Ai primi anni del ‘900, in un paese di campagna sulle rive dell’Adriatico, si svolgono le vicende di due famiglie, entrambe costituite da padre, madre ed un figlio di pari età. La prima, benestante, abita in una villa con relativo terreno: il padrone è uno studioso con la passione dell’astronomia e spesso perso in fantasticherie che i contadini non comprendono, la madre coltiva le sue piccole innocue manie, il figlio cresce vivace e viziato.
I membri della seconda sono loro contadini e servitori tuttofare, non colti ma dotati di buon senso e di un realistico egoismo; il figlio è la voce narrante. I rapporti sono di benevola sudditanza, secondo la mentalità corrente all’epoca. I ragazzi crescono, ed entrambi si innamorano di una fanciulla ospite della villa, che però finisce col sposare il figlio di un ricco industriale, spezzando il cuore del ragazzo dei padroni.
Scoppia la Grande Guerra, i ragazzi sono richiamati e si trovano assieme al fronte. Il padrone muore per una malattia, e poco dopo il figlio viene ucciso durante un assalto. Alla fine della guerra, i rapporti sociali subiscono un cambiamento radicale: sul clima di crisi e di scontento si innestano le rivendicazioni confuse e assurde di un socialismo ingenuo e improvvisato ma anche violento e pericoloso. La padrona decide di abbandonare la villa, e il contadino, approfittando della sua sprovvedutezza, la rileva ad un prezzo conveniente. Alla sua morte il figlio ne diviene padrone.
L’evoluzione dei fatti mette in risalto la differenza di mentalità e il divario fra le due classi sociali, che inizialmente viene considerato naturale: i piccoli borghesi soddisfatti e sicuri della loro superiorità sentita come privilegio di nascita, i contadini semianalfabeti rassegnati alla loro posizione di sudditanza. La guerra scardina questo sistema: i contadini astuti comprendono rapidamente le possibilità che si offrono e ne approfittano, mentre i padroni non riescono ad adeguarsi e sono i veri perdenti.
Sinossi a cura di Cristina Rosanda
Dall’incipit del libro:
MIO padre era un buon uomo che si chiamava Mingòn. Era il custode della villa e era molto bravo per le patate.
‒ Le patate piú belle, ‒ diceva la padrona, ‒ mettile da parte per me.
‒ Che la dubiti mica, signora padrona.
Noi stavamo in una casetta vicina alla villa, ché ci chiamavano con un fischio. Nella stalla si teneva un vacca mungana per il latte della padrona.
Veniva ogni tanto anche lei nella stalla, su la punta degli stivaletti, e conduceva anche i forestieri a vedere la sua vacca; ma non bisognava chiamarla cosí. Lei diceva:
‒ La mia mucchina. Mi raccomando la mia mucchina!
La concimaia, invece, non la voleva vedere.
‒ Ci dovreste mettere, davanti, delle rose rampichine.
‒ Veda, signora padrona, ‒ le spiegava mio padre ‒ quella broda nera fa venir su le patate e l’erba spagna; la mucchina, come dice lei, mangia le patate e l’erba spagna, e cosí vien fuori il latte! È tutto un giro.
‒ Lo so, lo so, Mingone, ma non parlare di queste brutte cose.
‒ Dove lo consuma poi tutto questo latte! ‒ si domandava mio padre.
Mia madre diceva:
‒ La si lava col latte per mantenere la pelle fresca. Le signore non vogliono mica aver le grinze! Non lo sapete voi?
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