Quando, nel 1901, fu pubblicato The First Man in the Moon, Wells era ormai uno scrittore di fantascienza affermato e conosciutissimo. Forse privilegiava la fantasia alla scienza, come polemicamente notava Jules Verne, ma il suo ruolo di anticipatore dei più solidi canoni di questo genere di narrativa non può essere messo in dubbio: dal viaggio nel futuro mediante una macchina, all’invasione della Terra da parte di alieni, dagli scienziati se non pazzi certamente eccentrici e in rivolta contro la società, alla descrizione di nuove dimensioni accanto alla nostra, e poi animali giganti, immagini di mega metropoli del futuro. Se Verne può essere considerato il padre della fantascienza tecnologica, Wells è certamente capostipite del filone utopistico o “di pensiero”. Si spinge infatti ben oltre alla precognizione meccanica di scoperte tecnologiche addentrandosi nell’evoluzione dei costumi, delle ideologie, affronta temi come la maggiore uguaglianza tra le classi, la libertà sessuale, la critica verso l’autorità. I contorni non sono mai netti e l’ottimismo si stempera sempre nel risvolto pessimista. Non si limita mai a una fantasiosa anticipazione scientifica, ma si addentra anche – e, forse, soprattutto – nella speculazione sociale.

Anche la società degli insettiformi Seleniti è divisa in classi e il lavoro è super specializzato. Ma al suo secondo romanzo su abitanti extraterrestri (come è noto il primo fu, nel 1898, The War of the Worlds) incontriamo una società pacifica, che vive sotto la crosta lunare, dove ognuno, grazie alle specializzazioni imposte fin dall’infanzia, ha il suo ruolo nell’organizzazione sociale senza interferire in quello di nessun altro. Quindi questo romanzo è una nuova tappa in quella riflessione della quale Wells ha bisogno per soddisfare il suo bisogno di armonia e di anticonformismo, di un modo nuovo non più gerarchico di concepire la vita. In questo senso va ricordato, oltre al tentativo di rinnegare da parte dell’autore, il materiale narrativo utopico specialmente prodotto a cavallo tra XIX e XX secolo, il suo ultimo romanzo fantascientifico del 1937 Star-Begotten che è emblematico proprio dal punto di vista dell’evoluzione della proposta wellsiana in campo sociale. I nati dalle stelle di questo romanzo sono esseri “superiori” che derivano da mutazioni indotte da raggi cosmici governati da marziani (i quali, c’è da notare, si sono fatti più accorti rispetto a quelli davvero sventati di The War of the Worlds); la loro superiorità si manifesta nella grande capacità di opporsi al conformismo, alla trilogia Dio, Patria, Famiglia, a tutti i luoghi comuni che gli antichi pregiudizi, biblici e non, hanno creato e consolidato nei secoli e nell’attualità. Ma a tutto questo Wells pensava da decenni. In una conferenza tenuta alla Royal Institution of Great Britain nel 1902 affermò:

«Questo fatto che l’uomo non è fine a sé stesso, è la grande questione insolubile, è un problema sconcertante che sorge per noi nella scoperta scientifica del futuro, e a parer mio, ad ogni modo, la questione su cosa verrà dopo l’uomo è la più affascinante e la più insolubile per tutta l’umanità». [da: Complete Works of H. G. Wells, Delphi Classics 2015]

Nella sua produzione fantastica e fantascientifica procede a passi, talvolta incerti, talvolta risoluti, verso quello che “verrà dopo l’uomo”. The First Man in the Moon è una di queste tappe. Il romanzo esercita anche oggi grande suggestione su chi legge. L’uso della metafora consente all’autore di confezionare immagini che sono tutt’ora di una potenza sorprendente. Ne cito una che mi colpisce particolarmente:

«[…] mi capitò di vedere parecchi piccoli Seleniti imprigionati in certi vasi dai quali sporgevano soltanto le membra superiori. Quei piccini venivano adattati così a far funzionare certe macchine speciali, che esigono braccia molto sviluppate. Secondo questo sistema perfezionato di educazione tecnica, un solo organo viene stimolato con eccitanti e nutrito con iniezioni, mentre il resto del corpo resta privo di sussistenza. […] da principio le creature così stranamente trattate dimostrano di soffrire un poco per le incomode posizioni in cui sono immobilizzate, ma in seguito si adattano facilmente alla loro sorte. […] Confesso, pur sapendo di aver torto, che un tal sistema di preparazione forzata a funzioni particolari produsse in me un’impressione sgradevole. Ma spero di non tardare ad abituarmi a cose di questo genere e di poter vedere altri aspetti consimili di un’organizzazione sociale tanto ammirabile. Quelle povere braccia sporgenti da quei vasi sembravano protestare inutilmente e compassionevolmente. Ne sono ancora ossessionato, quantunque, pensandoci bene, si tratti d’un procedimento molto meno crudele del nostro metodo terrestre di lasciare che i fanciulli diventino uomini normali, che poi saranno trasformati in macchine…»

Forse senza esserne pienamente consapevole Wells adopera in maniera magistrale il concetto, che ricordo di aver appreso anni fa, di “bissociazione”, concetto introdotto da Arthur Koestler nel suo The Act of Creation (trad. italiana L’atto della creazione, 1964); la “bissociazione” consiste nel considerare una situazione o un’idea in base a due sistemi di riferimento in sé coerenti, ma di solito incompatibili tra loro. Quelle braccia che si sporgono dal vaso sono un efficace esempio di bissociazione, estremamente incisivo anche oggi. In quell’immagine sono racchiusi due sistemi di riferimento che si escludono l’uno con l’altro: i vasi sono fatti per conservare la marmellata, e la carne umana (o selenita…) non dovrebbe assumere la forma di un vaso. Ma questo tipo di immagini affollano il romanzo all’interno di una formidabile coerenza immaginativa. In questa fase della sua carriera Wells può usare la metafora dove, in seguito, la sua attività di conferenziere lo indusse invece a usare la predica. La metafora poggia la sua efficacia sul fatto di essere ambigua, e consente allo scrittore di portarsi altrove rispetto al suo tempo, alle sue condizioni sociali, e trascendere lo stesso concetto che voleva esprimere. I due protagonisti del viaggio alla Luna, possibile grazie alla scoperta di una lega metallica antigravità, la cavorite dal nome del suo scopritore, sono Bedford l’affarista egoista e avido e Cavor lo scienziato ingenuo e geniale.

Come è noto Wells trascorse cinque anni nella Fabian Society, l’influente gruppo socialista moderato fondato nel 1884 per promuovere un cambiamento graduale, che si impegnò in idee progressiste come la stessa “pianificazione razionale” che attrasse Wells. Gli schemi politici di Wells conservarono sempre qualcosa della nozione fabiana di socialismo di stato. In The First Man in the Moon è evidente quanto la visione di Wells fosse permeata da una tremenda ansia per i suoi stessi predicati. È tormentato dalla consapevolezza che il pensiero fabianista, apparentemente costruito sulla razionalità stessa, fosse in realtà costruito solo su una forma ristretta e psichicamente provinciale di razionalità opportunistica. Questa “razionalità” limitata e limitante è indelebilmente macchiata dalle irrazionalità di quello stesso capitalismo che il fabianismo deride, ma che in ultima analisi puntella. Per un pensatore di un certo rigore, il fatto che il capitalismo come sistema e le forme stentate di “razionalità” che lo supportano conducano a guerra, fame e sfruttamento con la stessa inevitabilità con cui conducono al “progresso” non può essere in definitiva spiegato come una anomalia. Ciò ha minato fondamentalmente una politica fondata sull’ineluttabile marcia della ragione, come Wells notò con disagio. Wells soffre la crisi di un fabianismo troppo intelligente.

La massima espressione di questa ansia si ebbe nel 1896 nel capolavoro di Wells, L’isola del dottor Moreau, una critica immanente di questa stessa “razionalità” e delle sue pretese di teleologia emancipatrice che Wells aveva sposato. In The First Man in the Moon, Wells gioca con la stessa ansia per spiazzare il lettore. L’emergere di quell’ambivalenza nei confronti della “pianificazione razionale” rende la satira vertiginosa. Senza mai cambiare la sua sostanza, la società selenita passa dall’essere il fulcro utopico delle nostre assurdità, a prefigurare il nostro orizzonte, alla minaccia di dove stiamo andando. Questa manovra letterariamente esemplare è una testimonianza non solo dell’abilità di Wells, ma dell’incubo da cui non riusciva a liberarsi. Le complessità della satira che rende The First Man in the Moon più di una semplicistica utopia o di un pesante “avvertimento” sono, quindi, il prodotto dell’incapacità di Wells di risolvere le proprie contraddizioni. La terribile consapevolezza di quel fallimento getta un’ombra sul finale del libro. Le ultime righe sono improvvisamente e spaventosamente violente. Scoprire la verità su di noi rende i Seleniti ciò che Bedford aveva erroneamente ritenuto fossero inducendolo a difendersi con violenza invece di cercare di comunicare. Noi stessi creiamo le nostre cattive coscienze, il nostro “selvaggio assassino”. La “razionalità”, nella sua forma moderna impersonata dai Seleniti, non solo non può essere una forza di emancipazione, ma contiene sempre il suo opposto, l’opposto che finisce per travolgere Cavor. In Moreau, il crollo della “razionalità” si esprime con la massima potenza nel crollo del linguaggio, prima in inni cantati e imparati a memoria, poi nei grugniti delle bestie.

Lo stesso crollo si verifica in The First Man in the Moon, sebbene in modo più sottile. I messaggi di Cavor dalla Luna si scompongono continuamente in frammenti a causa dei limiti del meccanismo di trasmissione: la scienza razionale non è all’altezza dell’inconoscibile – l’a-razionale – dello spazio, e il linguaggio fatica a mantenere l’integrità. Le ultime parole che Cavor invia sono un tentativo di impartire la conoscenza segreta della Cavorite stessa. E mentre chi legge è portato ad immaginare un epilogo violento e tragico, sono i mostri del sogno della nostra ragione che prevalgono. Anche l’ultima parola del messaggio: “Uless” è monca e si lascia solo intuire: “inutile”, poi tace. Il segreto della Cavorite stessa, la chiave della conoscenza, è il linguaggio collassato. Nel momento in cui il linguaggio, canale della razionalità, dovrebbe trasmettere la cosa più razionale di tutte, si degrada. Per Wells non c’è orrore peggiore di questo, e non sorprende che l’ironia, talvolta addirittura comica, del libro svanisca in quelle ultime pagine. Non assistiamo alla morte di Cavor. La morte del linguaggio, però – della razionalità stessa – avviene davanti a noi, proprio sulla pagina, mentre leggiamo “uless”. In definitiva, tutti gli orrori concreti della politica e dell’economia che Wells flagella nel romanzo – venalità, filisteismo, capitalismo e imperialismo – sono manifestazioni della terribile razionalità autocannibalizzante in cui Wells non può smettere di sperare, ma che sa fallirà, che fallisce sempre.

Presentiamo in questo e-book la traduzione di Decio Cinti che è certamente fedele e quasi integrale con l’omissione di pochi brevi paragrafi.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del libro:

Mentre mi seggo qui, per scrivere, all’ombra di una folta vite, sotto il bel cielo azzurro dell’Italia meridionale, ripenso con una specie d’ingenuo stupore che la mia partecipazione alle sorprendenti avventure del signor Cavor fu, in sostanza, il risultato di un caso semplicissimo.
La cosa avrebbe potuto capitare a qualsiasi altro individuo. Io mi trovai coinvolto in quella faccenda in un momento della mia vita nel quale mi credevo lontano da qualunque possibilità, anche minima, di esperimenti inquietanti. Mi ero recato a Lympne perché avevo immaginato che Lympne dovesse essere il luogo più tranquillo del mondo.
«— In questo paese, almeno, – avevo detto fra me quando vi ero arrivato – avrò quella pace che è tanto necessaria per lavorare».
Forse posso dire qui che poco prima d’allora avevo perso delle somme ingenti, in certe imprese sfortunate. Oggi, circondato da tutte le comodità della ricchezza, provo un certo piacere nel fare questa confessione.
In quel tempo ero giovane, e lo sono tuttora, in quanto all’età, ma tutto quello che m’accadde in seguito cancellò dal mio spirito tutto ciò che vi restava di troppo giovanile. Non è altrettanto certo che per gli avvenimenti in questione io sia diventato più saggio.

Scarica gratis: I primi uomini nella Luna di Herbert George Wells.