Il pensiero delle differenze (ed. Aracne, 2011), l’ultimo libro di Laura Tussi, racconta una storia. La storia della pace che lungo il cammino della nonviolenza attraversa il passato, il presente e il futuro dell’umanità.
Cominciando con il nostro presente globale, che si era proposto come occasione per mettere in comunicazione i popoli più distanti – geograficamente e culturalmente – ma che si è rivelato esattamente l’opposto, cioè un metodo per aumentare le esportazioni dei Paesi economicamente forti tramite la riduzione di ogni differenza ad un pensiero unico (il capitalismo; la scienza e la tecnica; la democrazia).
Un presente di violenza (alimentata da un individualismo edonistico esasperato oltre il limite dell’insensatezza), di intolleranza (anche all’interno di realtà nazionali e culturali coese, come mostrano nel caso italiano i continui rigurgiti della Lega nord), che si scontra con una realtà di immigrazione e meticciato ormai affermata e stabile, che andrebbe affrontata di petto e con la migliore disposizione d’animo (anche politica) invece che con la tattica dello struzzo. Il futuro delle nazioni è infatti l’interculturalità (non l’omologazione). È un dato di fatto, ancor prima che un’opportunità.
Ma è un futuro cui rischiamo di andare incontro impreparati (quando non riottosi). Non si può affrontare la «questione dell’altro», del diverso, dello straniero, senza la memoria di quando i diversi eravamo noi, stranieri in Germania o negli Stati Uniti, in cerca di lavoro e in fuga dalla mancanza di avvenire. Nessuno lascia la propria casa e la propria famiglia se ha già a portata di mano tutto ciò che gli serve. È chi manca del necessario che parte, spesso a rischio della vita; non dovremmo dimenticarlo. Così come non dovremmo dimenticare – sottolinea Tussi – la lezione della storia, per la quale «tutto sta nell’inizio»: si comincia con le stelle di stoffa attaccate al braccio, e si finisce con le camere a gas.
Diversa è (dev’essere) la strada di chi ama la pace. Di chi la desidera con tutto se stesso. Più dell’aumento del proprio reddito lordo, più del prestigio sociale, più dell’iPod. La pace non è la buona intenzione di qualche anima pia che può permettersi pensieri edificanti al calduccio del suo salotto. La pace è una costruzione incessante e articolata che passa attraverso la scuola, i mezzi di comunicazione di massa, l’azione sociale e individuale, la testimonianza, la rinuncia. E la nonviolenza, «scienza dei conflitti», è un’opera complessa e faticosa, che ha un prezzo altissimo e in ogni caso non si può acquistare. La pace ricorda la perla nel campo della celebre parabola evangelica, nella quale un uomo, trovata una perla preziosa in un campo, andò, vendette tutti i suoi averi e acquistò quel campo. Si può non credere in Dio e nel suo Vangelo; ma non si può non credere all’altro uomo straziato dalla sofferenza, dalla mancanza, dalla disperazione. Chi non crede che la pace sia la cosa più preziosa per l’umanità, chieda ai tanti uomini che ancora oggi, nel III millennio, sono immersi nella tragedia della guerra. Il pensiero delle differenze ci aiuta a ricordare che oggi, nell’epoca della globalizzazione, i problemi di alcuni sono più che mai i problemi di tutti. La pace non può più attendere.