di
Le mille e una notte
Novelle arabe

Storia del facchino di Bagdad

tempo di lettura: 17 minuti


Eravi a Bagdad un facchino, il quale ad onta, del suo abbietto e penoso mestiere, non lasciava d’esser uomo spiritoso ed allegro. Un bel mattino trovandosi con un gran paniere in una piazza aspettando che qualcuno avesse bisogno dei suoi servizi, una signora di bell’aspetto gli si avvicinò e gli disse con grazia:

— Su, facchino, prendete il paniere e seguitemi.

Dapprima la donna si fermò davanti una porta e picchiò. Un cristiano, che sapea ciò ch’ella domandava portò una grossa brocca di eccellente vino.

— Prendete questa brocca – disse la signora al facchino – mettetela nel vostro paniere.

Si fermò poi alla bottega di un venditore di frutta e di fiori, ov’ella scelse molti frutti e fiori, e disse al facchino di metter tutto nel paniere e di seguirla.

Passando davanti la bottega di un beccaio, si fece pesare venticinque libbre di carne, e il facchino, per suo ordine, la pose pure nel paniere.

Entrò dentro un droghiere e si fornì di ogni sorta di acque odorifere, di moscata, di pepe, di zenzero, di grossi pezzi d’ambra grigia e di molte altre spezie delle Indie.

Camminarono fino a che giunsero ad un albergo magnifico la cui facciata era ornata di belle colonne ed avea una porta d’avorio. Ivi arrestatisi, la signora picchiò leggermente.

— Entrate, sorella – disse la portinaia.

Come fu entrata col facchino, la signora la quale aveva aperto l’uscio, lo chiuse, e tutti e tre, dopo aver traversato un bel vestibolo passarono in un cortile spaziosissimo, circondato da una loggia che metteva in molti magnifici appartamenti a pian terreno.

Eravi nel fondo di questa corte un sofà riccamente guarnito con un trono di ambra nel mezzo, sostenuto da quattro colonne. Nel mezzo della corte eravi una gran fontana.

Il facchino pensò, dai riguardi che le due donne avevano per una terza, che quella dovesse essere la più influente e non s’ingannava. Questa signora si chiamava Zobeida, quella che aveva chiusa la porta chiamavasi Sofia, e Amina era il nome di quella che aveva fatte le provviste.

Zobeida disse alle due donne, avvicinandosi:

— Sorelle mie, non vedete che questo buon’uomo soccombe al fardello che porta?

Allora Amina e Sofia presero il paniere, l’una dinanzi l’altra di dietro; Zobeida vi pose anch’ella la mano, e tutte e tre lo posarono a terra. Cominciarono a vuotarlo, e ciò fatto, la graziosa Amina tolse del danaro e pagò il facchino.

Questi molto soddisfatto del denaro avuto, non avrebbe dovuto che prendersi il paniere e ritirarsi: ma non poté risolversi a far ciò, sentendosi involontariamente arrestato dal piacere di ammirare tre bellezze sì rare che gli pareano egualmente incantevoli; poiché avendo Amina tolto il suo velo, non gli sembrava meno bella delle altre.

Zobeida credette dapprima che il facchino si arrestasse per prender fiato: ma vedendo ch’ei restava lungo tempo, gli disse:

— Che aspettate? Non siete stato pagato a sufficienza? Sorella – soggiunse volgendosi ad Amina – dategli qualche altra cosa acciò se ne vada contento.

— Signora – rispose il facchino – non è questo che mi trattiene; son pagato sin troppo della mia fatica. Veggo bene che ho commesso un’inciviltà rimanendo qui più del dovere; ma spero che avrete la bontà di perdonare alla sorpresa che mi cagiona di non veder qui alcun uomo, con tre donne di una bellezza sì poco comune.

Le donne risero del ragionamento del facchino; indi Zobeida gli disse d’un tuono serio:

— Amico, voi spingete un po’ troppo la vostra indiscretezza: pur tuttavolta voglio dirvi che noi siamo tre sorelle che facciamo così segretamente i fatti nostri, che nessuno ne sa nulla. Abbiamo gran ragione di temere di farne parte agl’indiscreti.

— Signore mie, – riprese a dire il facchino – quantunque la fortuna non mi abbia dato ingegno per elevarmi ad una professione al di sopra della mia non ho mancato di coltivarmi lo spirito, per quanto ho potuto colla lettura di libri: e mi permettete di dirvi che ho letto in un autore la massima che ho sempre praticata con successo, ed è questa: «Non ascondiamo il nostro segreto che a gente conosciuta da tutti per indiscreta e che abuserebbe della nostra confidenza: ma non abbiamo nessuna difficoltà di scoprirlo ai saggi, essendo persuasi che sapranno mantenerlo».

Zobeida conobbe che il facchino non mancava di spirito, ma giudicando che avesse desiderio di partecipare al divertimento che voleano pigliarsi, gli ripeté sorridendo:

— Voi sapete che ci prepariamo a divertirci: ma sapete ancora che abbiamo fatto una spesa considerevole, e non è giusto che senza contribuirvi possiate essere della partita.

Il facchino a queste parole, voleva restituire il denaro ricevuto: ma Zobeida gli ordinò di conservarlo.

— Ciò ch’è una volta uscito dalle nostre mani – diss’ella – per compensare quelli che ci han resi dei servigi, non ritorna più!…

Zobeida dunque, non volle affatto riprendere il denaro del facchino, ma invece gli disse:

— Amico mio, acconsentendo che restiate con noi. vi avverto che non è solo a condizione di guardare il segreto, ma pretendiamo eziandio che osserviate le regole della decenza e della cortesia.

Mentre dessa teneva questo discorso, la vezzosa Amina lasciato il suo abito di città succinse la sua veste per operar con più libertà e preparare la tavola. Apparecchiò molte specie di vivande e sopra una credenza pose delle bottiglie di vino e delle tazze d’oro. Fatto ciò le donne si adagiarono, e fecero sedersi a fianco il facchino.

Dopo i primi bocconi, Amina prese una bottiglia e una tazza, si mise a mescere, e bevve la prima. Versò in seguito alle sue sorelle, che bevvero l’una dopo l’altra; poi riempiendo per la quarta volta la stessa tazza, la presentò al facchino che, ricevendola, baciò la mano d’Amina e cantò, prima di bere, una canzone.

Questa canzone rallegrò le signore, che cantarono alla lor volta. Infine la compagnia fu lietissima durante il pasto, che durò lunghissimo tempo.

Il giorno finiva, quando Sofia disse al facchino:

— Alzatevi, partite, ch’è tempo di ritirarvi.

Il facchino, non potendo risolversi a lasciarle, rispose:

— Eh! care signore, dove volete ch’io vada nello stato in cui sono? Son fuor di me a forza di bere e di vedervi. Non troverò certo la via della mia casa. Lasciatemi la notte per rimettermi; la passerò dove vorrete: ma non mi bisogna un tempo minore per ritornare nel medesimo stato in cui era quando sono entrato da voi.

Amina prese una seconda volta la parte del facchino, e disse:

— Sorelle, egli ha ragione: ci ha molto divertite; se mi amate quanto ne sono persuasa, riteniamolo per passare la sera con noi.

— Sorella – disse Zobeida – non possiamo rifiutar nulla alla vostra preghiera: e dirigendosi al facchino, disse:

— Vogliamo benanche farvi questa grazia: ma vi apponiamo una nuova condizione: qualunque cosa faremo in vostra presenza, o per riguardo a noi, o per altro, guardatevi bene di aprire solamente la bocca per domandare la ragione: dappoiché, facendoci domanda su cose che non vi riguardano per nulla, potreste intendere quello che non vi piacerebbe.

— Signore – riprese il facchino – la mia lingua in questa occasione starà immobile ed i miei occhi saranno come uno specchio che non ritiene nulla delle immagini ricevute.

— Per mostrarvi – rispose Zobeida molto seriamente – non esser di fresco stabilito fra noi ciò che vi domandiamo, alzatevi e andate a leggere ciò che sta scritto al di sopra della nostra porta inferiore.

Il facchino andò fin là e lesse queste parole scritte a caratteri d’oro: «Chi parla di cose che non lo riguardano, sente ciò che non gli piace».

Amina arrecò la cena: e quand’ebbe rischiarata la sala con molti lumi di legno d’aloè e d’ambra grigia, si assise a tavola con le sorelle ed il facchino.

Cominciarono a mangiare, a bere, a cantare e a recitar versi; erano nella migliore allegria del mondo, quando intesero picchiare la porta…

Le dame sentendo battere, si levarono tutte ad un tempo per andare ad aprire: ma Sofia, ch’era addetta particolarmente a ciò, fu la più diligente.

Sofia tornò e disse:

— Sorelle, si offre un’occasione di passar lietamente gran parte della notte, e se siete del mio parere, non ce la lasceremo sfuggire. Vi sono alla nostra porta tre Calender, almeno all’abito sembrano tali: ma ciò che vi sorprenderà è che han rasa la testa, la barba e le sopracciglia, e son ciechi dall’occhio destro. Dicono di esser giunti or ora a Bagdad, ove non sono mai venuti, e siccome per la notte non sanno dove alloggiare, hanno picchiato a caso alla nostra porta, e ci pregano per l’amor di Dio di aver la carità di riceverli. Sono giovani, gentili, sembra ch’abbiano molto spirito, ma non posso pensar senza ridere alla loro figura ridicola.

Qui Sofia s’interruppe con uno scroscio di risa tale che le altre sorelle e il facchino non poterono fare a meno di far lo stesso.

— Sorelle – riprese – vogliamo farli entrare?

— Andate dunque – disse Zobeida – fateli entrare. Ma avvertiteli di non parlar di ciò che non li riguarda, e fate che leggano quanto sta scritto sulla porta.

Allora Sofia corse lieta ad aprire, e poi tornò coi tre Calender.

I tre Calender, entrando, s’erano inchinati profondamente alle dame, le quali s’erano alzate per riceverli e dar loro il benvenuto.

Quando i Calender furono seduti a tavola, le signore porsero loro da mangiare, e la graziosa Sofia si prese la cura particolare di versar loro da bere.

Dopoché i Calender ebbero bevuto e mangiato a discrezione, si offersero di dare alle dame un concerto di musica se avevano istrumenti. Liete elleno accettarono e la bella Sofia si alzò per andarli a cercare. Tornò subito e loro presentò un flauto del paese, un altro alla persiana ed un tamburo basco. Ogni Calender ricevette di sua mano l’istrumento e cominciarono tutti e tre a suonare un’aria.

Le donne, che sapevano delle parole su quell’aria dolcissima, l’accompagnarono colla voce, ma di tratto in tratto s’interrompevano con grandi scoppi di risa.

Al più bel punto di questo divertimento e quando la compagnia era nella massima gioia, si picchiò alla porta.

Sofia cessò di cantare, e andò a vedere chi fosse. Il califfo Haroun-al-Rascid usando camminare spessissimo incognito la notte, per sapere da se stesso se tutto fosse tranquillo nella città, e se vi si commettessero disordini, in quella notte era uscito di buon’ora accompagnato da Giafar suo gran Visir, e da Mesrour capo degli eunuchi di Palazzo tutti e tre travestiti da mercanti.

Passando per la strada delle tre donne, questo Principe, udendo il suon degl’istrumenti e delle voci, e gli scrosci di risa, disse al Visir:

— Picchiate a quella casa; ove si fa tanto rumore; voglio entrare per saperne la cagione.

Sofia aprì, e il Visir, osservando alla luce d’una candela tenuta da lei ch’era una donna bellissima, sostenne molto bene la sua parte, le fece una profonda riverenza; e le disse rispettosamente:

— Signora, noi siamo tre mercanti di Mussul, arrivati da circa dieci giorni con ricche mercanzie che abbiamo in magazzino dentro un klan, avendo noi udito, passando voci e strumenti, abbiamo giudicato che si fosse ancora in veglia in casa vostra, e ci siamo presi la libertà di pregarvi a darci ricovero fino a giorno.

Durante il discorso di Giafar la bella Sofia ebbe il tempo di esaminare colui che le parlava e le due persone ch’ei diceva mercanti come lui: e giudicando dalla fisionomia che non erano persone volgari, disse loro di non esser la padrona, ma se volevano aspettare un momento, ella tornerebbe a portar la risposta. Sofia andò a far rapporto alle sorelle, le quali essendo benigne per natura ed avendo già fatta la stessa grazia ai Calender, risolvettero di farli entrare.

Il Califfo, il suo gran Visir, ed il Capo degli eunuchi, essendo stati introdotti dalla bella Sofia, salutarono le dame e i Calender molto cortesemente. Le dame corrisposero egualmente credendoli mercanti, e Zobeida, disse loro con tuono grave e serio come a lei conveniva:

— Siate i benvenuti! Ma prima di tutto non abbiate a male se vi domandiamo una grazia.

— E qual grazia, signora? – rispose il Visir – Puossi rifiutar cosa alcuna a donne sì belle?

— Si è – disse Zobeida – di aver occhi e non lingua; di non farci domande su quel che vedrete, per saperne la cagione, e di non parlare di ciò che non vi riguarderà, per tema non sentiate quello che non può esservi gradito.

— Sarete obbedita, signora – riprese il Visir.

A tali parole ciascuno si assise, la conversazione proseguì e cominciossi a bere in onore dei nuovi venuti.

La conversazione essendo caduta sui divertimenti e le differenti specie di sollazzarsi, i Calender si alzarono e ballarono a loro uso una danza, cui accrebbe nelle dame il buon concetto che avevano di loro, e attirarono la stima del Califfo e della sua compagnia.

Terminata la danza, Zobeida si alzò, e prendendo Amina per la mano le disse:

— Sorella alzatevi; alla brigata non dispiacerà se non usciamo dal nostro sistema, e la loro presenza non s’opporrà a ciò che siamo usate di fare.

Amina, che comprese ciò che voleva dire sua sorella, si alzò e tolse i piatti, la tavola, le bottiglie, le tazze e gl’istrumenti.

Sofia non istette senza far nulla.

Spazzò la sala, pose al suo luogo ogni cosa disordinata, smoccolò i lumi, vi mise altro legno d’aloè ed altr’ambra grigia. Ciò fatto, pregò i tre Calender di sedersi sul sofà da un lato ed il Califfo dall’altro coi suoi compagni. Al facchino disse:

— Alzatevi e preparatevi a darei aiuto a quel che faremo; un uomo oramai famigliare come voi siete, non deve starsi inoperoso.

Il facchino avendo alquanto digerito il suo vino si alzò subito.

— Eccomi pronto, di che si tratta?

Poco dopo si vide comparire Anima con un sedile, che posò in mezzo alla sala, andò poi alla porta di un gabinetto, ed apertala fece segno al facchino di appressarsi, e gli disse:

— Venite ad aiutarmi.

Egli obbedì, ed essendo entrato un momento con lei uscì un momento dopo seguito da due cagne nere col guinzaglio attaccato ad una catena ch’ei teneva fra le dita.

Allora Zobeida andò con gravità fin dov’era il facchino.

— Ora, – diss’ella – facciamo il nostro dovere.

Si nudò le braccia fino al gomito, e dopo aver preso una frusta che le presentò Sofia, disse:

— Facchino, date una di queste cagne alla sorella Amina, e appressatevi a me con l’altra.

Il Facchino eseguì l’ordine datogli, e quando fu presso a Zobeida, la cagna ch’ei teneva cominciò a guaire, e si volse ver di essa, alzando la testa in modo supplichevole: ma Zobeida senza curarsi della cagna che faceva pietà, né dei gridi che riempivano tutta la casa, le diede tanti colpi che stancatasene gettò la frusta per terra; poi, togliendo la catena dalle mani del facchino, alzò la cagna per le zampe, e mettendosi ambedue a guardare di un’aria commovente e triste, piansero ambedue. Finalmente prese il fazzoletto, asciugò le lagrime della cagna, la baciò, e rimettendo la catena al facchino, gli disse:

— Andate, riconducetela dove l’avete presa, e menatemi l’altra.

Il facchino ricondusse la cagna frustata nel gabinetto, e ritornando prese l’altra dalle mani di Amina e la presentò a Zobeida.

— Tenetela come la prima, – gli disse: poi, avendo ripigliata la frusta la maltrattò nell’istesso modo.

Pianse in seguito con lei asciugò le sue lacrime, la baciò, e la diede al facchino, a cui la graziosa Amina risparmiò la pena di rimetterla nel gabinetto, perché se ne incaricò essa medesima.

Zobeida restò per qualche tempo al medesimo sito in mezzo alla sala come per rimettersi dalla fatica durata frustando le due cagne.

— Cara sorella – le disse Sofia – non volete tornare al vostro luogo, affinché io faccia a mia volta il mio compito?

— Sì – rispose Zobeida.

Ciò dicendo andò a sedersi sul sofà.

Sofia, ch’era seduta sul sedile in mezzo alla sala, disse alla sorella Amina:

— Cara sorella capite bene ciò che voglio dire.

Amina si alzò, ed andò in un gabinetto differente da quello d’onde erano uscite le cagne.

Tornò, tenendo un astuccio guarnito di raso giallo, abbellito di un ricco ricamo d’oro e di seta verde. Si appressò a Sofia ed aprì l’astuccio d’onde trasse un liuto, e glielo presentò.

Essa lo prese, e cominciò a toccarlo: ed accompagnando la sua voce cantò una canzone sui tormenti dell’assenza, con tanta dolcezza, che tutti ne furono incantati.

Quando ebbe terminato disse alla graziosa Amina:

— Tenete, sorella, non ne posso più, mi manca la voce: divertite la compagnia suonando e cantando in mia vece.

— Volentieri – rispose Amina appressandosi a Sofia che le porse il liuto cedendole il posto.

Amina avendo un poco preludiato per vedere se lo strumento era accordato, suonò e cantò sul medesimo soggetto, ma con tanta veemenza che terminando le vennero meno le forze.

Zobeida volle farle osservare la sua soddisfazione e le disse:

— Sorella, voi avete fatto maraviglie! Si scorge chiaro che sentite il male da voi espresso sì vivamente.

Amina non ebbe il tempo di rispondere a questa cortesia. Essa si sentì il cuore sì angustiato, che pensò a prender respiro, lasciando vedere a tutta la compagnia un seno, non bianco quale avrebbe dovuto averlo una donna come lei, ma tutto pieno di cicatrici, le quali produssero una specie d’orrore nell’animo degli spettatori.

Nulladimeno ciò non le diede alcun sollievo, né le impedì di svenire…

Zobeida e Sofia corsero tosto a soccorrere la sorella e uno dei Calender non poté astenersi dal dire:

— Avremmo preferito dormire allo scoperto, anziché entrar qui a vedere simili spettacoli.

Il Califfo, che lo intese, dirigendosi a loro disse:

— Che vuol dir ciò?

Quegli che aveva parlato rispose:

— Signore, non lo sappiamo neppur noi.

Uno dei Calender fe’ segno al facchino di appressarsi, e gli domandò se sapesse perché le cagne nere erano state frustate e perché il seno di Amina sembrava lacerato.

— Signore – disse il facchino – posso giurare nel gran Dio vivente, che se voi non sapete nulla di ciò, non ne sappiamo più gli uni degli altri.

Il Califfo, risoluto di appagar la sua curiosità a qualunque costo, disse agli altri:

— Ascoltate: poiché siamo sette uomini, e non abbiamo a fare che con tre donne, obblighiamole a darci gli schiarimenti che desideriamo: se mai vi si oppongono, siamo nello stato di costringervele.

Il Visir tirò da parte il Califfo, e parlandogli sommessamente gli disse:

— Signore, Vostra Maestà abbia un poco di pazienza, perché la notte non durerà molto tempo. Domattina verrò a prendere queste donne, le menerò dinanzi al trono, e saprete da loro quanto vi piacerà.

Quantunque questo consiglio fosse molto savio, il Califfo lo rigettò.

Si quistionava chi dovesse pigliar la parola.

Il Califfo cercò di far parlare prima i Calender; ma essi se ne scusarono. Infine convennero tutti che parlasse il facchino.

Questi si preparava a fare la fatal domanda, quando Zobeida, dopo aver soccorso Amina, ch’era rinvenuta dallo svenimento, si appressò ad essi, e poiché gli aveva intesi a parlare alto e con calore, disse loro:

— Signori, di che parlate voi? Qual è la vostra disputa?

Il facchino allora parlò:

— Signora – disse – questi signori vi supplicano di voler loro spiegare perché dopo aver maltrattate le vostre due cagne, avete pianto con esse: e donde viene che la donna svenuta ha il seno coperto di cicatrici?

Zobeida a queste parole prese un fiero atteggiamento e disse:

— Prima di accordarvi la grazia di ricevervi, vi abbiamo imposto la condizione di non parlar di ciò che non vi riguardava, per paura di non ascoltare quel che non vi piacerebbe. Dopo avervi trattati nel miglior modo possibile, voi avete mancato alla parola; il vostro procedere non è gentile.

Dette queste parole, batté tre volte coi piedi e colle mani, e gridò:

— Presto, venite!

Tosto si aprì una porta, e sette schiavi negri forti e robusti entrarono colle sciabole in mano. Presero uno per uno i sette uomini della compagnia li gettarono a terra, li tennero in mezzo alla sala, e si prepararono a troncar loro la testa.

È facile immaginare quale fosse lo spavento del Califfo.

Intanto uno degli schiavi, disse a Zobeida e alle sorelle:

— Alte, potenti e rispettabili signore, non comandate di tagliar loro il collo?

— Aspettate – disse Zobeida – bisogna che io prima gl’interroghi.

— Signora, – interruppe il facchino – in nome di Dio, non mi fate morire per l’altrui delitto: io sono innocente, essi sono colpevoli.

Zobeida, ad onta della sua collera, non poté trattenere in sé il riso ai lamenti del facchino; ma senza arrestarsi a lui, rivolse le parole agli altri, e disse:

— Rispondete e ditemi chi siete: altrimenti non vi resta che un sol momento di vita.

Il Califfo disse leggermente al Visir che gli era vicino, di chiarir subito chi egli era. Ma il Visir, prudente e saggio, volendo salvare l’onor del suo padrone, e non render pubblico il grande affronto che esso stesso procuravasi, rispose soltanto:

— Noi lo meritiamo.

Ma ancorché per obbedire al Califfo, avesse potuto parlare, Zobeida non gliene avrebbe dato il tempo. Essa erasi già diretta ai Calender e vedendoli tutti e tre ciechi domandò loro s’erano fratelli.

Uno di essi rispose per tutti:

— No, signora, noi non siamo fratelli per sangue, ma per la qualità di Calender, cioè osservanti di un medesimo genere di vita.

— Voi – rispose ella parlando ad uno solo – siete nato cieco?

— No, signora – quegli rispose – lo sono per una avventura così sorprendente, che ognuno ne profitterebbe se fosse scritta.

Zobeida fece la stessa domanda ai due altri Calender, che le fecero la stessa risposta del primo, ma l’ultimo che parlò aggiunse:

— Per farvi conoscere, signora, che non siamo persone volgari, ed affinché abbiate qualche considerazione per noi, sappiate che siamo figli di Re.

A tal discorso Zobeida moderò la sua collera e disse agli schiavi:

— Date loro un poco di libertà: ma restate qui. A quelli che ci racconteranno la loro istoria adducendoci il motivo della loro venuta in questa casa, non farete alcun male, ma non risparmierete coloro che rifiuteranno di soddisfarci.

Il facchino, avendo compreso che non si trattava se non di raccontar la sua istoria, per liberarsi da sì gran pericolo, primo di tutti parlò:

— Signora, voi sapete già la mia storia e la cagione che mi condusse in casa vostra. Perciò quanto vi debbo raccontare sarà subito terminato.
La signora vostra sorella, mi ha preso stamattina in piazza, ove, in qualità di facchino, aspettavo che alcuno mi adoperasse per guadagnarmi il vitto. L’ho seguita alla bottega d’un venditore di erbe, di un venditore di aranci, limoni e cedri; poi a quella di un venditore di mandorle, di noci, di avellane ed altri frutti; indi presso ad un altro confettiere ed un droghiere. E con in testa il paniere, venni qui, e voi avete avuto la bontà di soffrirmi finora. Questa è una grazia che ricorderò eternamente, ecco la mia storia.

Quando il facchino ebbe terminato, Zobeida soddisfatta gli disse:

— Salvati, vanne e fa’ che non ti veggiamo più!

Dopo di lui uno de’ tre Calender, cominciò in tal guisa la sua istoria.

Continua…


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TITOLO: Storia del facchino di Bagdad

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Le mille e una notte : novelle arabe. - Milano : Bietti, [1934]. - 541 p. : ill. ; 19 cm.

SOGGETTO:
FICTION PER RAGAZZI / Fantasy e Magia
FICTION PER RAGAZZI / Leggende, Miti, Fiabe / Generale