Forze occulte

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 7 minuti


Piegata sul suo piccolo registro, la signorina Giovanna, levatrice, faceva i conti dei suoi proventi mensili. Era, nel pietroso paese di montagna, la sola donna che, oltre la maestra di scuola, guadagnava: anzi, quella che guadagnava di più. Ed era bella, giovane, forte: e, anche questo conta, onestissima. Eppure il fidanzato l’aveva piantata: perché la famiglia di lui, sebbene povera e a suo carico, cioè del suo magro stipendio di segretario del Comune, non solo si era opposta ai suoi progetti amorosi, ma lo aveva persuaso a sposare una cugina, anche lei senza dote e per di più malaticcia: così l’onore della casta era salvo.
Poiché la signorina Giovanna, di altro paese, era figlia, si diceva, di un domatore di cavalli.

Si era di giugno: mese laborioso, per lei; i paesani del luogo si sposavano quasi tutti a settembre, forse perché cominciava il fresco forse perché le raccolte erano finite e le vigne non allignavano nei terreni intorno, forse perché ricorreva la festa del paese. Giovanna aveva assistito tre spose novelle e una matrona al suo decimo figlio: e poi ce n’erano altre, e fra le altre quella, la sposa del suo traditore. Ma per costei ancora non era stata chiamata, e forse non lo sarebbe: si preferiva consultare il dottore, che in casi gravi funzionava anche da ostetrico e da chirurgo.

— Meglio — disse a voce alta la giovine donna, e la sua voce le tornò indietro, vicina eppur lontana, come un’eco, dalla muraglia di rocce che si alzava sopra il sentiero a fianco della sua casa. Casa un po’ strana, grande e abitata solo da lei e da una sua serva; un tempo era stata la sede del Comune, ma da qualche anno, dopo la costruzione del nuovo Municipio, veniva offerta gratis ai dipendenti di questo. Nessuno però la voleva neppure la maestrina, perché le stanze erano grandi e, d’inverno, gelate, e piene di topi e di scarafaggi. La serva non chiudeva occhio quando la signorina doveva uscire di notte per il suo mestiere; e Giovanna, a sua volta, sebbene coraggiosa e senza pregiudizi, possedeva una rivoltella col relativo porto d’armi.
La rivoltella è lì, anche quella sera, sulla tavola da pranzo che serve da scrittoio, come la grande stanza, terrena, è adibita a uso di salotto e, occorrendo, da sala e ufficio di consultazioni. Un lume a petrolio rischiara la stanza; le finestre sono chiuse, sebbene la notte, fuori, sia già un po’ calda, ricca di luna e di stelle.
Ma Giovanna aveva paura più delle stelle e del profumo del tasso e del lamento dell’assiolo sul ciglione, che dei malviventi notturni. Il pericolo, e pericolo di morte, e di cose più terribili ancora della morte, era nel silenzio di quelle sere di giugno, se ella si affacciava alla finestra; il nemico sobbalzava allora dalla profondità del suo spirito come da un cespuglio di rovi, e la rivoltella non bastava a difenderla, anzi passava nelle mani dell’assassino e diventava un’arma demoniaca. Poiché oramai era destinata alla vendetta, e Giovanna aspettava solo l’occasione favorevole per poter uccidere con sicurezza l’uomo che l’aveva tradita.

L’occasione si presentò appunto quella sera: ma in maniera così favorevole da sembrare un sogno. La serva era già andata a letto, non essendoci quella notte probabilità per la padrona di uscire: e questa finiva di fare i suoi conti sul piccolo registro quando uno dei vetri della finestra verso il ciglione parve incrinarsi. Qualcuno aveva buttato una pietruzza: la lieve vibrazione della lastra colpita si ripercosse nel sangue di Giovanna con una violenza quasi di terrore. Ella riconosceva quel segnale: quel segnale che aveva creduto di non sentire mai più nella sua vita, sebbene appunto nei sogni crudeli la ferisse come una freccia avvelenata.

Anche adesso, dunque, le sembra di sognare: sotto l’arco ombroso delle sopracciglia maschie, gli occhi s’aprono con fissità di spavento: il segnale si ripete. È lui, che, come un tempo, l’avverte della sua presenza.

Dopo il primo turbamento, ella pensò che potesse essere qualche altro: forse un ragazzo ancora in giro, con quella bella notte già estiva. Ma il cuore non la ingannava. Il colpo si ripeté una terza volta: poi non più. Questo era il vero segnale, convenuto un tempo fra loro, e che nessuno conosceva. E le venne da sogghignare, ricordandosi che si vedevano di nascosto per paura della famiglia di lui: era lui che faceva la parte donnesca. E invero qualche cosa di femmineo lo aveva: una dolcezza, una passionalità svertebrata, un colore d’incoscienza e quasi di abulia. Ed era cresciuto sempre in mezzo a donne: la madre, le zie, le sorelle, le cugine, prendendo la parte debole del loro carattere: anche per questo era piaciuto a lei, forte di spirito e di corpo.

Ricordò, in un attimo, le promesse che egli le faceva, nei momenti di maggiore abbandono: che l’avrebbe amata sempre, anche se costretti a separarsi, anche se lei lo avesse respinto e calpestato: e forse Dio le mandava adesso una occasione di vendetta ben più crudele di quella meditata da lei.
Si alzò e guardò attraverso i vetri della finestra, senza persiana, munita però d’inferriata. Egli stava lì, nel vicolo sotto il ciglione sopra il quale cadeva la luna: vestiva di nero, col cappello tirato sugli occhi, il viso in ombra: ma le sue mani bianche di scriba, illuminate dalla luna, parevano fosforescenti; avrebbe avuto una parvenza di fantasma senza il cerchietto d’oro dell’anello matrimoniale che egli sembrava mettere in mostra per avvisare Giovanna della distanza che li separava. Questa fu l’impressione di lei: e un tumulto di odio, di rabbia, di sdegno per l’insultante presenza di lui, la sospinse e risospinse, come un’onda malvagia, dalla finestra alla tavola, dalla tavola alla finestra, più volte, facendole afferrare e rimettere e poi riprendere l’arma.
La rimise ancora: infine, poiché l’uomo non se ne andava, aprì con dispetto le imposte, fingendo di non riconoscerlo. Egli sollevò il viso, col mento bianco di luna e il resto come mascherato da una bautta: non parlò; ma ella vide quel mento, con la fossetta profonda, tremare visibilmente, e si placò di nuovo, quasi beffarda. La sua voce vibrò nel silenzio, sforzata, come quella di uno che vuole spaventare un monello disturbatore.
— Beh, che vuole?
Egli fa due passi in avanti, si toglie il cappello, e adesso anche i suoi occhiali e i suoi capelli neri luccicano alla luna, mentre le mani si nascondono quasi impaurite.
— Signorina, — dice sottovoce, come ripassando una lezione, — bisogna che lei venga, a casa mia. Il dottore è fuori, per un consulto urgente, e la cosa è venuta d’improvviso, prima del tempo.
Ella capisce benissimo di che si tratta: e vorrebbe ridere, gridare: «E a me che importa? Vada via» ma egli prende coraggio, alza la voce, non ha paura di farsi sentire. — Bisogna che venga. Subito. C’è pericolo.
Le sembrò il grido di uno che, in pericolo di vita, domanda aiuto: e chi lo sente non può, senza tradire le divine e umane leggi, negarglielo. Lei, inoltre, era obbligata, per il contratto col Comune, ad assistere chi richiedeva la sua opera. Una cosa era vendicarsi, un’altra compiere il proprio dovere civile. In fondo, poi, soffiava il demonio. Pericolo? Per chi? Per la madre o per il figlio? In tutti i casi, forse, le si offriva la vera vendetta. Intanto, senza più aprire bocca, cercò la sua borsa di pronto soccorso, incerta, per un momento, se prendere o no la rivoltella. Non la prese: bussò all’uscio della serva, per avvertirla che usciva, e seguì l’uomo senza parlare.
La casa di lui non era distante, solitaria in riva allo stradone bianco del chiarore liquido della luna. Se Giovanna avesse voluto vendicarsi, nessuno se ne sarebbe accorto. Per il momento ella non vi pensava: quando però vide la casa di lui, con le finestre illuminate, un dolore quasi bestiale la riprese: e i pensieri malvagi, l’odio fiammeggiante, il desiderio di sangue e di morte la fermarono sull’orlo della strada. Sentì paura: paura di sé stessa, di entrare in quella casa e far del male alla donna innocente.
L’uomo dovette accorgersi della sua indecisione perché si volse a guardarla; e d’un colpo cadde riverso, con le braccia aperte, nero sulla polvere bianca, crocefisso sulla sua ombra.
— Sincope: soffriva di cuore — disse poi il dottore; e con malizia aggiunse: — la preoccupazione per la moglie, e qualche altra cosa lo colpirono.
Qualche altra cosa, sì, e Giovanna sentiva nel nido aggrovigliato e spinoso del suo cuore il serpente del rimorso e il terrore delle forze occulte, con le quali la volontà dell’uomo può, col suo odio, scatenare il male.


Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Forze occulte
AUTORE: Grazia Deleddda

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)