Il dittamo del buon cuore. Fiaba.

di
Forese

tempo di lettura: 8 minuti


C’era una volta un conte che aveva un bellissimo castello. Egli incuteva terrore a tutti. Ognuno gl’invidiava il suo valore in guerra, i suoi feudi e le sue ricchezze, ma nessuno lo amava, neppure la moglie che aveva scelta fra le fanciulle più nobili e belle del regno; quando lo vedeva abbassava gli occhi tremava, e taceva: neppure il bambino che gli era nato; quando lo sentiva accostare alla culla, incominciava a piangere, e si copriva il visino collo mani.

— Che mi serve che tutti obbediscano ai miei ordini quando non posso ottenere che mi amino? — gridava il conte dalla torre più alta del castello. Il vento portava lontano i suoi lamenti, che parevano ruggiti di leone ferito.

Una sera che era lassù da molte ore gridando e lamentandosi un’aquila reale venne a posarsi su un merlo della torre. Il conte trattenne la voce per non spaventarla e involontariamente ammirava con compiacenza la forza degli artigli, la potenza del becco di quella dominatrice dell’aria.

Mentre la guardava, la vide sorridere tristamente:

— Son come te: temuta e non amata — disse l’aquila e volò via.

Il conte andò su tutte lo furie. Quell’aquila aveva il segreto del suo dolore, quell’aquila doveva morire. La mattina dopo salì sulla torre armato di frecce e d’arco e si mise in agguato. Dopo poco vide l’aquila che descriveva larghi circoli attorno alla torre, ma stava sempre fuori del tiro della sua arma. L’aquila gli passò alta sopra alla testa gridando:

— Conte, caro conte, deponi le armi e t’insegnerò il mezzo di farti amare.

Il conte digrignava i denti dalla collera e scoccava frecce all’impazzata.

L’aquila si avvicinava sempre più, ma nessuna freccia le penetrava nella carne, e il conte raddoppiava di furore nel lanciargliele.

L’aquila sogghignando andò a posarsi sul solito merlo.

— Conte, caro conte, deponi le armi e t’insegnerò il mezzo di farti amare.

Il conte si avventò sull’aquila col pugnale, ma la lama invece di penetrare nel collo dell’uccello, scivolò e andò a conficcarsi nella pietra. L’aquila si accoccolò sulla impugnatura d’oro e di lassù seguitava:

— Conte, caro conte, deponi la collera e t’insegnerò il mezzo di farti amare.

Il conte giallo ancora di rabbia si avvicinò all’uccello.

— Nessuno mi vide mai soffrire — mormorò fra i denti.

— Ho raccolto i lamenti di uomini più forti e più potenti di te — disse l’aquila. — Sono la fata della notte e i forti confidano soltanto alle tenebre i loro dolori.

— E che cosa debbo fare per farmi amare? — domandò il conte.

— Bisogna che tu parta per andare alla ricerca del dittamo del buon cuore, e tu ne porti a casa un ramoscello verde.

— E dove fiorisce?

— In molti luoghi, specialmente vicino alla miseria. L’aquila spiccò il volo e sparì.

Il conte rimase lungamente a pensare. Finalmente esclamò:

— È meglio che tenti l’impresa, — e scese nella camera della contessa, la quale era occupata a trapuntare in mezzo alle sue ancelle.

Queste s’inchinarono profondamente dinanzi al conte e uscirono; la contessa non osava alzar gli occhi dal lavoro, e da tanto tremava non poteva infilzar l’ago nella stoffa.

— Parto — le disse il conte — debbo fare un lungo viaggio e vi lascio padrona assoluta, per tutto il tempo della mia assenza di quanto è nel castello; uomini e cose.

Il conte la guardava e s’accorse che l’annunzio del suo viaggio la rallegrava e ne provò dispetto, ma seppe dominarsi. Chiese di vedere il bambino, che strillò come un disperato quando volle baciarlo, e fatto sellare un cavallo, prese armi senza stemma, si vestì di umili panni si calò la visiera sul volto e partì solo.

Traversava una sera una pianura deserta dove non cresceva neppure un cardo, quando una vecchina tutta grinzosa con un fastello di legna in testa gli s’avvicinò dicendogli:

— Signore fatemi la carità; mi pesan tanto queste legna, caricatemele sul vostro cavallo.

Il conte avrebbe risposto per le rime alla vecchia se non avesse in quel momento veduto l’aquila che gli volava al disopra del cimiero.

L’aquila abbassandosi gli disse:

— Conte, mio bel conte la pianta di dittamo del buon cuore, fiorisce specialmente vicino alla miseria.

Il conte si rabbonì; scese da cavallo e caricò sulla sella il fastello delle legna. La vecchina camminava piano, doveva camminar piano anche lui.

Intanto il cielo doventava nero nero e i fulmini facevano parere la pianura un mare di fuoco.

— C’è lontano fino a casa vostra? — domandò il conte alla vecchina.

— Lontano per le mie gambe e non per le vostre — e seguitavano a camminare.

Finalmente fra il bagliore dei fulmini il conte vide una capannuccia piccina piccina. Era stanco anche lui e aveva una fame…

— Eccoci a casa mia — disse la vecchina e alzò il saliscendi dell’uscio.

In cucina c’era il fuoco spento, una sola panca da sedere e una tavola.

La vecchia accese il lume, fece ricovrare il cavallo del conte e gli disse:

— Mettetevi a sedere per riposarvi intanto io accenderò il fuoco. Quel che ci sarà lo divideremo per cena. Ma ci sarà poco. Siamo vassalli del conte e non c’è gente più povera e maltrattata di noi.

Il conte non fiatò: si sentì andar via tutta la fame che aveva.

La vecchina messe in tavola una magra forma di cacio un mezzo pane e una brocca d’acqua, e non cessò un momento dal lagnarsi della durezza del conte e dei suoi sottoposti che toglievano ai poveri anche il sangue a nome del padrone.

Il conte seguitava a stare zitto e buttava giù qualche raro boccone tanto per non parere.

Quando ebbero finito la vecchina accese un lume e condusse il conte nell’unica cameruccia della capanna e accennandogli l’unico letto gli disse:

— Coricatevi siete più stanco di me.

Il conte si coricò, ma gli ci volle un pezzo a addormentarsi, benché cascasse di stanchezza e appena chiuse gli occhi gli parve d’esser trasportato nel suo castello. Tutti erano cambiati: i servi portavano alta la testa e scherzavano lavorando, le ancelle della contessa facevano echeggiare le sale delle loro allegre risate, la contessa passeggiava sulle terrazze tenendosi in collo il suo bambino e rideva come non l’aveva mai veduta ridere.

Il conte si destò e volle partire. Gli pareva di soffocare in quella capanna.

Andò per sellare il suo cavallo; la vecchina era già desta.

— Ditemi buona donna — le domandò mettendole in mano alcune monete d’oro — dove fiorisce la pianta di dittamo del buon cuore?

— Vicino al castello del conte non ci alligna, ma più che salite verso la montagna e più doventa comune. — Il conte la ringraziò, montò a cavallo e si diresse verso la montagna.

Sali sali la foresta doventava più folta e la neve incominciava a cadere.

Nonostante il conte non si sgomentava e spronava il cavallo. Voleva tornar a casa col ramoscello verde e tornarci presto.

A un tratto si trovò ad un crocicchio. Vedeva quattro strade lunghe, interminabili e non sapeva quale prendere: intanto la neve e il vento ghiacciavano il povero conte.

In quel momento sentì uno starnazzar d’ali sopra alla sua testa e scorse l’aquila reale.

— Imbocca la prima strada purchessia. Il dittamo del buon cuore fiorisce per tutto quassù — e l’aquila sparì.

Il conte riprese speranza e spronò il cavallo, ma la neve cadeva sempre più fitta e copriva tutti gli ostacoli della strada. Cavallo e cavaliere caddero in un fosso.

Il conte gemeva e chiedeva aiuto; nessuno lo sentiva. Sarebbe bastato che qualcuno avessegli gettato una corda per salvarlo, ma il tempo passava e si sentiva sempre più intirizzire dal freddo. Oramai era rassegnato a morire senza rivedere i suoi, sbranato forse dai lupi; quando sentì abbaiare un cane e poco dopo lo scorse avvicinarsi alla sponda del fosso insieme con una bambina.

— Non vi sgomentate — gli disse la bambina corro a casa e torno con una fune per tirarvi su. — Il conte riprese animo e dopo un po’ di tempo vedeva ricomparire la coraggiosa bambina, la quale legata solidamente la fune al tronco di un albero la lasciò calare nella fossa. Aiutato dalla fune il conte poté salire insieme col cavallo sulla proda sano e salvo. La bimba gli dette pure una boccettina di liquore per ristorarlo e lo guidò a casa sua, dove fu accolto affettuosamente e albergato dai genitori di lei.

— Vi potremmo dare di più — disse il padre della bambina a cena mettendo in tavola castagne e carne secca, ma il conte ci spolpa. Se sapeste che flagello è un padrone simile per noi. Bisogna soffrire e tacere, ma lui deve essere più infelice di tutti gl’infelici che fa.

Il conte respinse il piatto, disse che era stanco e chiese d’andare a letto.

S’addormentò anche quella notte a stento e in sogno vide la felicità che regnava nel suo castello riflessa in tanti quadri lieti, e vide che nessuno desiderava il suo ritorno.

Si destò, fu preso da un grande scoraggiamento e si mise a piangere. In quel momento sentì battere forte forte alle imposte della finestra. Aprì, e vide l’aquila.

— Cogli un ramoscello del dittamo del buon cuore che cresce qui sulla finestra della bambina, annaffialo di lacrime e portalo a casa tua; vedrai che non seccherà più.

— A casa mia non ci torno.

— Perché avresti fatto il viaggio? — gli domandò l’aquila — dai retta e parti subito.

Il conte colse il ramoscello si vestì e scese giù. Tutti erano già alzati e lavoravano. Il conte sellò il suo cavallo, dette una borsa piena di danari al capoccia, baciò la bambina e ringraziando si allontanò.

Il conte tornando al castello piantò con cura il ramoscello di dittamo si mostrò umano e affabile con i sottoposti, dolce colla moglie, carezzevole col bambino e da quel giorno il dittamo del buon cuore fiorì nel castello, e il conte doventò un signore felice.

Fine.


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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Il dittamo del buon cuore. Fiaba.
AUTORE: Forese
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti