significa che voglio così.

— Credi tu che io debba morir zitella, povera, per farti piacere?

— Morresti vedova, ad ogni modo. Quello è un uomo che camperà poco.

— Ma se è quello che voglio! – rispose Alba con un’espressione trionfante nel volto conquistatore –. Credi tu che non abbia fatto i miei calcoli? Un anno…. e sarò vedova e ricca. L’altro parve scosso dall’argomento.

— Sicchè… non l’ami?

— Alla mia età… non ci si innamora: si porta in cuore una fiamma del passato…. o nulla.

— E se io non volessi?

— Con quale diritto?

Egli le si avvicinò di più e le parlò all’orecchio, ma non abbastanza basso che la vecchia non udisse. E dovette dire delle cose volgari ed offensive, perchè Alba, in un improvviso smarrimento, lo colpì con l’ombrellino e gli gridò in faccia:

— Vigliacco!

E lo lasciò lì mezzo stordito; e fuggì, quasi, seguita dalla madre.

Il giorno dopo Fausto camminava pensieroso lungo la spiaggia dal lato di Pesaro.

Si era allontanato dal rumore dello stabilimento balneare, desideroso di pace e di solitudine.

Perchè?

Avveniva qualcosa di nuovo in lui: qualcosa di non sospettato e sconosciuto. L’anima sua era troppo turbata perchè egli potesse sinceramente scrutarsi; ma la sua fuga di pochi giorni prima, il suo ritorno, il tumulto del suo sangue e l’assenza di ogni coraggio di fronte a quella donna, che oramai lo dominava, gli dicevano chiaramente che l’ora fatale della vita era giunta, e che bisognava risolversi a seguire i consigli del tutore o a fare un passo decisivo nel senso opposto. Come si fosse diffusa, egli non sapeva; ma la notizia che Alba, fra pochi giorni, sarebbe tornata a Perugia, era sulla bocca di tutti, a sollievo delle signorine Negretti.

Sentiva la necessità di parlare: sperava quasi in un rifiuto, poichè il suo istinto, più forte che l’amore, gli poneva davanti agli occhi lo spettro del pericolo celato in quelle belle forme. Ma, rifiutato o no, era necessario che sapesse…

Più volte, negli ultimi giorni, aveva preso tale risoluzione; ma al momento di parlare gli mancava il coraggio.

Che gli importava di ciò che dicevano le pettegole? Egli amava!

Che gli importava di un cugino spiantato, se Alba avesse consentito ad esser sua? I pettegolezzi non erano – ormai lo vedeva – che invidia e gelosia.

Ed Alba, che, non meno di lui, spiava l’ora decisiva, si trovò, per caso, sulla stessa spiaggia, dietro a lui, in modo che, quando egli tornava, si incontrarono.

— Il signor Salvioli! Oramai è una fortuna l’incontrarsi con lei! Non lo si vede che di sfuggita!

— Ho avuto ad occuparmi di alcuni affari…

— Benedetti uomini! Sempre affari! Sa che stiamo per lasciar Fano?

— Lo so.

— Ha comandi per Perugia?

— Grazie.

— Verrà a farmi visita?

Fausto, che rispondeva a monosillabi, perchè la risoluzione di confessare il suo amore si trasformava ora in paura dell’imminente, trovò un sollievo in quell’invito dilatorio: quella speranza di attesa gli parve il mezzo di salvezza.

— Sì… volentieri. Mi piace tanto, Perugia! E ci vado spesso.

Trovava così il modo di giustificare la viltà presente e i tentativi avvenire.

— Non ricordo di averlo veduto.

— Lo credo: un forestiero…

— Sono quelli che si notano di più. Sarò veramente contenta di vederlo.

— Davvero?

— Non mi crede? Sono meno chiacchierona di quelle pettegoline dello stabilimento: ma sono più affezionata, io.

— E… si è affezionata a me?

— Lo credo! Chi non si affezionerebbe a lei, così buono, così leale, così cortese?

— Sicchè… è mia amica?

— Amica… è una parola troppo elastica.

Preso da improvviso impeto, le afferrò la mano e le gridò:

— Dica… dica la parola esatta!…

Alba abbassò gli occhi: ma non ebbe tempo di osservare la ghiaia che cuopriva il lido, perchè davanti a lei, ginocchioni, Fausto le baciava furiosamente le mani.

— Alba… mi amate?

— Sì…

L’arte suprema aveva raggiunto lo scopo: e quel povero malato, illuso di aver fatta la conquista di un cuore e di aver vinta una grande battaglia, se ne tornò in città, a fianco di lei, raggiante nel volto, misurando la strada con lo sguardo, quasi fosse troppo stretta per lui; dicendo con gli occhi, a tutti, la sua nuova felicità.

In fondo, egli aveva supplicato una dichiarazione che la donna, abilissima, si era fatta strappare: la rapidità degli eventi lo aveva deciso a un atto disperato per un essere così debole. Senza la forza delle cose, egli non avrebbe mai osato… ciò che era troppo facile!

Di che cosa vivevano le due donne?

Con un senso di stupore pauroso Fausto non lo seppe che il giorno dopo le nozze.

Con una esigua pensione vedovile riuscivano a tirare innanzi, fra gli infiniti stenti nascosti, facendo anche una discreta figura.

Quella leonessa indomita, quella regina di bellezza aveva un diadema di oro falso: e, se la sua beltà era reale, il suo animo era, non meno che il suo fascino, un monile di princisbecco.

Fausto Salvioli fu truffato: ma nessuno fu mai così bene ipnotizzato; nessuno si credette mai così amato o si sentì così felice.

Quell’uomo, che fino allora aveva serbate le proprie forze fisiche e morali per timore della morte, superata ormai la paura, vinto dal doppio fascino della bellezza e dell’amore, esplose in un abbandono di passione, che sarebbe stato pericoloso, mortale forse, in un uomo forte e temprato alle lotte amorose.

Non fu, quella, luna di miele; fu, da un lato, un’arte sovrana, consumante, ammaliatrice, dominatrice di tutti i sensi fino allo spasimo, fino al deliquio; fu, dall’altro, un abbandono sempre più molle, sempre più languido, ad una corrente mortale.

Fausto non aveva ritegni: amava; sentiva sfuggirsi la vita; voleva morir godendo.

— Amor mio – le diceva nei momenti di oblioso abbandono – tu sei stata il raggio di sole della mia vita: tu sei l’alba!

— E tu, Fausto! Tu mi hai rivelate le dolcezze infinite dell’amore.

— Bella! Vivere senza amare non è vivere. Talvolta ho paura che tanta felicità non possa durare…

— Caccia via i cattivi pensieri. Io credo che, prima di tutto, si vive di volontà e per volontà.

— Ma tu sai che io non sono molto forte. In famiglia…

Lei gli chiudeva la bocca con un gesto civettuolo della mano.

— Zitto là! Non parliamo di queste cose. Io non credo a certe eredità. Di eredità vere e sicure ce n’è una sola specie: quella di denaro. Quanto alle altre… Del resto, io sono persuasa che i pensieri tristi indeboliscano il fisico. Eppoi, a che crucciarsi senza ragione? In tutto c’è un destino: e il tuo destino è quello di amarmi.

E ricominciavano le carezze; ricominciava l’abbandono, l’oblio; e quell’organismo già debole si disfaceva come neve al sole dell’arte di quella maliarda omicida.

Ma venne il giorno del risveglio.

Uno sbocco di sangue lo tenne semispento sulla poltrona ov’era seduto avendo Alba inginocchiata davanti a sè: e lo sguardo della donna, che si rizzò con un nervoso scatto, non fu sguardo di spavento, ma fulmine trionfante di vendicatrice Erinni.

Pareva l’aquila che si libra a volo sulla imminente preda.

Quando rinvenne, Fausto ebbe un moto di disgusto.

— Basta… basta!…

— Amor mio, non temere… Io ti sono vicina.

Il malato ebbe un pallido sorriso:

— Sei stata la mia Alba; sei, ora, il mio tramonto.

E ricominciò le affannose cure per ricuperar la salute perduta.

Il medico non ebbe bisogno di spender molte parole per fare intendere a Fausto la causa della sua rovina fisica: e, quando Alba si avvide di questo insospettato nemico, era troppo tardi.

Provò, con arte diabolica, a sedurlo, a trarlo dalla sua: ma ormai Fausto si attaccava disperatamente alla vita con l’istinto dell’annegato: e la sola vista di Alba lo esasperava, lo disgustava come la vista e l’odore del vino per un ubbriacone divenuto astemio.

Un sospetto si era fatto strada nel suo animo: poi era divenuto certezza. Vedeva ormai chiaramente che l’amore di Alba non era che un veleno preparato apposta per la sua morte: comprendeva che le sue ricchezze, quelle ricchezze maledette, erano la causa di tutto.

E s’informò: e seppe che Enrico – da lunga pezza ecclissatosi – frequentava nuovamente e di nascosto la casa: e gli parve la sua presenza il volo sinistro dell’avvoltojo sulla carogna. Quante volte, in quelle ore grigie di debolezza fisica e mentale, ripassarono davanti a lui i quadri della felicità vissuta: e quante volte ricacciò quelle immagini con un brivido di spavento e di disgusto!

I primi giorni dopo il sinistro evento, Fausto si rinchiuse in camera e non volle vedere che il medico ed il suo vecchio cameriere.

Alba, temendo di perder la preda, avrebbe voluto penetrare fino a lui: ma paventava, d’altra parte, che il suo giuoco fosse scoperto e la sua infamia chiarita.

Rimase così perplessa per due o tre giorni: ma, non sentendosi chiamare da Fausto nè potendo reggere alla forza del dubbio, bussò al suo uscio.

Il vecchio Carlo venne ad aprire.

— Mi dispiace, signora…, ma non posso farla entrare.

— Chi è? – chiese fiocamente il malato.

— Fausto…, son io, la tua Alba.

Ma il grido penetrante rimase senza eco. Interdetta, Alba esitò un istante: poi trovò conveniente rompere in singhiozzi.

— Fausto, Fausto! Sei cattivo! Fai soffrire la tua sposina, che ti adora e che vorrebbe curarti e starti vicino…

Ma Carlo non si muoveva: e, certo in seguito ad un cenno del malato, le disse un po’ duramente:

— Il suo pianto fa male al padrone. Non vuole veder nessuno: me lo ha detto. È meglio che lo lasci riposare. Quando sarà possibile che gli parli, verrò io stesso a chiamarla.

E, umiliata, Alba dovette ritornarsene nelle sue stanze in preda al dubbio.

Pian piano, per molte cure, Fausto riacquistò un po’ di forze.

Mandò a chiamare segretamente il notajo: e due vecchi servi furono testimoni del loro atto.

Donò la più gran parte delle sue sostanze ad opere di beneficenza, riservandosi il necessario per vivere comodamente per qualche anno.

Ogni qual volta Alba, dal giorno della sciagura, si presentò al suo uscio, fu energicamente respinta: ora che quel maledetto denaro, con cui l’aveva comperata, era passato ad altri, ora sentiva di poterle di nuovo parlare.

— Fausto… che male ti ho fatto?

— Me lo domandi?

— Ti ho fatto del male?… Comprendo: è vero. Ma non l’ho fatto apposta. Ti amo tanto!

— Sei sicura di non averlo fatto apposta?

I suoi occhi, divenuti furbi e maligni, dicevano più che le parole.

— Non hai fiducia in me? Non credi al mio amore? E pensare che t’ho dato il meglio della mia gioventù, tutta la passione di cui una donna forte può esser capace.

— Troppa…

— Fausto… non potrò riacquistar mai la tua fiducia?… il tuo amore?

— Per che farne? Ormai ti sono inutili l’una e l’altro.

— Ormai? Perchè? Ah, capisco! È venuto il notajo! Mi hai diseredato, è vero? Non me ne lamento: io ti ho amato per te stesso.

L’uomo ebbe un lampo di dubbio nell’anima e negli occhi: ed Alba se ne accorse.

— Che m’importa della vita senza di te? Se ti ho dato tutto il mio essere, ho però goduto tutte le dolcezze del tuo amore!

— Troppe!

— Si vive una volta sola, Fausto! Non rimpiangere di aver goduto.

— Rimpiango di non poter vivere abbastanza.

— Vivrai! Perchè farti delle idee lugubri? Non sai che danneggiano la salute? Vivrai, e godremo ancora!

Ed alla trionfante esplosione della voce unì un amplesso che turbò il povero malato in fondo all’ultima fibra.

Dopo due mesi di attenzioni e di cure Fausto parve rinascere: era la primavera che ogni cosa rinnova, ed abbellisce.

Vinse la scaltrezza di Alba?

Fausto ebbe il dubbio di essere realmente amato.

E col tornar delle forze, con lo spirar delle prime tiepide aure, a quel contatto, che lo divorava di desiderio, non seppe resistere, e cadde.

— Fausto! Fausto! Ti amo!

— Alba… mi uccidi!

Quanto durò il sogno?

Non più sangue. L’amore estinse quelle forze già stremate: il cuore cessò di battere: ed una fredda mattina di aprile trovò Alba giacente a fianco ad un cadavere, cogli occhi fissi su di lui, ma con l’anima assorta in un sogno lontano.

Il vampiro aveva succhiata l’ultima goccia!

Quando fu aperto il testamento, si vide che delle immense sostanze di Fausto i nove decimi eran già passati alle opere pie. Il poco rimasto era lasciato ai poveri: solo un terzo di quel residuo, per legge, rimaneva ad Alba. Un nonnulla!

Enrico rise a quella miseria: e le volse le spalle.

Alba, pochi anni dopo, morì tisica nell’indigenza.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Il vampiro
AUTORE: Guido Cremonese

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le novelle dello scettico / Guido Cremonese. - Bari : Humanitas, 1913. - 304 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC019000 FICTION / Letterario