In Arcadia.

di
Adolfo Albertazzi

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Rioronco, su l’Appennino, è lontano quasi trenta miglia da Bologna e dieci dal men grosso paese, Castello. La strada che vi menava una volta era per lungo tratto il greto del fiume Idice, e poi una carraia, stretta fra balzi e rotta spesso da lavine, della quale non avrebbe potuto rendersi comparativa idea neppure chi avesse vista una via di Milano scomposta per prova di un nuovo pavimento. Ma, or è qualche anno, fu condotta dalla costa dell’Idice una strada comunale che passando di lassù doveva contribuire anch’essa ai fatti di questo racconto. E lassù, dal sagrato della chiesa, il luogo è delizioso: aperto davanti e al di sopra di colline o più basse montagne, di cui una ha nome dall’antica Pieve, e chiuso, dietro, da monti più alti, su cui sorgono evidenti i tozzi campanili di San Martino, di San Giorgio e di Cignano. Fra i castagneti appaiono le case bianche; tra balze, fratte e pioppi il rio va a cadere nell’Idice, che ai dì sereni si distende in nitido e obliquo letto per la plaga occidentale, alla pianura.

Di forestieri a Rioronco non capitano che i carabinieri, a quando a quando, o, pur troppo, il cursore del comune. La scuola è distante e fuori della strada nuova. Un giornale vecchio d’un anno, se pervenga a chi sa leggere, è un foglio pieno di meravigliose novità.

Anche, a pochi passi dalla chiesa, un’osteria serve da spaccio d’ogni genere; fin di sigari toscani, i quali, stagionati come sono, mitigherebbero il più fiero nemico della «Regia Privativa.»

Ma oltre questi benefizi, e oltre i bei castagneti che, se non ci si metta la malattia della foglia, producono assai, e le belle vigne, che, se non le guastano malanni delle foglie e del grappolo, producono assai; oltre la terra fertile di formentone e di meliga, il rio Rosso ha per i più poveri qualche pesce e molti gamberi; qualche anguilla e tanti ranocchi!

I ranocchi si prendono la notte con la «facella»; ciò e un pugno di canne le quali, accese, bruciano adagio e alla cui fiamma quelle curiose bestiole si destano, espongono a fior d’acqua e di fra le alighe il capo stupefatto, e restano immote, fisse, incredule ai loro stessi occhi, non si sa bene di che cosa. Forse scambiano quella luce con l’aurora, o credono a qualche scientifica scoperta degli uomini; il fatto sta, che nell’estasi sono raccolti e gettati in un sacco, dove, al ruvido contatto della tela con le loro membra tenerelle, imparano giù prima d’esser fritte che vantaggio ci sia in questo mondo a farsi delle illusioni.

Quanto agli altri animali del rio Rosso – detto Rosso per le sue sabbie bionde, ma senza traccia d’oro – , si prendono trattenendo con una chiusa la corrente e con le pale gettando l’acqua fuori del borrone finchè questo rimanga asciutto. Che piacere allora! Gli uomini afferrano anguille che si appiattano nella melma e pesci che si raccomandano a bocca aperta e muta; e i ragazzi aggrappano i gamberi, e poi godono a vederli arrossare, retrocedendo su le bracie come eroi che tentino uno scampo senza voltarsi indietro.

Di pernici e starne, a dir vero, non abbondano oggigiorno neanche i boschi di Rioronco; tuttavia la cacciagione vi è meno scarsa che in pianura; e d’inverno i ragazzi dissimulano lacci e trappole e in primavera fan posta ai nidi con la poetica speranza d’allevarsi in gabbia o un cardellino, o un fringuello, o un merlo. Il quale di solito – ingozza che t’ingozzo – basisce per il troppo pane biascicato che gli s’impartisce con troppo buon cuore.

Tutti buoni, o quasi, lassù! Non si ricorda a Rioronco un solo omicidio: una baruffa vi è un avvenimento come un furto di pollaio; intorno al quale di casa in casa si discorre per un mese, e del quale non si fa denuncia poichè quasi sempre si sa da tutti in che pentole quelle due o tre galline andarono a finire. Nè i costumi vi sono corrotti come nei paesi dove le mamme fan la guardia alle figliole fidanzate. Notevole soltanto, a questo proposito, è l’innocente manìa per cui dopo sette, o otto, o talvolta nove mesi di matrimonio, i padri cercano nel lunario e propongono alla moglie puerpera i nomi più strambi e difficili, da storpiare barbaramente sul neonato o sulla neonata che vanno a battezzare.

I.

Nella felice terra di Rioronco viveva ancora, pochi anni sono, un patriarca: un alto e forte vecchio dai capelli bianchi, dalla faccia tutta sbarbata, dall’occhio vivo, dal naso aguzzo. Senza far ridere alcuno portava le brache corte, con le calze al ginocchio d’estate e con le ghette d’inverno; e in famiglia poteva contare con la moglie, vecchia meno di lui ma già imbecillita, tre figli, tre nuore, un genero, una quindicina di nipoti, il più grande dei quali, per riparare in qualche modo all’assenza di due cugini soldati, aveva preso moglie anche lui, rendendo bisnonno il vecchio Carlone.

Carlon dei Carli alla Cà scura, la casa de’ suoi avi, governava tranquillamente e assolutamente come quello nella cui volontà e nelle cui tasche trovavano regola ed equilibrio le spese della casa e le rendite della terra coltivata da tutta la famiglia. Egli vigilava ai lavori; parlava poco con i figlioli; era aspro con le donne, complimentoso col curato, loquace con gli amici, terribile con i ragazzi e buono con i bambini che, seduto nella panca sotto il moro, elevava qualche volta a cavallo d’un ginocchio per cantarellare trotta trotta, cavallon, e farli ridere.

Saldo nelle antiche costumanze, fra le altre usava sedere a capo di tavola con gli uomini attorno e in fondo i ragazzi già pervenuti alla prima comunione: i minori mangiavano dopo con le donne. E per la rigida osservanza al vivere antico, e per la sua religione e per l’esperienza dei consigli, il vecchio godeva nella parrocchia d’una supremazia che gli aveva meritata rinomanza pure nei dintorni.

Quand’egli si assentava – ma di rado e solo per la fiera al paese o per qualche grossa vendita in città – la Cà scura si commoveva in un avvenimento quasi di liberazione; e degli uomini, chi scappava all’osteria, chi dall’amorosa; mentre i ragazzi correvano a vuotar borri nel rio Rosso, liticavano e si picchiavano; e le nuore sfogavano le ire e le gelosie per lungo tempo contenute; sicchè il tiranno, che partendo era stato salutato da sospiri di sollievo, tornava non solo temuto come giudice, ma desiderato spesso come salvatore. All’annunzio: – c’è il nonno! c’è il nonno! – la Cà scura cadeva di subito in una quiete conventuale.

Tornava Carlone dalla città tutt’intronato, stanco, con l’oscura e quasi atterrita coscienza della sua prossima morte, perchè in quelle ore laggiù egli si era sentito fuori del suo tempo; e col pensiero avvinto alle cose vedute pativa un fastidio da cui stentava a liberarsi. Se gli affari gli erano andati a modo, si consolava alla vista dei nipotini e borbottava: «Loro, laggiù, hanno il vapore che ha avvelenata l’aria, ed hanno perduto il timor di Dio: dunque stiamo meglio noi altri!» Se poi gli affari gli erano andati male, allora lamentava: – Noi diciamo che si stava meglio una volta; e a Bologna dicono lo stesso: che si stava meglio una volta. Dunque la gente a questo mondo non la trovo mai piana, in nessun sito. – Ma egli era un povero ignorante; e per più giorni faceva il cattivo in casa, quasi temesse d’aver perduta o temesse di perdere l’autorità famigliare.

Ed ecco che a turbarlo in simile modo risparmiandogli la fatica di viaggi alla città, ecco che ad amareggiare gli ultimi giorni del patriarca venne lassù l’ingegner Stoia, erede d’un conte pontificio, ch’era morto a Roma e a Rioronco non si era visto quasi mai. La strada nuova divideva il possesso di Carlone dal possesso dell’erede: alla massiccia Cà scura s’opponeva, nell’estimazione pubblica, il nobile Palazzetto, di recente restaurato; alla supremazia del vecchione minacciava di succedere la supremazia di quel signore patito e guardingo, che i contadini dicevano cattivo come il loglio.

Invano il curato studiavasi a difendere l’intruso che gli si era dato a conoscere per uno dei capi clericali in Bologna; invano ne esagerava i meriti. Carlone protestava: – Oh che ha preso Rioronco per un covo di ladri?

Infatti aveva messo le stanghe all’entrata delle carraie; tese reti metalliche lungo la strada; piantati pali con su la scritta «bandita». E il curato: – La moglie del signor ingegnere veste cinque bambine per la cresima…. Il signor ingegnere ha mandata la panca per la chiesa…. Il signor ingegnere fa questo; la signora fa quest’altro. – Dopo il ristauro della villa, ristauravano anche il piccolo oratorio di Sant’Anna, di fronte alla villa…. – Oh che bravo signore! che brava signora!…

Carlone scoteva la testa: – Chi mal pensa, mal fa; chi non guarda in faccia, non è sincero; non mi fido io di colui!

Nè tardò ad aver ragione. Al principio d’agosto, il cursore del Comune venne alla Cà scura con tanto di carta stampata e scritta, e firmata dal sindaco.

A norma della legge sui lavori pubblici e dell’articolo num. 12 del Regolamento…. etc…, s’intima al signor Carlo Carli il taglio, nel suo predio denominato la Zucca, di tutti i rami di quella quercia che impediscono la viabilità della strada comunale in Ronco… , con minaccia di dar corso immediato agli atti di contravvenzione… . etc….

Parve a Carlone di ricevere un pugno su la testa. Rosso d’ira fe’ portare da bere all’uomo; poi chiese:

— Oh perchè non han mai detto niente prima d’oggi?

— Cosa volete sappia io? – il cursore rispose.

E bevuto ch’ebbe ripetè la sentenza con cui, indifferentemente, si difendeva dalle lagnanze, dalle minacce e dalle proteste:

— Carta canta e villan dorme. Bisogna ubbidire!

Diceva Carlone: – Ma qui su dei carri non ne passano, e la quercia non arriva alle birocce.

— Cosa volete che vi dica io? La quercia farà ombra a qualcuno. – Poscia, con la stima d’ogni servo per chi lo paga, il cursore aggiunse: – Le leggi, caro voi, ci sono per tutti; ma in Comune non se ne ricorderebbero se un qualche furbo di tanto in tanto non ci avesse tornaconto a metterle in memoria al Sindaco e alla Giunta.

— È così! Ho capito…. Vedremo!… – brontolava il vecchio.

Il quale, appena se ne fu andato il messo, chiamò i figlioli e il cane, li mandò a provvedere in fretta un «arrostino», quantunque fosse ancora tempo di caccia vietata, ed egli recò la biada alla sua mula.

A cavallo, discendendo poco dopo, preparava il discorso per convincere che la quercia non faceva danno a nessuno; e sperava evitarsi una prepotenza e un’ingiustizia. Così sospirando brontolando e rammentando che al tempo del Papa le strade passavano tutte in mezzo a quercie folte, che era una delizia, giunse la sera al paese. Naturalmente, in vista dell’arrosto, il segretario promise di interporre la sua autorità perchè l’ordine fosse sospeso; tornasse fiducioso due o tre giorni dopo.

E naturalmente quando Carlone de’ Carli venne per la risposta, apprese che l’arrosto era stato squisito e il sindaco irremovibile.

II.

Dunque il vecchio doveva sfrondare e diramare la bella quercia, che rivedeva uguale nei ricordi della sua puerizia; la maestosa quercia, alla cui ombra ristava il mendicante a mangiare il frusto di pane, riposavano nei caldi meriggi il cacciatore e il viandante, giocavano i ragazzi a guardia delle pecore. Per un pretesto, perchè un intruso lassù non ne aveva una simile, bisognava lacerarla, squarciarla, mutilarla nelle braccia la feconda, la buona quercia che dava tante staia di ghiande ogni anno!

Col dispiacere d’imaginare le membra recise, Carlone pensava le parole di coloro che nel transitare per la strada osserverebbero quello strazio. Direbbero i buoni: – Che peccato! Così bella quercia! – ; e i cattivi: – Ah, ah! gliel’han fatta a Carlone della Ca’ scura! – E in lui era il rancore d’un sopruso patito; il cordoglio come d’un’offesa atroce, d’uno sfregio ignominioso contro non solo a lui ma a tutta la sua famiglia, ai suoi figlioli, ai suoi nipoti, ai suoi pronipoti.

L’albero resistente e poderoso, per cento e cento anni ancora dopo la sua morte attesterebbe, così deturpato ad ogni primavera, l’antica sconfitta del nonno; significherebbe la rassegnazione, di tanto in tanto rinnovata, a una lontana ingiustizia e a una remota provocazione dell’invidia e dell’orgoglio.

Ah come sarebbe stato meglio che l’avesse buttata giù, troncata di colpo, il fulmine!

Sempre in quei tristi giorni che, solo, scampando allo sguardo altrui, andava alla quercia a contemplarla, Carlone si ripeteva: – Meglio il fulmine! meglio una saetta!

E se l’uno o l’altro dei figlioli gli ricordava l’intimazione del sindaco e diceva: – Bisogna rassegnarsi e potarla – il vecchio ergeva il capo quasi minaccioso rispondendo:

— No!

— Andremo incontro a dei guai….

— No!

Ma alla mattina dell’ottavo giorno Carlone disse ai tre figli e al nipote maggiore:

— Prendete le zappe, il piccone e la mannaia. – E quelli compresero che a tagliarla preferiva abbatterla, e tacquero.

Come i ragazzi volevano seguirli, il nonno, che precedeva per il sentiero, si rivolse:

— Via! voi altri!… Non voglio nessuno!

Soli loro cinque andarono. Cominciarono ad aprire la buca, ampia, intorno al pedale che tre uomini non abbracciavano; mentre il vecchio assisteva immobile con le mani in tasca. Apparvero lombrichi; apparvero fra la terra gialliccia le prime barbe, molli e scure, che allo scavar delle vanghe restavano recise con netto taglio, o, tócche, si spelavano bianche come serpi. Finchè serpeggiando si delineò la prima radice di un rosso terrigno, grossa quanto un braccio. Scalzata che fu con i picconi, Carlone recise lui la prima radice in due colpi. E alcuni passeri che s’inseguivano dalla siepe, non impauriti da quel battere della scure, volarono su la cima e garrirono tra le frondi più alte e lontane.

Taciti i figli ripresero ad approfondire la buca: scoprirono a destra, più giù, un’altra radice più grossa, che il primogenito tagliò. E poi un’altra. E poi un’altra; e sempre intorno al pedale restavano di quelle radichette bianche, lisce, umide come serpi, con qualcuna delle vecchie nera e marcita…. E poi un’altra, rubesta.

Quindi il vecchio, che assisteva tuttavia in piedi, immobile, all’apparenza impassibile, ordinò al nipote di poggiare la scala e di salire a legar la corda da ramo a ramo, in giro, nell’alto. La faccenda fu lunga. Dopo di che, tornarono all’opera.

Uno chiese se venderebbero anche il ceppo; ma il padre non rispose. E di quelli che frattanto passarono per la strada, fu uno che attese e, ricambiato un saluto, disse:

— Farete di bei quattrini! Chi ne avesse un bosco!

Esclamò un altro:

— È campata abbastanza, eh, Carlone?

— Abbastanza! – rispose.

Ma a un terzo, ch’era un contadino dell’ingegnere, il vecchio disse:

— Potete andar di lungo, voi. Io non vengo a disturbarvi nei vostri interessi!

Quegli rispose:

— Avete ragione, avete; – e proseguì.

Dopo un’altra ora la buca era già così profonda che a ogni nuova radice recisa, tre degli uomini s’attaccavano alla corda e il quarto faceva forza contro il fusto per tentare se non rimaneva che il fittone. Indarno: non ancora il fusto sentiva la scossa. Finchè – e fu verso mezzodì – ebbero certezza che sola la radice maestra rimaneva.

E il vecchio disse:

— La mannaia a me!

Discese lui nella fossa: cominciò a colpire; mentre i figli ai capi della corda, lontano, tiravano, squassavano.

Cupi, ritmici, precisi e fondi su l’estrema radice di quella vita gigantesca cadevano i colpi del fiero vecchio. Quando il taglio fu innanzi, Carlone risalì, venne lui pure alla corda. Ma l’albero non voleva cedere; invano s’incitavano l’un l’altro.

— D’un colpo! – comandò il vecchio, dando un grido per avviso allo sforzo concorde….

Cedeva…. S’udì uno schianto di legno che sia troncato: poi, subito dopo, uno schianto molteplice, diverso, confuso e pieno di tutte le vette, di tutti i rami, di tutte le fronde che toccarono la terra madre; e parve che l’immensa pianta si sfasciasse tutta quanta, cadendo.

Allora Carlone senza dir nulla, col grande fazzoletto rosso s’asciugò, tra il sudore, due lagrime.

III.

Il dispiacere di Carlone amareggiò anche il curato. Era questi un buon prete, superstizioso e religioso a un tempo; un po’ asprigno e cocciuto anche lui, un po’ interessato, un po’ gobbo, un po’ sporco, perchè tabaccando non spazzava il tabacco rimasto dalla presa sul panciotto più rosso che nero; ma abbastanza affezionato al suo gregge e al suo ovile e amico a Carlone de’ Carli, col quale da anni e in ogni stagione faceva la partita quotidiana a casa di lui, all’ombra del moro o sotto il portico del forno o nella stalla. Veramente nei primi anni di cura la prevalenza del vecchio aveva urtato il parroco e quasi inanimito a un conflitto di poteri; presto però egli si era convinto che disgustarsi Carlone sarebbe stato come disgustarsi tutta la parrocchia e che non potendo contrastare a un avversario, conveniva preferirne l’amicizia. Carlone inoltre era liberale verso la chiesa; e il figlio maggiore di lui serviva da collettore nella «compagnia di San Vincenzo», che s’era estesa per le parrocchie vicine; e tra le donne della Ca’ scura si sceglievano quasi sempre o la «priora» o la «rettora».

Ma venuto che fu al Palazzetto il nuovo proprietario, súbito il curato dubitò d’una rivalità fra il vecchio capoccia e l’ingegner Stoia, che da paladino clericale s’intrometteva nelle faccende ecclesiastiche pur in campagna, nè dubitò che tra i due litiganti resterebbe lui con la testa rotta quando non riuscisse a barcamenare. A ciò non era molto abile, e piuttosto che giovare, nuoceva alla sua intenzione onesta con far a Carlone troppi elogi del forestiero e a questo troppi elogi di Carlone: nondimeno volse il mese da che le radici della quercia eran state messe al sole senza che il conflitto avvenisse. Per poco il curato non imbaldanziva; non gli pareva più tanto difficile navigare in buone acque fino ai Santi, il tempo in cui il bravo ingegnere e la sua ottima signora se n’andrebbero, grazie a Dio, di villa in città.

Ma egli non pensava a San Michele, che viene ai 29 di settembre; o meglio, non prevedeva che dovesse recargli noie proprio la maggior festa della parrocchia. Quell’anno non era stata scelta alla Ca’ scura che la priora; e rettora sarebbe la moglie d’un fittavolo. La signora Stoia non avrebbe perciò ragione di gelosia.

Quando, una mattina, l’ingegnere così bravo ma così petulante, venne in canonica, ed entrato nel discorso della prossima festa, espose chiaro e tondo il desiderio che la processione si recasse all’oratorio da lui fatto restaurare; come a dire che San Michele facesse una visita a Sant’Anna.

A che il parroco, tendendo la testa e gli occhi quale un cavallo che adombri, esclamò in quella sua maniera un po’ rude:

— Impossibile! Questo, signore, è impossibile!

Di consuetudine, la processione calando dalla chiesa prendeva una viottola a bivio con la strada comunale (con la strada appunto che conduceva al Palazzetto) e saliva fino a un olmo, le cui fronde composte in cupola facevan da tempio a una Madonnina in voce di miracolosa. E l’olmo apparteneva al figlioccio di Carlone. Imaginarsi dunque se si poteva mutare itinerario!

Ma l’ingegnere a scorgere la bocca storta del curato, invece di arrendersi, insistette. Il desiderio pietoso era della sua signora: a lui pareva che l’Oratorio valesse più d’un olmo. Lasciò comprendere quanto gli dispiacerebbe dover abbandonare con malanimo quei luoghi dove si era proposto far del bene; e alle giuste osservazioni che la gente di lassù era ostinata; che la novità troverebbe oppositori; che la Madonnina dell’olmo si credeva miracolosa, disse:

— Le imagini davvero miracolose non si tengono sotto un albero! Io sarei ben lieto, ben fortunato, di sottoscrivere la prima offerta per una nuova cappella, se lei mi accertasse che questi miracoli sono di grande importanza…. Quanto agli ostinati, lei li avverta. In caso, se non basterà, m’incarico io di ricorrere a Sua Eminenza o, magari, alle autorità civili.

«Misericordia!» pensò atterrito il parroco. «Piuttosto tentare….» Forse Carlone si persuaderebbe….

Insomma, il curato finì con ritenere e dire possibile quello che prima gli era parso e aveva detto impossibile.

Per una settimana il poveromo anticipò la visita al vecchio; lo prevenne più volte nell’offrirgli il tabacco; perdè più d’una partita senza prendersela con le carte; ma quelle benedetta parole: – Dite su, Carlone: vi dispiacerebbe a voi se invece d’andare alla Madonnina….; – quelle parole non riusciva a pronunciarle: gli si annodavano in gola per la certezza di non riuscire a bene; per il timore di far peggio, e per il dispetto di dover pregare invano quell’ostinato vecchio e riconoscerne senza profitto l’autorità.

Finalmente il lunedì precedente alla festa il prete andò alla Ca’ scura zoppicando; disse per un gran male ai piedi. Scherzò anche, sebbene addolorato ai piedi: lui già vecchio e Carlone un giovinotto!

— Basta – concluse con un sospiro mentre raccoglieva le carte dal desco – ; domenica, se Dio vuole, non avremo da passare su tutti quei sassi come gli altri anni….

Carlone levò gli occhi dalle carte e glieli piantò in faccia a mo’ di chi stando su l’avvertita discopra il tiro.

Pallido, il curato seguitò senza guardarlo:

— Andremo all’oratorio….

Ma aveva appena compiuta la parola che Carlone lasciò cader forte il pugno sul deschetto, gridando:

— Ah questa volta il suo ingegnere non se la cava! Finchè campo io, glielo dica a mio nome, non se la cava!

— E c’è da stizzirsi? – ribattè dolcemente il curato, rosso d’ira.

Tacquero. Poi zitti e cheti ripresero le carte e giocarono.

…. Ogni giorno, dopo la partita, Carlone accompagnava il prete fino alla siepe; quel dì l’accompagnò oltre la siepe, per il sentiero. Intanto che andavano, l’uno aspettava che l’altro parlasse; e pensavano entrambi: «Tocca a lui a tornare nel discorso.» E finalmente Carlone si fermò.

— Ci rivedremo, signor curato. – La sua voce pareva di pentimento.

— Addio – rispose duro il prete.

— E si ricordi – il vecchio aggiunse più forte: – si ricordi di quel che ho detto.

Ma il prete si rivolse:

— Oh quanto a quello, voi ubbidirete al vostro curato; si sa….

Allora il vecchio venendo a lui e tenendolo per un braccio, eppoi ponendosi la mano al petto:

— Il mio dovere, sissignore, son qui a riconoscerlo! Nelle cose giuste io a lei mi caverò sempre il cappello! – e se lo levava. – Ma se lei si mette a gloriare i birboni, signor curato, mi creda, non c’intenderemo più!

— I birboni? – il curato esclamò. – Già: chi non fa a vostro modo è un birbone! Ma, in fin dei conti, chi siete voi che vorreste stare di sopra alle leggi? di sopra ai superiori? di sopra a tutti? fare sempre a vostro modo? e chi non fa a vostro modo è un birbone? Chi siete, voi?

Ribattè, umile, il vecchio:

— Io? niente! Sissignore, io non sono niente! Ma la processione non è solo lei che la fa! e la processione andrà dov’è sempre andata; glielo garantisce a lei e a tutti gli ingegneri della madre terra, Carlone della Ca’ scura!

Fu in queste parole una semplicità così dignitosa, una tal fermezza quasi solenne, che il curato ebbe nell’animo un consiglio di prudenza; e si sarebbe contenuto in modi remissivi, se già prima non avesse meditate e predisposte le minacce che dovevan servirgli a mezzo estremo. Come contro sua voglia, queste gli scapparon fuori in fretta.

— Ah sì? Bene, bene! Tutti abbiamo da morire…; voi non siete più un ragazzo. La morte non guarda in faccia neanche ai giovani; da un momento all’altro…. Ricordatevi che mettere la disunione in una parrocchia è come metterla in una famiglia; ricordatevi che al curato si deve ubbidire come a un padre di famiglia; ricordatevi che le prepotenze si scontano, presto o tardi, e che un’offesa fatta alla madre della Santissima Vergine, a Sant’Anna….

— Io non so neanche chi sia Sant’Anna! – proruppe Carlone, di subito arrossato in volto, preso da un oscuro timore che quei ricordatevi gl’incutevano; e tratto anche lui, contro sua voglia, dai gangheri.

Il prete per contro, a coglierlo in fallo, prese coraggio.

— Bestemmiate! bestemmiate pure, per giunta! All’anima vostra ci penserete voi….

— Io penso che ho la Madonna per me! che è lei che offende la Madonna! che nostro Signore castigherà lei, perchè è lei che porta le novità e la disunione in parrocchia! Ci fu mai niente da dire, tra noi due, prima d’ora? Prima che lei, per il suo interesse….

— Interesse, voi dite? – interruppe il prete in cui l’altro aveva toccato il tasto debole e la cui coscienza non era abbastanza tranquilla. – Vi sbagliate di molto, credetemi! È l’amore dei parrocchiani; è il timore di far nascere una guerra; è la voglia che ho di sopire un odio nato da una sciocchezza…: per una quercia!… Negate che la questione è tutta qui? Negate che se non ci fosse la quercia di mezzo, non vi parrebbe vero anche a voi di andare all’oratorio e di fare onore alla vostra famiglia?… Ah, ah, Carlone! Ci conosciamo da un pezzo noi due!

Carlone fece, incrollabile: – Son sincero. Non la nego io la verità! Ma torno a dirle che se il signor ingegnere ha avuta vinta la prima, non vincerà la seconda…. E schiavo suo!

Ora il curato andò lui verso il vecchio; lo trattenne senza sforzo, per un braccio; gli disse umilmente in tono di preghiera:

— Sentite…. – E mentre l’altro lo guardava con l’occhio di un cagnotto che non si fidi a chi gli mostra il pane dopo avergli mostrato il bastone, proseguì: – Vogliamo aggiustarci? A voi! Io vi prometto che otterrò dal signor ingegnere che si vada prima alla Madonnina e dopo all’oratorio…. Siete contento?

Il vecchio scosse il capo ripetendo: – Nessuna novità! nessuna novità!

— Bene! – allora il curato gli gridò dietro. – La vedremo, signor prepotente! oh, se la vedremo!

IV.

Appena dichiarata la guerra, il capitano sagace affretta i preparativi a combattere e occupa con mosse rapide il campo di battaglia. Invece il curato di Rioronco se ne stette fino a sera colle mani in mano, irato e incerto sul da fare. Nemmeno informò subito don Sigismondo, il pretino ch’era in pratica da cappellano e che essendo tutto dolcezza, tutto tenerezza, egli giudicava un uomo nato fatto per andare in Paradiso in carrozza: ossia un buono a nulla.

Niuna meraviglia perciò che Carlone de’ Carli, andando e mandando subito i suoi in giro per la parrocchia, riuscisse meglio al suo intento e prontamente componesse quel partito che nella storia del luogo fu poi detto il «partito della Madonnina». Si sa che Carlone aveva molti amici ligi per interesse e per soccorsi o consigli ricevuti, e che aveva tre nuore e un genero, i quali alla lor volta contavano fratelli e sorelle ch’eran mariti o mogli in altre famiglie; e aveva nipoti già ambiti per amore e per nozze in altre case; così una metà forse dei parrocchiani, costretti dalla consanguineità o dall’utile o da vicendevole timore di danni, dichiararono, promisero, alcuni anche giurarono quella stessa sera che la processione di San Michele non muterebbe cammino. Si aggiunga che Procolo, il primogenito di Carlone, dirigeva come si è detto, la «Compagnia di San Vincenzo»; onde bastò che Procolo facesse passare da compagno a compagno la voce di resistenza al prete, perchè in poche ore il drappello più vistoso e più solenne della processione fosse tutto avverso al nuovo itinerario.

E quando, la mattina dopo, il cappellano, la Perpetua, il campanaro, la moglie del campanaro che con la Perpetua aveva faccende commerciali d’uova e di polli, il becchino, il falegname che costruiva le casse da morto e che aveva in moglie la figlia del campanaro, e il crocifero che serviva da sagrestano e da chierico, quando insomma tutti coloro che avevano buone ragioni da sostenere il parroco tornarono dalla missione loro, eran tristi e dolenti. A conti fatti, resterebbero al «partito di Sant’Anna» una dozzina di «figlie di Maria», il vessillifero, lo «scalco» che porta il mazzuolo del comando, uno dei due portatori di lampade e, a seguito, i contadini dell’ingegner Stoia e pochi più altri! Imaginarsi la rabbia del curato, il quale era tornato tutt’allegro in canonica poichè la rettora – sperando di ottener dal prete quattrini a frutto per il marito fittavolo – gli aveva detto francamente che aveva ragione lui; e che la priora, nuora di Carlone de’ Carli, era stata invano a tentarla; e che lei andrebbe all’oratorio, o non andrebbe in processione.

Si tenne consiglio di guerra. Il cappellano ripeteva che contrastare a Carlon de’ Carli gli pareva tempo perso ed esortava a cedere, inasprendo sempre più il curato.

— Perchè non avvisa le autorità? – chiese il falegname.

— Bravo! – risposero a una voce il curato e il campanaro. – Le autorità proibirebbero la processione per sempre!

— Dia la scomunica a tutti – consigliò il sagrestano: proposta che fece ridere amaramente. Dopo la quale il consiglio rimase muto a lungo.

Riprese il sagrestano ancora fiducioso nelle minacce spirituali:

— Una bella predica!…

Ma il campanaro, più pratico, oppose:

— Ci voglion fatti, non parole! Io direi che noi facessimo per amore quel che gli altri faranno per forza….

Alla parola d’amore il cappellano chiese:

— Cioè?

— Che la processione andasse tutta insieme fino alle due strade; e dopo, una parte alla Madonnina e l’altra all’Oratorio; e dopo….

— Bel consiglio! – interruppe il curato elevando la voce. – Credete voi che si rassegnino, loro là, a far senza del Santo? Volete che restiamo noi senza il Santo?

Ma come il campanaro si grattava la testa perchè non sapeva ribattere, il cappellano raccolse lo sguardo di cielo in terra, ispirato, fervido; si alzò in piedi.

— Signor curato, lasci fare a me! Bella idea! Accomoderò tutto io! – E si accomodava il nicchio in testa. – Corro alla Ca’ scura…. Vado e torno!

— A far che cosa? a far che cosa? – domandava il parroco.

— Lasci fare a me!

La Perpetua, che aveva inteso, guardò dalla finestra di cucina al pretucolo che usciva, e mormorò sorridendo: – Sì, sì: lasciate fare a lui, povero don Sigismondo!

Ebbene: il cappellanino biondino, roseo e zuccheroso, fu lui che piegò Carlon de’ Carli. Gli piacque nel presentarglisi con l’atto di Ponzio Pilato e col dire: – Per me, viva la Francia o viva la Spagna, è lo stesso! – E parlò senza ambagi diplomatiche, senza apparenza politica. Sapeva che se la domenica prossima accadessero dei guai, il signor curato, che aveva il solo torto di essere un po’ cocciuto, avrebbe disgusti gravi con Sua Eminenza e con la Prefettura; eran da prevedere fin processi penali in cui Carlone stesso sarebbe chiamato; ma più addolorava don Sigismondo il pensiero dello scandalo. La parrocchia di Rioronco era stata sempre una famiglia sola, a cui Carlone aveva dato sempre bell’esempio di bontà. Se si bastonassero, perchè gli animi erano riscaldati molto in quella divisione; se, Dio liberi!, si ammazzassero, che cosa direbbe il mondo? quali rimorsi non avrebbero il curato e lui, Carlone?… Ah! solo a pensarci il cappellano aveva le lagrime agli occhi.

Commosso, il vecchio fece: – Purchè nè io nè i miei, con tutti i nostri, non andiamo all’oratorio, io per me son disposto a tutto! – Quindi temendo d’aver detto troppo e di parer debole, aggiunse con foga: – Anch’io avrei rimorso se succedesse qualche lite; anch’io sarò sempre per la pace e per il timor di Dio!; ma piuttosto che andare all’oratorio, don Sigismondo, andrei in galera; andrei (si fa per dire) all’inferno!

Dio liberi! parlare così quando c’era il modo di accontentare tutti! Bastava andar tutti insieme fino alle due vie; di dove il partito di Sant’Anna discenderebbe all’oratorio e il partito della Madonnina salirebbe per la carraia, all’olmo; e dopo, riunendosi per l’ultimo tratto, ritornerebbero insieme come prima.

— Lo so, lo so! – disse il cappellano prevenendo l’osservazione del vecchio. – Resterete per un poco senza il Santo. Ma gli altri non resteranno senza la «Compagnia»? E voi non potreste onorare la Madonnina con una bella «fioriera»?

In un contorno e sotto una corona di fiori di tela, che sembrerebbero veri e freschi, la Madonnina dimostrerebbe al mondo l’amore dei suoi parrocchiani più fedeli. Non solo! Carlone comprese che quello era il mezzo per far onore a sè stesso; vide subito che la sua autorità ne riuscirebbe non diminuita, ma accresciuta; pensò che per tal modo castigherebbe il curato e umilierebbe l’avversario.

— Faremo così! – disse.

E tosto la voce della pacificazione si sparse; e tutti ne furono lieti. Gli ardimentosi convertirono l’ardore pugnace in un ardore di emulazione e in una speranza di maggior festa; gl’incerti, che non eran pochi, parteggiarono a viso fermo senza paura di danni; le mogli e le madri che già avevano esortati i mariti o i figli a restare a casa, o li avevano imaginati feriti o morti, ringraziarono il Cielo e benedissero San Michele. Tutti, o quasi tutti, furono contenti: fu tolto da quegli animi semplici l’amarezza della vendetta e della ribellione; il superstizioso panico di un’offesa religiosa; il peso della violenza meditata e preparata; il dubbio della sconfitta e della vergogna.

Inoltre, il giorno di poi, i meglio informati accertarono che l’ingegnere darebbe spettacolo di fuochi artificiali, di cuccagna e di palloni; che Carlon de’ Carli assolderebbe per conto suo cantori e musici; e che per la «fioriera» Procolo era andato a Bologna; e che dalle parrocchie vicine altre «compagnie» verrebbero ad allearsi con i compagni di San Vincenzo. Insomma: un’aspettazione grande e gioiosa quale non c’era stata mai.

Che se ci furono de’ malcontenti, essi non furono più di tre e per cagioni intime. Primi: Samuele soprannominato il Moretto e Canuto il sarto, soprannominato il Sartoretto, che vagheggiavano entrambi una ragazza meritevole in modestia di star fra le «figlie di Maria» e nello stesso tempo idonea a far spasimare due innamorati in una volta.

Quei due s’incontrarono a caso la vigilia della festa.

— Tu per chi sei? – domandò con aria di noncuranza il Sartoretto.

Il Moretto, che già conosceva l’opinione della bella, rispose:

— Per Sant’Anna. E tu?

— Anch’io. – Poi il Sartoretto, divenendo spavaldo, aggiunse: – Tu però faresti meglio a star con quelli della Madonnina.

— Io sto con chi mi pare!

E il rivale proseguendo per la sua strada:

— Oh oh, che aria tira, stasera!

Nient’altro. Una rivalità da non tenerne conto; perchè in fatto di donne e gelosie, tutto il mondo è paese.

Malcontento anche era rimasto quel contadino dell’ingegner Stoia a cui Carlone, quando abbattevano la quercia, aveva ingiunto di tirare innanzi senza pensiero degli affari altrui. Quegli aveva sperato di venire a dirittura alle mani e, deluso, per vendicarsi e ingraziarsi il padrone disse al bottegaio che avrebbe da guadagnar soldi chi schernisse, la domenica, Carlon de’ Carli. Uno scherno per cui gli calasse la boria: non già da fargli del male.

E il bottegaio, che aveva tanto professata e vantata la sua neutralità, per far quattrini strinse in segreto patto i suoi tre avventori più a corto di quattrini: Remigio lo zoppo, che aveva indole non del tutto buona; Anacleto dell’Orto (attenti ai nomi!), un millantatore; e Silverio detto, per scempiaggine, il Chiù.

È vero che questi avevano promessa fede a quelli della Madonnina, ma di ciò non è a far gran caso; giacchè anche per simile genia di fedifraghi o traditori, tutto il mondo è paese.

V.

Mai con più lena il campanaro di Rioronco s’attaccò alla corda delle sue campane festaiole; mai i parrocchiani d’ogni età e d’ambo i sessi godettero più di allora in un consenso d’allegrezza, nell’attesa dei vesperi solenni al dì di San Michele; mai più di quel giorno il Santo nell’atto di configgere la lancia sul serpente (di stucco anch’esso) sembrò sorridere dall’altar maggiore e dire a’ suoi protetti: All’inferno il demonio!; sia pace e gioia a voi, uomini e donne di buona volontà!

Fino il curato era allegro; perchè lo scisma ridotto a quell’innocente bipartirsi della processione, accresceva magnificenza alla festa; significava come due prove di fervor religioso in una volta o due modi di onorare pomposamente il Santo.

Ma pienamente felice era Carlone: libero di timori, libero di rimorsi; orgoglioso del suo panciotto damascato e della giacca di velluto e più orgoglioso che la nuora priora fosse tutta vestita di nero col velo bianco, quando la rettora non aveva che un abito di lana verde. Suo giudicava il trionfo: tale che aveva permesso a quelle delle «figlie di Maria» ch’erano rimaste al suo partito di andar con le altre, bastandogli al fasto della sua parte le tre «compagnie»: quella di San Vincenzo, con le mantelline rosse, quella di San Martino, con le mantelline gialle; e quella di San Giorgio con le mantelline celesti. Poi, gli parve che i suoi sonatori e i suoi cantori avessero più fiato degli altri quando la processione s’incamminò e lui e la priora si mossero dal loro luogo con la stupenda «fioriera» da portare alla Madonna. Così cantando inni e sonando, fra i doppi delle campane e lo scoppiar dei mortaretti, e fra l’ammirazione degli spettatori, la processione partiva dalla chiesa.

In questo mentre i due soli carabinieri venuti dalla stazione della Pieve erano corsi innanzi, all’angolo del bivio; e si eran messi là, immobili, di malavoglia. Ciò che stava per succedere e di cui tardi avevan avuta notizia e, più che interrogando, ascoltando le voci della folla, li teneva perplessi; maledicevano il Governo timorosi d’un disastro. Ma quando la processione giunse al bivio e sostò, non accadde che un po’ di subbuglio nel separarsi delle due parti e nel comporsi di ciascuna processione in capo alla propria strada. Alla prima, ubbidendo a Carlone, precedette uno dei lampadari per far le veci del crocifero o del portastendardo: súbito dopo si mise la prima «compagnia di San Martino»; poi i cantori e i suonatori; quindi la numerosa «compagnia di San Vincenzo», a cui seguirono, come preceduti da quella «guardia del corpo», il priore e Carlone con la corona dei fiori finti, e dietro la terza «compagnia» e il seguito delle donne e dei partigiani. Alcuni di questi s’abbandonavano a una commozione di riso; altri avevan le lagrime agli occhi. Un po’ a stento, eppur bene, si formò la seconda schiera: le figlie di Maria presero il posto delle «compagnie» dopo ai cantori e ai suonatori, e nonostante che il cappellano dicesse: – aspettate! aspettate! – le vergini ripresero l’inno con voci acute e alte, quasi per sfida, appena udirono dall’altra parte l’intonare della musica. E si avviarono anche i preti col Santo.

Per tal modo, in mezzo ai curiosi e dinanzi ai carabinieri, passavano lentamente le due file rivolte alle lor mete diverse. Ma passate che furono, i carabinieri avanzarono, e certi entrambi del da fare, come per un accordo che non avevano conchiuso, l’uno si volse a destra e l’altro a sinistra. Di che, meravigliati a vicenda, dissero a una voce: – Di qua! – ; ciascuno non trovando ragionevole l’errore del compagno.

L’uno era piemontese, l’altro toscano, nè tra quei due bravi giovani c’era mai stata parola a dire da quando si trovavano nella stessa stazione e da quando infrangevano insieme il regolamento per far all’amore a certa cascina dove avevano due belle ragazze, una per uno.

— Per da sì! – ripetè il piemontese. – Noi dovuma stè a j ourdin! I ourdin a soun d’andé à prés à la processioun, e la processioun bouna a l’è coula!

Ribattè il toscano:

— Bada, amio. Il nostro doere gli è quello di attende all’ordine pubblio; e chi lo minaccia ’un son mia i preti: sono i rivoluzionari! Dunque s’ha ire ’on esti!

Ma il compagno non l’intendeva; scoteva la testa brontolando:

— Noi en doi, miraco i podouma nen fene!

Se sempre l’unione fa la forza, tanto più l’unione è necessaria quando la forza è rappresentata da due persone sole: che due carabinieri possono impaurire, ma un solo, tra la folla, muoverebbe a riso. E loro non eran che due, e non potevano dividersi; non potevan fare miracoli.

— Ma l’ourdin à l’è d’andé à prés à la processioun, à la processioun ufficiale! – Evidentemente il piemontese sperò di piegare il compagno con questa grave parola. Invece l’altro:

— Giuraddio! Mi faresti scappà la pazienza! Bada: do’è che stanno i più scontenti? i più curiosi? là! Dunque si dee ire là!

Che! I bugianen son bugianen! Il buon piemontese non cercava ragioni da opporre; voleva essere ubbidito, poichè egli si sapeva nelle grazie del brigadiere e aveva fede nel tenente e s’aspettava da un giorno all’altro la promozione ad appuntato; e, oltre a ciò, era più vecchio d’anni e di servizio. Egli dunque severamente chiamò l’amico per il cognome:

— Rappaini! l’ansiano soun mi! Andouma!

— Oh che anziani e che non anziani! Io vo’ far il mi doere! ’Un vo’ mia gastighi per motio tuo! ’Un vo’ mia perdere il grado se mi fanno appuntao!

— Cribio!… Rappaini, andouma!

— Io? piuttosto, ve’, ’un mi movo! Fo così! – E il toscano si mise a sedere sul paracarri; si pose il moschetto a traverso, su le ginocchia; su queste puntò i gomiti e poggiando la faccia alle mani guardava l’amico.

Il quale, a tal vista, si era acceso in volto, con tali occhi da spaventare. Ma Rappaini ch’era più furbo riprese:

— Tanto; voaltri piemontesi d’idee vu nun n’aete! Dimmi un po’….

S’allontanavano i canti e i suoni delle processioni.

— ….Di’: se ha a succede qualche ’osa indòe dee succedere? Io dio, che succederà qui, quando torneranno indreo! No? Qui. Se se danno, se le daranno qui! e no quando i du’ partiti sian fuor di tiro!

L’argomento era giusto solo in parte: perchè essi a quel punto dell’incontro avrebbero potuto trovarcisi anche accompagnando una delle processioni. Ma i toscani hanno il cervello fine.

— Ci vol prudenza, ci vol! Noi s’ha a mostrà ch’un si diffida nè di esti nè di elli!

E fu tale argomento che il piemontese, vinto e tutto contento d’essere stato vinto, alla fine esclamò ridendo:

— Voi autri toscani con le vostre ciàciare i stuparie la buca a’ na foumna! Ma par sta volta, va!, at a rasoun! – E andò a sedere anche lui sul paracarri di fronte; deponendo il moschetto da lato e su le ginocchia la borsa della corrispondenza.

Amici dunque più di prima tornarono a discorrere di ciò che più loro premeva, mentre guardavan le processioni che dilungavano, già scomparivano. Ah! le loro ragazze non eran venute alla festa di Rioronco….

— …. Quando la pigli tu, la Balbira?

— Quanc i’ divento vicebrigadie, i’ la sposo dal parroco. – Prendeva la «ferma», faceva la carriera. Ma il compagno, che a sentir lui poteva vivere di rendita, disse:

— Se possono passà esti du anni, io me ne vo; che n’ho auto abbastanza della patria! Vo a lavorà il mi podere, la mi vigna…. Uh! Se tu sentissi il mi vino!… Me la porto ’on me, la mi ragazza….

…. Eppure, strada facendo, nell’una processione e nell’altra s’estese un nuovo malcontento; sia perchè la realtà riesce sempre inferiore all’aspettazione, sia perchè Carlon de’ Carli aveva avuto il torto di non lasciare almeno una «compagnia» al curato e questi aveva avuto il torto di non concedere almeno un prete in cambio di tante «figlie di Maria». In entrambe le schiere serpeva quel malessere che dan le cose imperfette; quel malanimo che dopo le risoluzioni pacifiche talvolta rinasce anche ne’ più docili e generosi avversari. Or come fu pervenuta alla villa Stoia e vi fu accolta da tal frastuono di mortai che pareva il finimondo, la processione sacerdotale avanzò e ristette all’oratorio dove per la porta spalancata era esposta agli sguardi di fuori l’altare tutto adorno e luminoso. Ivi, dopo il Jube Domine, San Michele s’inchinò a destra e a sinistra a benedire la folla genuflessa, tra cui erano molti signori e signore; e cantori e preti ripresero il canto; e il cappellano diede l’ordine del ritorno.

Per ritornare come nella venuta, si comprende che gli uomini, i quali prima erano in coda, avrebbero dovuto far ala sì che passassero lo «scalco», il lampadaro, il crocifero, il vessillifero e quindi le «figlie di Maria». Ma non tutti così fecero. Quasi la funzione fosse compiuta, alcuni rimasero proprio in mezzo alla strada, per alloccaggine e storditezza; e quando giunsero le vergini, non si ritrassero; ne interruppero, confusi e confondendo, la prima fila. Era tra quelli il Moretto, uno di quei due giovani che, già si disse, amavano con incerta fortuna la stessa «figlia di Maria»; mentre l’altro, il Sartoretto, attendeva e guardava bieco a costa della strada. E il restare del primo là in mezzo fu sospettosamente interpretato dal secondo, il quale appena la bella gli fu dinanzi con le compagne, senza tante cerimonie le si mise a fianco.

Arrossì la vergine. E impallidì e si fermò allorchè il Moretto, d’improvviso, affrontava il rivale e diceva:

— Cosa pretendi tu?

— Io? – ribattè il Sartoretto. – Fare i miei comodi! e tira via, milordo, che è ora!

Il milordo gli lasciò andare uno sgrugnone: il colpito l’afferrò, e, accapigliati, caddero. Tutto ciò in minor tempo di quanto bisogna a raccontarlo; così presto che, quantunque costrette anch’esse ad arrestarsi, le ultime ragazze e i preti non avrebbero pensato a una lite se non avessero visto accorrere di qua e di là coloro che speravano dividere i contendenti.

— Cosa c’è? cosa è stato? Avanti! avanti!

Di dietro, chi spinge; chi interroga; chi allunga il collo: arriva don Sigismondo. Ma d’innanzi, le prime ragazze si son voltate; il crocifero chiama lo «scalco»; questi, che giungendo un momento prima avrebbe subito fatto largo, ora lascia andar bastonate alla cieca sui litiganti e sui pacieri: e un paciere afferra lui; e lui, perduto il mazzuolo, invoca aiuto. Don Sigismondo intanto con le mani nei capelli e gridando misericordia torna indietro, verso i colleghi e il curato; e i suonatori e i cantori corrono innanzi ad aiutare il crocifero e il vessillifero, che son corsi ad aiutare lo scalco.

Chi l’avrebbe mai detto? Parve una scintilla in un pagliaio; forse perchè, alle esortazioni e alle preghiere di don Sigismondo, i sacerdoti furon concordi nel pensiero e nell’errore di riportare il Santo all’Oratorio; e tutta quella gente rimase come senza ritegno, senza rispetto a nulla, senza timor di Dio. Accesa da un’improvvisa voglia di combattere, la folla precipitò d’ogni parte alla mischia; addosso ai cantori e ai suonatori o a chi capitava, capitava. Addosso! addosso con i ceri, con giannette e randelli e pugni; e bòtte da orbi. Ci furono fratelli che diedero pugni ai fratelli; padri ai figli, e figli ai padri; ci furono anche molti che nei giorni di poi confessarono d’aver creduto di combattere con quelli della Madonnina; e molti che confessarono d’essersela goduta un mondo a battere con le mani e coi piedi non sapevano chi, ignari affatto della causa che aveva generata la battaglia. I timidi, in quel mentre, fra gli urli delle donne e dei ragazzi, scampavano e fuggivano d’intorno, urlando….

*

…. Con grande impeto di tromboni e voci il partito della Madonnina era per giungere all’olmo. La viottola essendo diruta e stretta, Anacleto Dell’Orto, Remigio lo zoppo e Silverio detto il Chiù (i traditori) avevano tentato troppo tardi di mettersi innanzi, di precedere a tutti, perchè penetrati fra i «compagni di San Giorgio» avevan dovuto cedere al comando di: – Indietro voi altri! – che Carlone aveva dato loro con faccia minacciosa. A disagio perciò, quasi si credessero scoperti, i tre scambiarono parole sommesse tra i seguaci, in coda.

— Come si fa? – domandava quello scemo di Silverio. E Anacleto:

— Ve l’avevo detto io? Bisognava andar prima!

E Remigio: – Non mi sarei mai creduto che ci venissero in tanti! Saranno quaranta solo quelli di San Martino!

— Si direbbe – aggiungeva tuttavia ridendo Silverio il Chiù – , si direbbe che Carlone ha imparato qualche cosa….

— Tu avrai cantato! – diceva biecamente Remigio lo zoppo.

— Io? Non ho detto niente io! fossi minchione!

Allora Anacleto, lo spaccamonti:

— Ho bell’e visto! Voi altri avete paura!

— Paura io?

— Paura io?

— …. e ridarete i suoi quattrini al bottegaio.

— Ma se non ne ho più uno! – disse ridendo il Chiù, che n’aveva avuti meno degli altri; mentre lo Zoppo, bilioso, mormorava contro Anacleto:

— Perchè non vai innanzi tu, dunque?

Queste rampogne furono udite da un Tizio che sarebbe stato meglio non udisse nulla; un muratore fedele alla Cà scura. Se poi costui fosse informato intorno al tradimento dall’onesto bottegaio e avesse incarico da Carlone stesso di invigilare le tre canaglie, non è certo; è uno di quei punti oscuri che s’incontrano in tutte le storie e senza cui i critici della storia non avrebbero più niente da fare.

Quel Tizio domandò:

— Cosa avete, ragazzi?

— Niente abbiamo – rispose ridendo il Chiù.

— Avete bisogno d’aiuto?

— Avete bisogno voi? – ribattè Anacleto con insolenza. Il muratore, sempre più insospettito, tacque. Tacquero i tre, urtandosi con il gomito l’un l’altro. E il lungo corteo andava più piano; finchè voci e musica cessarono. Ma allora la siepe non contenne più i curiosi: alcuni la saltarono; altri vi fecero un varco; altri l’allargarono; e la gente affrettò e si strinse di qua e di là dal fosso, intorno all’albero; al quale il figlioccio di Carlone aveva già poggiata la scala, già ricevendo dalla priora e dal vecchio la «fioriera», per attaccarla ai rami e fermarvi, nel mezzo, l’imagine.

Ecco il momento. I cospiratori, che vorrebbero far cadere la «fioriera» come per disgrazia, e che a forza di gomiti e di urti si son fatti innanzi quasi per veder meglio, non dovrebbero che dare una spinta alla scala, e la darebbero se il muratore non la tenesse ferma e non vigilasse.

Timoroso, il Chiù ride. Anacleto fissa il muratore con aria di sfida, ma non si muove; lo Zoppo esorta: – Dagli! – Dagli! – susurra anche, ridendo, il Chiù; sicchè Anacleto, mal disposto dallo sguardo del muratore, che ha dinanzi, e dalle sollecitazioni, che ha di dietro, si rivolta e dice troppo forte: – Dategliela voi altri la spinta! Io ho da tener a posto questo qui.

— Me? – il muratore grida con un braccio a difesa della scala e l’altro in aria. Il segreto è svelato, la cospirazione fallita; invano Anacleto risponde: – Dicevo così per ridere….

Tutti vorrebbero sapere:

— Cosa c’è? Cosa c’è?

Ma l’Imagine ha già la gloria dei fiori e comincia il coro ultimo dei fedeli:

Maria, mater gratiae….

Già discende il figlioccio di Carlone: è al penultimo gradino. Quando, oh! – che è? che non è? – il muratore dà una spallata ad Anacleto; il quale s’afferra alla scala; e la scala e l’uomo, che è all’ultimo gradino, precipitano insieme nel fosso. S’odon grida. Cogliendo l’opportunità di farsi onore lo Zoppo e il Chiù s’avventano a difesa del compagno, che il muratore martella di pugni, intanto che s’invoca soccorso….

Mater misericordiae….

Irrompono a difesa del maestro due o tre manovali; s’avanza Carlone per metter pace.

— Ohe, ragazzi! – minaccia. Poi prega: – State buoni, ragazzi! – Ma come pacificarli a parole? – Di questi ci vogliono! – urla uno dei cantori, che è un Ercole e che dove batte, abbatte. – Son qua io, Carlone!

Pur troppo però l’Ercole è d’un’altra parrocchia; e che c’entra lui? Infatti una voce, non si sa di chi, ripete immantinente d’intorno: – Son quelli di San Martino! – Si ripete fra i più lontani: – Tradimento! aiuto! Son quelli di San Martino che portano le liti!… Son pagati dall’ingegnere! Traditori! Addosso!

E i poveri «compagni di San Martino» si raccolgono insieme, si guardano in faccia; spengono le torcie per usarle come armi.

— Dalli a quelli di San Martino!

— Dalli! – grida Anacleto dell’Orto sanguinoso e felice d’essere scampato dalle mani del muratore.

— Addosso! – grida lo Zoppo che nella battaglia par diventato dritto.

— Vigliacchi! – grida Silverio il Chiù, scappando via senza più ridere.

E i «compagni di San Vincenzo» commisti ai «compagni di San Giorgio» si gettan sui «compagni di San Martino», e gli spettatori forestieri sui parrocchiani di Rioronco. Carlone piange, grida pietosamente con le mani nei capelli….

*

…. Così, mentre il carabiniere piemontese, tacendo finalmente l’altro, cominciava a raccontare una sua avventura molto seria con una tota di Torino, l’altro balzò in piedi dicendo:

— Hai udito?

Eran grida confuse e lontane, verso il monte: all’Olmo. Già dalla viottola comparivano donne affannate, disperate, che a vederli alzavano grida e braccia chiamando, terribili:

— Correte! correte!

I carabinieri accorrevano. Ma avevan fatti appena pochi passi (e il toscano aveva appena mormorato: – Te lo diceo io?) – quando di giù, dalla strada vennero altre voci pietose, altre donne ansiose invocavano….

Cuntacc!

— S’ammazzano all’Oratorio! – gridavano – s’ammazzano all’Oratorio!

Oh no! Non gravi ferimenti; non morti.

Dal sereno cielo il sole cadeva in una letizia fervida; s’attenuava in una gioia di colori digradanti dalle fiamme della fede al biancore della carità; si spegneva in vista alle prime stelle ch’esprimevano raggi di meraviglia. Ombre di pace velavano i culmini e i dorsi dei monti più alti; calavano; e il fremito della notte penetrava tra le fronde e le foglie come voci d’anime ch’esortassero silenzio ai viventi per udirsi in concordia tra loro; e il rio diceva al mondo con che soave fluire le ore della quiete e le sue acque scorrerebbero tra gli steli cullati dall’aria, tra i sassi arrisi dalle stelle, tra le piante dormienti anch’esse (se Darwin non errò). E quante anime avevano veste di penne, si obliavano sicure d’ogni minaccia, nei loro ripari, col capo sotto l’ala tepida e parecchi con una zampina in alto; e i buoi russavano senza brutti sogni d’amore; e da tutta la terra pareva uscire un respiro immenso di tregua e di riposo.

A domani! A domani le cure e le battaglie degli uomini di cattiva volontà! Ma quei montanari semplici e buoni come animali, pur non udendo altre esortazioni che dei vecchi e dei preti, sentirono, quando se ne furon ben date, che anche per le bastonate e le querele era tempo di finirla; e chiotti chiotti o rumorosi, divisi o a gruppi, e senza lo spettacolo dei fuochi e del resto, se ne tornarono alle loro case. Non più di due o tre ore dopo, tutti, anche gli innamorati che non avevan ricuperato il tempo perduto, anche il Moretto e il Sartoretto oramai men gelosi che indolenziti, dormivano placidamente. Tutti, fuorchè Carlone e il curato; i quali meditavano la loro colpa e la colpa del diavolo vittorioso a Rioronco proprio il giorno di San Michele. E quando fu stanco di dar volta per il letto, e sempre più rimorso, il buon vecchio si levò – avanti giorno – ; e andò all’Oratorio in cerca di sollievo, a chiedere perdono a Sant’Anna.

Poscia rincasando, s’imbattè nel figlioccio. Questi in segretezza gli raccontò che un birocciaio la notte aveva visto il diavolo vestito da prete correre, leggero e veloce come una piuma, verso l’olmo. Forse il diavolo non aveva più orrore della Madonna, dopo che l’avevano quasi nascosta in quella «fioriera»?

Ma Carlone comprese e sorrise tutto contento. Senza dubbio il curato, non resistendo ai rimorsi, si era alzato, la notte, ed era andato alla Madonnina per domandar perdono anche lui!


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TITOLO: In Arcadia
AUTORE: Adolfo Albertazzi

NOTE: Il testo è tratto da una copia in formato immagine presente sul sito Internet Archive (http://www.archive.org/). Realizzato in collaborazione con il Project Gutenberg (http://www.gutenberg.org/) tramite Distributed proofreaders (http://www.pgdp.net/).

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Novelle umoristiche : / di Adolfo Albertazzi – Milano : F.lli Treves, 1914 – 314, 8 p. ; 20 cm.

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)