Gli occhiali

di
Neera

tempo di lettura: 11 minuti


Una tenda a rete di color turchino scuro separava la bottega dell’ottico dalla strada, invasa a quell’ora da un sole cocente che sembrava, anticipare l’estate quantunque non si fosse che in giugno.

Nella vetrina i canocchiali da teatro allineati simmetricamente, quelli di pelle nera, quelli d’avorio, quelli di madreperla, quelli di metallo, tutti ben lucidi e puliti, avevano l’aria di dormire, come accade in tempo di morta stagione, accanto alle lenti solite che si vendono tutti i giorni ed a certi complicati trabiccoli per studi speciali che facevano fermare i ragazzi curiosi sempre di ciò che non capiscono.

Tentavano anche i ragazzi di sbirciare nell’interno della bottega dove si rizzava sopra un cavalletto di legno un grande stereoscopio, ma la tenda a rete di color turchino scuro nello stesso modo che impediva alle mosche di entrare impedivalo pure agli sguardi dei piccoli indiscreti.

A un dato momento, tuttavia, sotto la pressione di una piccola mano serrata in un guanto di pelle di Svezia, la tenda si scosse e ondeggiò aprendo il passo ad una signora dall’aspetto semplice e distinto che scomparve subito nella penombra interna. Giungendo dalla caldura della strada il negozio presentava un ristoro di oasi che la signora avvertì subito con una lieve espressione di piacere nel bel volto pallido un po’ sfiorito.

— Le sue lenti non sono ancora pronte, – esclamò l’occhialaio da dietro il banco, sospendendo di frizionare con un pezzo di flanella un manico di tartaruga -; se ha la bontà di aspettare dieci minuti, un quarto d’ora al più…

— Benissimo, – fece la signora prendendo posto con tutto suo agio sopra un divanuccio collocato in fondo al negozio, fra due scansie che lo rinchiudevano isolandolo in una improvvisazione di cantuccio intimo assai attraente. – Non ho fretta e si sta bene qui.

Poi girò intorno gli occhi, calma, assorbendo la quiete dell’ambiente silenzioso e fresco come una biblioteca. Una scarsa luce quasi di tempio attraverso il turchino scuro della tenda le cui maglie filavano i raggi del sole, stendeva una specie di tessuto vaporoso dove non si muoveva un sol atomo di polvere. Dietro il banco il principale aveva ripreso a frizionare la sua tartaruga coi movimenti calmi e sapienti delle mani un po’ floscie avvezze alle cure meticolose dei piccoli oggetti fragili; era vestito di nero con una severità professorale e portava i capelli argentei lucidi e ben pettinati divisi da una parte in una riga così perfetta che sembrava tracciata con un regolo. Un misterioso rumore intermittente veniva dal retro-bottega, come di lima… ma poteva anche essere altra cosa.

La signora si accomodò meglio sul divanino, presa da una languida stanchezza che aveva il suo fascino in quel luogo raccolto, fra le bacheche ornate di piccoli istrumenti ignoti, di rigidi astucci d’onde luceva appena con un bagliore discreto il torso convesso di una lente o una sottile rilegatura d’oro. Un termometro dinanzi a lei segnava ventisette gradi; fuori dovevano essere più di trenta. Con una mano sulla bocca, la signora sbadigliò lievissimamente.

In quell’istante apparve nel negozio un signore di mezza età, o piuttosto di tre quarti d’età, molto ben conservato, ritto, elegante, il passo elastico, la pupilla viva; alla bottoniera del suo completo grigio occhieggiava un mazzolino di fiori azzurri da campo. Egli chiese che gli mostrassero un canocchiale da montagna, e intanto trasse fuori dal taschino del bianco panciotto un paio di «pincenez» da fare aggiustare.

— «Sprechen Sie deutsch»?

Il signore saltò indietro due passi al suono delle barbare parole pronunciate dietro di lui e lasciò libero il banco a un drappello di viaggiatori che sulla risposta affermativa dell’ottico vi si precipitarono ingombrando il negozio colle loro persone massiccie, i grossi piedi corti e le grosse faccione erubescenti. Vi erano nel drappello uomini, donne e qualche campione di sesso incerto; e tutti tenevano tanto posto che il signore non sapeva più dove mettersi.

— Scusi, sa, – gli disse il principale con un sorriso imbarazzato, – se non le dispiace attendere….

— Si figuri!

Retrocedendo fino in fondo al negozio, e voltandosi, il signore si trovò faccia a faccia colla signora.

— Oh!!

— Voi!!

Certo nessuno dei due alzandosi quel mattino avrebbe immaginato di dover mettere fra i casi della giornata il singolare incontro. D’ambo le parti la sorpresa fu tanto schietta quanto piacevole; se lo dissero subito prima cogli occhi, poi con una stretta di mano lunga, cordiale….

Fu la signora che ritraendo la manina ed arrossendo un poco colla grazia che alcune donne conservano anche quando non sono più giovani mormorò piano:

— Da quanto tempo non ci vediamo più!

— Da quanto!

L’istante di silenzio che seguì fu impiegato da ognuno dei due a un breve calcolo mentale. Il signore disse:

— Ma vi ritrovo la stessa.

— Oh! prego….

— Sì sì, vi assicuro, la stessa, – soggiunse con accento commosso, – almeno per me.

— Sempre galante.

— Dite fedele.

— Questo mi sembra un po’ troppo, via!

— Secondo ciò che si intende per fedeltà. Credete che….

— Ma anche voi state benissimo, – interruppe vivacemente la signora, – non soffrite più quei terribili mali alla testa?

— No. Da quando mi sono ritirato in campagna la mia salute si è rinnovata.

— Vivete in campagna adesso? Così si spiega perchè non ci siamo incontrati più.

— Veramente vengo spesso in città, ma piccole corse, scappate come questa per comperare gli occhiali.

La signora si morse le labbra con un sospiro doloroso.

— Io so a che cosa pensate, – continuò lui. – Volete che ve lo dica? Pensate al tempo in cui la mia vista, era così buona che in piena notte scrivevo versi d’amore per gettarli nella vostra fines….

— Anche la mia vista si è indebolita assai. Ho durato fatica a servirmi delle lenti, non potevo abituarmi. Fu l’oculista che me le impose. Che fare? Convenne rassegnarsi.

— Piccole miserie del resto quando gli occhi si conservano belli.

La signora abbassò i suoi, non sapendo come prendere il complimento che quantunque indiretto era stato accompagnato da una mimica troppo espressiva per non appropriarselo. Del resto ella sapeva perfettamente che i suoi occhi erano ancora belli e che tutta la sua persona, favorita da una grazia speciale, resisteva vittoriosamente alle insidie dell’età. Non si dice che non vi contribuisse un uso moderato e sapiente delle risorse che la civiltà offre alle donne ma infine, poichè il risultato era buono, nessuno poteva dolersene.

La banda dei tedeschi intanto aveva messo a soqquadro il negozio e il principale che appunto in quell’ora si trovava solo aveva il suo bel da fare ad accontentare tutti.

Con un gesto gentile la signora additò il posto vuoto sul divano.

— Credo che dovremo aspettare ancora un poco.

— Nè io me ne dolgo! – esclamò il signore sedendosi rapidamente accanto alla signora.

— Una volta non vi piaceva la campagna….

— Una volta. Ohimè si cambia. Non potete credere quale piacere io provi ora nella solitudine dei prati o coltivando i fiori del mio orto…. Fiori e frutti.

— Anche i frutti?

— Vi scandalizzerò. Ho un pollaio.

— Allevate le galline?

— Non le allevo precisamente ma il chiccherichì del gallo è una musica che mi innamora.

— In fatto di musica almeno converrete che non siete fedele. Vi piaceva tanto una volta «La stella confidente».

— Mi piace ancora ma, capite, non ho più nulla da confidarle. E voi siete ancora mondana come lo eravate al tempo in cui mi toccava cercarvi di festa in festa, di teatro in teatro…. pazzamente, solo per scambiare uno sguardo, una parola, una stretta di mano?

— Non vado quasi più in società. Non siete persuaso che alla lunga vi si annoia?

— A chi lo dite!

— Sono sempre gli stessi discorsi inconcludenti e vuoti. Se volete parlare sul serio di un argomento nuovo vi guardano come una bestia rara e il meno che vi tocca è di sentirvi dare dell’originale. In teatro è peggio. Vi divertite forse voi agli spettacoli moderni?

— Ho rinunciato assolutamente al teatro. Assisto alle nuove produzioni seduto nella mia poltrona e leggendo quello che ne scrive il mio giornale. Non andiamo sempre d’accordo sugli apprezzamenti ma almeno se mi scappa detto che l’autore è un asino ciò non ha conseguenze.

— Vi ricordate il duello che aveste a proposito di Sbarbaro? Quanto ho tremato per voi!….

— Grazie, cara. Sarebbe stata una morte ben sciocca. Ho cambiato radicalmente di opinione.

— Eravate così bollente allora, così pronto ad accendervi, a lottare per le vostre idee….

— Non lotto più; lascio che ognuno pensi a suo modo o non pensi affatto. Purchè non vengano a gettar sassi nel mio pollaio ed a rovinarmi l’erba novellina del mio prato, piena libertà a tutti di fare o di disfare il mondo.

— Non è un po’ di egoismo questo?

— Tutto è egoismo negli uomini. Quando agivo diversamente non era forse per obbedire al mio gusto d’allora? Il mio egoismo aveva un altro colore, ecco tutto. Ma, ditemi la verità, avete proprio tremato per me quando dovevo battermi?…

La domanda inaspettata ricondusse una leggera fiamma sulle guancie della signora che ne parve ringiovanita. Rispose subito:

— Ne dubitate?

— Tremato veramente? tremato per il timore di perdermi?…

— Per che cosa dunque?

Il signore assaporò per un attimo le dolci parole, ma non potè impedire che l’aspide nascosta tra i fiori non desse il suo sibilo. Involontariamente sussurrò, piano, guardandola sotto le ciglia:

— E Viviani?

— Dio mio! – fece la signora congiungendo le palme, – sareste ancora geloso?

— Non ne ho più il diritto, ma lo fui, lo fui terribilmente!

Egli continuava a fissarla sperando forse un diniego che non venne. Soggiunse allora con amarezza:

— Eravate tanto coquette….

— Io?!

— Ma sì, lo siete anche in questo momento. Non vi compiacete forse delle mie torture retrospettive?

— Tanto retrospettive che non devono più torturarvi affatto. (Così disse ironicamente la signora).

Il signore reclinò la fronte mordendo il pomo della sua canna. Per qualche minuto nessuno dei due parlò. Fu egli che riprese:

— Io passai notti di inferno pensando a quell’uomo che abitava presso a voi, che poteva vedervi a tutte le ore, che vi amava…. certamente vi amava.

Invece di rispondere la signora aperse e chiuse per ben due volte il suo ventaglio, poi, come colpita da un ricordo improvviso, chiese:

— Non facevate voi la corte un poco a vostra cugina Amelia?

— Che cattiva! Che cattiva!

— Già, noi siamo sempre cattive quando non vogliamo prestarci al vostro giuoco. Vi piacerebbe ora di rendermi responsale di quel che avvenne fra noi, ma io preferisco, poichè il destino di ciascuno è ineluttabile e il sogno che abbiamo sognato insieme non si tradusse in realtà, preferisco di questo nostro incontro così fortuito portare con me un dolce ricordo. Volete perdonarmi i torti che ho potuto avere, mentre io mi sento così bene disposta ad assolvervi di quelli che per avventura potreste avere voi stesso?

Il signore alzò gli occhi verso la porta. Una nuvola oscurava il sole e dalle maglie della tenda la luce più pallida sembrava sostenere un velo nell’aria. I tedeschi erano partiti; anche il principale non si trovava più al suo posto dietro il banco. Erano soli. I vetruzzi, le tartarughe, gli ori tutt’all’ingiro splendevano delicatamente colla moderazione di filosofi che sanno la vita.

Il signore che adagio adagio aveva ripresa la mano della signora vi depose un bacio lieve e lungo.

— La vostra generosità mi fa doppiamente rimpiangere ciò che ho perduto.

— No, non rimpiangete nulla, la felicità è fatta di transazioni.

— Vi ho conosciuta così piena di fede nell’assoluto!

— È vero. L’assoluto è l’ideale dei vent’anni; poi si comincia a transigere coll’amore che non è mai quello che si immaginava….

Il signore volle interrompere ma la signora continuò:

— … coll’amicizia di cui si scoprono a poco a poco i doppi fondi innumerevoli e sempre più ristretti, come quelle ingegnose scatole giapponesi che vi presentano un uovo e ne contengono sette od otto; con noi stessi infine quando all’apparire del primo capello bianco lo strappiamo, o lo tingiamo, o facciamo il possibile per nasconderlo, o rassegnandoci pensiamo che la tinta grigia nelle chiome non è poi quella spiacevole cosa che pretendono i pessimisti. Guardate il mio cappello, come vi sembra? Io ho sempre abborrito il colore viola, eppure alla mia età devo subirlo.

— Il vostro cappello è delizioso e il color viola vi si addice magnificamente; ma lasciatemi dire, amica mia, che se le vostre comparazioni tra l’assoluto e il relativo mi persuadono abbastanza ve ne è una che desidererei discutere. Avete affermato con una crudele sicurezza che l’amore non è mai come lo si immagina. Forse il primo amore….

— Ogni amore è un primo amore.

— Il motto è profondo. Pure, non vi sembra che (diciamo la prima volta) appunto perchè si parte dall’assoluto è ovvio che si cada nel relativo, mentre può accadere che più tardi, quando abbiamo fatta nostra la teoria, delle transazioni, ci aspetti la gradevole sorpresa di un assoluto…. o quasi.

La signora rise di un morbido riso smorzato:

— Quel quasi, amico mio, guasta tutto. Credete a me, quando si è perduta la fede nell’assoluto e che noi stessi non abbiamo più nulla di assoluto è meglio rinunciare all’amore.

— Che è mai allora la vita?! – esclamò il signore con impeto.

— Vi sono dei compensi, – rispose a bassa voce la signora.

— Nominatene uno.

— Quest’ora.

— Ecco il «lorgnon», – disse il principale sbucando dal retro-bottega, – chiedo scusa di aver fatto aspettare tanto.

— Ah! – mormorò sommesso il signore all’orecchio della signora che si era alzata prontamente, – se voleste essere ancora quella di una volta!

Ella prese il «lorgnon» dalle mani del principale piegando il capo con un movimento pieno di grazia e di malinconia:

— Mi chiedete l’impossibile.

— Perchè?

— Perchè io una volta guardavo il mondo coi miei begli occhi….

— Che sono sempre belli.

— Forse. Ma vedete questi vetruzzi? non posso più farne senza ora e gli occhiali, amico mio, sono essi che fanno guardare il mondo in un altro modo!

Fine.


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TITOLO: Gli occhiali
AUTORE: Neera

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: La sottana del diavolo/ di Neera – Milano : Fratelli Treves, 1912

SOGGETTO: FIC004000 FICTION / Classici