Ferro e fuoco

di
Grazia Deledda

tempo di lettura: 7 minuti


Un preistorico rito, oltre a quello di fare il pane in casa, voleva mia madre, nella nostra casa di Nuoro, insegnare alle sue farfallesche figliuole. Questo rito era venuto dalle montagne della Barbagia fin dai tempi in cui all’ansito dei puledri selvaggi si univa quello degli indomiti cavalieri Iliensi.
Si trattava di assistere al sacrificio del maiale e manipolarne le carni e i grassi fumanti. Per fortuna la battaglia, davvero a ferro e fuoco, era da vincersi solo una volta all’anno contro un nemico al quale, si può dire, fino a quel giorno io e le sorelle non avevamo dato importanza.
Veniva giù in marzo, coi caldi venti orientali, l’arzillo adolescente maialino: scendeva dai cari boschi di lecci dell’Orthobene con una grossa ghianda ancora ficcata nella zanna rabbiosa, coi piedi legati, sul cavallo del servo che lo portava in arcioni e invano tentava di placarne le proteste.
La gabbia dove veniva ficcato, sebbene alta e spaziosa, non lo consolava di certo: erano, i primi giorni, grugniti che spaventavano persino il prode gallo del cortile; e tentativi di smuoverne le sbarre e persino il grande truogolo di granito che forse gli ricordava le pietre della patria perduta. Poi la fame e l’ingordigia lo domavano: il truogolo diventava la fonte della sua nuova felicità. E che opima felicità. Tutto gli era concesso: le grasse succulente pappe di crusca, le ultime ghiande; e poi i fichi d’India rossi del sole della valle, e le scorze dei cocomeri per rinfrescarlo del loro ardore; e le perine selvatiche che portavano l’aspro odore degli altipiani ventosi; infine di nuovo ghiande, ghiande, ghiande; le sue zanne, a furia di masticare, diventavano lucide come punteruoli d’avorio.
Ma nello svolgersi delle stagioni lo accompagnava e confortava anche l’affetto della padrona: affetto sincero, scevro di equivoco interesse, pietoso anzi per la crudele sorte di lui: e l’animale doveva sentirlo, perché fiutava sdegnoso l’ipocrita simpatia degli altri suoi fornitori di cibo. Una volta mia madre dovette assentarsi per tre giorni da casa: ebbene, il porco vivente in quell’anno di grazia dimostrò il suo dispiacere con un sacrifizio che pochi amanti abbandonati sono disposti a compiere: per tre giorni non volle mangiare.

È vero che si rifece nei giorni seguenti, e sempre di più a misura che cresceva e ingrassava; gli occhi gli si affondavano fra le guance cascanti e le orecchie molli di grasso; la beatitudine più invidiabile lo penetrava tutto; mangiava e dormiva, e anche nel sonno gemeva di voluttà. Arrivò un giorno in cui non poté più sollevarsi; ma sembrava un ubbriaco, gonfio di abominevole felicità.

Allora, in un fresco turchino giorno del primo inverno, arrivavano due valentuomini: uno, smilzo e nero, con un berretto frigio sulla testa rapata e le maniche della camicia rimboccate sulle braccia pelose: sembrava un boia; l’altro un pacioccone roseo e lucido: erano due celebri macellai. Il maiale viene, con grandi sforzi dei due bravi, tratto fuori dalla sua reggia. Dove lo conducono? Esso protesta, poiché non vorrebbe ritornare neppure nei boschi natii, dove sulle rosee famiglie dei ciclamini cadono i confetti delle ghiande: ma è verso un luogo ancora più bello delle radure fiorite d’asfodelo dell’Orthobene che l’infelice deve andare: verso i prati che i poeti d’ogni tempo hanno garantito per i più ameni del mondo, ai confini della terra. Verso la morte.

Il pacioccone è il più feroce. Tira fuori la lesina, col manico di corno inciso, lunga e acuminata come lo stiletto di un sultano geloso: il porco, rovesciato in terra, impotente a muoversi, sente il pericolo e urla; ma l’uomo gli affonda il ferro nel punto preciso del cuore, e non una stilla di sangue accompagna l’agonia della vittima. Poi arde il rogo, in mezzo al cortile, e i due uomini vi dondolano su, come in un giuoco di giganti, l’animale morto; arde il suo pelame irto ancora di dolore, e il fumo appesta i dintorni, richiamando sulla cresta del muro del cortile le faccette diaboliche di tutti i monelli della contrada. Una scena quasi dantesca si svolge adesso intorno alla vittima, che viene rapidamente raschiata del pelame abbrustolito, poi spaccata dalla gola all’inguine; sgorgano le viscere fumanti, che vengono versate in un laccu, il grande recipiente di legno che serve anche per l’innocente manipolazione del pane; viene scolato il sangue; un solo viscere è lasciato per ultimo, nella voragine ardente del grande ventre vuotato: è il fegato.

E adesso, amici, non inorridite, anzi esaltatevi come i bambini arrampicati sul muro, dal quale attraverso il velo acre del fumo che ancora esala dal rogo, assistono allo spettacolo come dall’alto di un anfiteatro: poiché il boia e il pacioccone con un cenno quasi ieratico, invitano chi dei presenti vuole mordere il fegato caldo della vittima. E c’è, sì, chi lo morde: una delle signorine la prima; l’esempio è imitato; le preghiere, le urla dei ragazzi perché sia permesso anche a loro il rito sembrano quelle di figli di guerrieri. E, invero, la cerimonia ha un significato epico: poiché la bocca che morde il fegato ancora caldo di una vittima non conoscerà mai il gemito della viltà. Così, tante volte, quando ho piegato il viso sulla voragine sanguinante della vita ho ricordato il curioso rito degli antichissimi avi.
E coraggio bisognava dimostrarne subito, nelle faccende seguenti; meno male il primo giorno, quando il quadro continuava a colorirsi di tinte omeriche, e i macellai, dopo aver squartato il porco, dividendo il bianco dal rosso, versando il sangue raddolcito dallo zucchero e dallo zibibbo nei budelli più grossi, s’incaricavano di arrostire allo spiedo il miglior pezzo di filetto; e prendevano parte al banchetto alla tavola dei padroni; e, andati via loro, alla sera, il profumo del sanguinaccio cotto sembrava quello di un dolce da sposalizio. Ma la mattina dopo le signorine dovevano, con ancora in mente il fumo dorato dei romanzi letti di nascosto la sera prima, indossare i grembiali dei giorni di fatica grossa e schierarsi intorno all’esecrato tavolo di cucina. Era un’opera da carnefice: bisognava insanguinarsi le dita e le vesti, e fare smorfie di ripugnanza al contatto della carne cruda. I grandi coltelli affilati, le mezzelune, e, se occorreva, persino le scuri simili a mannaie, funzionavano nelle piccole mani bianche, con la forza crudele della rivolta che sobillava dentro le fanciulle: e gli occhi di queste avevano lo stesso lampeggiare dei feroci strumenti.
E taglia e taglia, e spacca e pesta, solo quando il rosso e bianco monticello della carne e del grasso triturati sorgeva sul margine della tavola, gli occhi ritornavano miti, il riso, lo scherzo, le beffe, fiorivano di nuovo in bocca alle ragazze: anzi, scaldate dalla fatica esse raddoppiavano lo sforzo per finire presto e bene l’opera.
E la servetta, che nel grande mortaio di marmo pestava il sale grezzo venuto dalle spiagge di Baronia, il sale per coprire il lardo, roteava i neri occhi d’antilope, dichiarando che se un uomo l’avesse a tradire, ella gli avrebbe pestato le ossa nello stesso modo.
Poi le ragazze aiutavano a colare lo strutto nelle vesciche che venivano appese in alto come lampade di alabastro: e ad insaccare la carne salata e pepata nelle lunghe budella che anch’esse, da viscide spoglie di biscia, si trasformavano in rosee collane di salsicce. I loro festoni venivano appesi alle travi di quercia della cucina, e per farle essiccare presto si accendeva il focolare centrale, con legno fresco di ginepro. Il fumo ne scaturiva denso, ma non acre, anzi con un odore d’incenso. E tutta la cucina, col suo grezzo soffitto, la mensola coi candelieri di ottone, il luccicare dei rami, prendeva un aspetto festivo, un colore di tempio dell’abbondanza, di quell’abbondanza che nelle previdenti massaie sarde giustamente desta un senso di orgoglio. Alla sera, quando il fumo era fuggito nella fredda notte stellata, e nella cornice di pietra del focolare rimaneva solo il mucchio odoroso delle brage, qualcuna delle signorine non sdegnava sedervisi accanto, sotto la lampada di ottone ad olio, riprendendo la lettura di un romanzo proibito.
E non facevano più le smorfiose, le signorine al completo, quando la domenica seguente, ritornando affamate dalla messa elegante del mezzogiorno, vedevano sulla tavola da pranzo il grande vassoio di stagno, forse un giorno dimenticato da Ulisse nel suo breve sbarco nell’Isola: poiché sul vassoio stava un bel cuscino caldo e dorato di polenta, e sul cuscino posava, tra foglie di alloro, come un diadema di gloria, un doppio cerchio di salsicce arrostite allo spiedo. Gloria e premio per l’opera coraggiosa delle brave ragazze.


Fine.


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Ferro e fuoco
AUTORE: Grazia Deleddda

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: {Novelle} 6 / Grazia Deledda - Nuoro : Ilisso, \ 1996 - 278 p. - 18 cm. - Bibliotheca Sarda. Fa parte di: Novelle / Grazia Deledda ; a cura di Giovanna Cerina

SOGGETTO: FIC029000 FICTION / Brevi Racconti (autori singoli)