Bortolino.

di
Emilio de Marchi

tempo di lettura: 8 minuti

Vincenzo della Cascina Rampina, preso con sé Bortolino, il più grande dei suoi figliuoli, messi due piccioni e quattro noci in un canestro, venne a Milano coll’asinello a trovare il suo figlioccio, o per dir meglio il suo padroncino Mario, che compiva giusto in quel giorno i dodici anni.

Bortolino vestiva per l’occasione una giacca nuova di frustagno, color foglia secca e portava un paio di scarpe con certi chiodi sotto, che parevano scudi. Aveva la testa rasa rasa, per cui le orecchie parevano scappar fuori; la pelle del viso e delle mani color delle patate, e in mezzo alla gente “pulita” il poveraccio lo vedevi rimanere a bocca aperta incantato come un allocco colle mani nel cocuzzolo del cappello di paglia e gli occhietti grigi che guardavano per l’aria.

— Mario, — disse la mamma, — ringrazia Bortolino, tuo fratello di latte, dei piccioni e delle noci.

Anche Mario, che pur era un ragazzino svelto, restò confuso, diventò rosso, balbettò qualche parola senza senso, forse perché gli succedeva, fra la gente vestita di frustagno, ciò che a Bortolino fra i signori. Il vivere, se si fosse sempre schietti e alla buona, forse sarebbe più facile e più bello.

— Andate in giardino a far quattro salti, — tornò a dire la mamma. Il signorino, che (fra parentesi) si era messo per la sua festa un vestitino d’estate con bei bottoni bianchi e due calzette a righe

rosse e celesti, andò avanti facendo segno a Bortolino di seguirlo, e Bortolino provò a muovere le gambe. Giunti in giardino, e dopo essersi guardati in viso un pezzo senza parlare, fu il primo Mario a dimandare:

— Come ti chiami!

— Bortolino…

— E altro?

— Della Cascina Rampina.

— Vai a scuola!

— D’inverna.

— Si dice inverna alla cascina Rampina? e d’estate che cosa fai?

— Guardo la mucca.

Mario, a questa risposta, non poté trattenere uno scoppio di risa e, agitando i suoi lunghi capelli, che gli scendevano fin quasi sulle spalle, esclamò: — Ci vorrà poco studio. — Poi seguitò a raccontare che egli invece studiava il latino e il pianoforte, che il babbo l’aveva condotto ai bagni della Spezia, e al teatro della Scala e tante altre cose, l’una più bella dell’altra.

— Sai dov’è la Spezia? — No.

— Qu’est-ce que tu sais, mon petit Bortolin? — disse celiando il bricconcello. — To’, prendi questo bastone e facciamo un po’ di scherma.

Ma Bortolino non si sentiva di fare la scherma e si voltò, contro il muro; allora Mario, visto che non c’era costrutto, fece una gran riverenza, dicendo: Si vales, bene est, ego quoque valeo — e se ne andò a giuocare colla sorellina.

Dopo pranzo la mamma gli disse: — Nella tua camera c’è un lettino vuoto e per questa notte lo daremo a Bortolino; tu cerca di star zitto e a lasciarlo dormire.

— Io non voglio dormire con quel villano; ti pare, mamma? puzza di fieno. Non voglio, non voglio. — E picchiava le belle scarpette in terra.

Ma la mamma aggrottò le ciglia, segno che bisognava obbedire. — Perché non lo vuoi? forse perché egli lavora e mangia pan giallo, mentre a te, svogliatissimo in tutte le tue cose, danno pan bianco e pasticcini?

Mario se ne andò brontolando fra i denti: Gran che! guardare una mucca!… e si sentiva gli occhi pieni di lagrime per il dispetto. Ma poiché era inutile dir di no, pensò di fingersi ammalato, e andò a letto due ore prima del solito, solo, colla speranza di addormentarsi prima. Infatti egli non vide in confuso che un lume e non sentì che un frastuono alla lontana, quando Bortolino entrò e si spogliò.

Mario, secondo i suoi progetti, poté risvegliarsi alla mattina, prima delle quattro, mentre era tutto buio, cacciò le gambe dal letto, si vestì in fretta e in furia, sempre al buio, cercò tentoni l’uscio e se la svignò per la scala, contento di averla fatta a quel villanello sciocco. Quando arrivò giù, sotto il portico, Vincenzo che stava attaccando l’asino al carrettino, gli disse: — Sei qui Bortolino? andiamo presto che vuol piovere stamattina.

Mario stava per rispondere che Bortolino dormiva ancora della grossa, quando alla luce d’un lampione, che Vincenzo accese sotto il carrettino, vide — e vi lascio immaginare la sorpresa — che nel vestirsi in fretta, al buio, s’era messo indosso non il suo abitino nuovo d’estate, ma le robe del suo vicino, nuove anch’esse, ma color foglia secca. Lo spavento fu tale e tanto sulle prime, che il fanciullo rimase come stordito, senza poter parlare né muoversi, mentre Vincenzo seguitava a dire: — La mamma ci aspetta per la spazzatura della cisterna e poi c’è lo strame da voltare. Se avremo tempo ci fermeremo a Limbiate da Menico a prendere quel porcellino che si vuol ingrassare per Natale, e gli faremo un po’ di posto nella… carrozza.

Mario udiva bene tutte queste parole, ma una specie di granchio o di formicolìo per tutto il corpo e specialmente nella testa, gli tolse ogni facoltà di rispondere.

— Tu sei ancora invischiato nel sonno, Bortolino — disse il babbo prendendolo sotto le braccia e mettendolo a sedere sul carretto. — To’, siedi qui sul sacco; dormi e bada a non fare un capitombolo.

Mario aveva aperta la bocca a un grande urlo, che chiamasse tutti i santi in suo soccorso, ma la voce non venne com’egli volle, e una specie di sonno duro, pesante, veramente impegolato, lo schiacciava senza togliergli del tutto il sentimento della sua disgrazia. O povera la sua mamma! o povero Mario!

— Va’ là, Pindoro — disse Vincenzo all’asino, e il carretto si mosse, dondolando il lampione; rimbombò sotto il portone, uscì, rasentò la casa, passò sotto le finestre della mamma, e poi con un piccolo trotto sempre eguale attraversò molte vie, molte piazze, molti vicoletti deserti, giunse a una porta della città, infilò una strada di campagna, quando cominciava appena a schiarire. Il balio diceva: se piove, ti metti il sacco sulle spalle; se hai fame, ho del pan giallo nel cassetto. Che buona signora! il figliuolo però è male educato; pareva che avesse schifo. Non è vero, Bortolino, ch’egli non mangerebbe pane se noi non seminassimo frumento? Su, su, svegliati che comincia a gocciolare. — Infatti pioveva, ma non tanto, quando Vincenzo fermò il carretto alla cascina di Menico. Diede le redini in mano al ragazzo e corse a prendere il porcellino. Quando Pindoro non sentì più la mano maestra, annoiato della pioggia o tirato forse da qualche frasca, cominciò a piegare verso la siepe e a spingere il carretto sopra un mucchio di ghiaia. Mario tirava questa e quella corda, facendo peggio; l’asino prese la corsa verso un fossatello, una ruota vi cadde dentro e il carretto rimase in bilico sull’orlo, mentre veniva giù un acquazzone tremendo.

Vincenzo, che serrava al petto il porcellino, venne a corsa, a saltelloni, sotto il diluvio, fin presso al carretto: l’animale grugniva, grugniva come se lo pelassero vivo. Egli lo buttò sul carretto, quasi sulle gambe del ragazzo, gridando: — Tiralo su quell’asino, asinaccio: no così, bestia anche tu: aspetta che ti rompo la zucca, brutta mummia addormentata. Sei pieno di sonno, eh, porcellino? — Vincenzo dette uno scapaccione al fanciullo e il manico della frusta sull’asino, e via a trotto disperatissimo per la strada sassosa, sotto il torrente della pioggia, e il rumore del tuono, e il bagliore dei lampi, accompagnati dai grugniti lunghi e interminabili del porcellino: e via, e via, e via, e va, e va. Giunti a cinquanta passi dalla Rampina, l’acqua cessò. Vincenzo vide la sua mucca che entrava nei prati del sor curato e disse: Salta, Bortolino, tirala fuori da quei prati. Mario si trovò subito colla corda in mano e cominciò a tirare la mucca che voleva ad ogni costo mangiar l’erba del curato; ma il bestione duro, ostinato, pareva di bronzo Vincenzo aveva un bel gridare dalla strada; la mucca stava già per sfondare una siepe spinosa.

In fondo, verso Milano, precipitavano nuvoloni neri portati dal vento. Tira tira, la bestia inferocita, agitava le corna, attorcigliando la corda e trascinando il guardiano che inutilmente puntava i piedi in una terra molle, inzuppata d’un colore giallastro come una melma. La siepe fu facilmente sfondata, e mentre il ragazzo rotolava, vide la mucca abbassar la testa, far due passi indietro, guardarlo con occhi sanguigni e prendere la corsa per…

— La mucca! la mucca! — poté finalmente gridare, e si svegliò. Balzò esterrefatto a sedere sul letto, coi capelli irti, pallido, grondante sudore. Il sole entrava già per le due finestre della camera, ma il sangue, i polsi, il cuore sussultavano ancora.

Bortolino alzò la testa dal guanciale e domandò quietamente: — Dov’è questa mucca?

Mario provò allora una grande consolazione, e fissò gli occhi un pezzo sopra i vestiti di frustagno deposti sulla sedia. E quando raccontò alla mamma il brutto sogno, questa gli disse: — Pensa, bambino mio, che ciò che ti parve un brutto sogno è la vita reale di molti poveretti, ai quali spesso manca anche il tozzo di pan giallo. Che cos’è il tuo latino e il tuo francese in confronto?

Quando verso la sera di quel giorno Mario vide davvero l’asinello e il carretto di Vincenzo pronti a partire sotto il portico, con Bortolino sopra, come aveva già veduto nel sogno, non poté trattenere una lacrima di commozione. Bortolino gli pareva diventato un salvatore, un benefattore, un amico insomma, che per compassione prendesse lui quel brutto mestiere di spazzare la cisterna, di guidare l’asinello, di guardare la vacca, lasciando il suo fratellino fra la carta pulita e bianca dei suoi libri, presso il pianoforte, presso la mamma…

— Oh mamma! — esclamò Mario, quando Bortolino fu partito, e si gettò a piangere fra le sue braccia.

Fine.


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TITOLO: Bortolino
AUTORE: >Emilio de Marchi
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet:
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TRATTO DA: Giornale per i bambini / diretto da Ferdinando Martini ; [poi] da C. Collodi. – Roma : [Tipografia del Senato], 1881-1883.
SOGGETTO: JUV038000 FICTION PER RAGAZZI / Brevi Racconti