Brand, dramma in cinque atti, fu scritto a Roma nel 1865, pubblicato la prima volta nel 1866 a Copenhagen e rappresentato al Nuovo teatro di Stoccolma il 24 marzo 1885. Riscosse immediatamente grosso successo tramite anche lo scalpore destato, al quale contribuì certamente l’atmosfera cupa e tormentata che permea l’opera. Strindberg definì questo dramma “la voce di un Savonarola in un’era idolatra dell’arte”. Fu quest’opera che assicurò ad Ibsen grande notorietà in tutti i paesi nordici e gli garantì anche una certa sicurezza economica.

Il nome “Brand” significa “incendio”; l’incendio che vuole provocare questo pastore, che sente la religione come impegno assoluto e senza compromessi, è quello tramite il quale si deve essere pronti a sacrificare allo spietato dio biblico quanto si ha di più caro, persino i sentimenti più semplici e naturali. Il suo motto è “tutto o nulla”. E con questo spirito rifiuta di assistere la madre morente che non vuole separarsi dai suoi averi neppure in punto di morte. Come Abramo decide di sacrificare il figlioletto rifiutandosi di portarlo in un clima più mite di quello del fiordo, come ha consigliato il medico. Allontanarsi significherebbe per lui abbandonare la missione assegnatagli e il dovere che secondo lui può esprimersi solo in quel luogo desolato. Il bimbo muore e Brand impedisce alla dolce Agnes, sua moglie, di conservare neppure un piccolo ricordo di lui, perchè sarebbe feticismo e idolatria. Quando anche Agnes muore Brand decide di costruire con l’eredità della madre, una nuova e più grande chiesa, ma al momento della consacrazione getta la chiave: non riesce a sottomettersi all’autorità della chiesa di stato. Si avvia quindi alla testa di tutto il popolo verso la montagna e la “Chiesa di ghiaccio” situata tra le nevi eterne, promettendo a chi lo segue di condurlo sulla via della salvezza. Ma solo inizialmente la folla lo segue, suggestionata dall’esaltazione, ma di fronte ai pericoli e alle difficoltà lo abbandona e lo lapida quale falso profeta.

Ambiguo il finale di difficile interpretazione: impassibile anche di fronte all’apparizione della moglie che lo invita ad una più umana via dove la durezza e l’intransigenza possa addivenire a un qualche compromesso, Brand tuttavia riesce finalmente a piangere e a domandarsi se non abbia sbagliato tutto. Finalmente il fallimento non appare solo il suo ma quello di qualunque modello da seguire, di un qualsiasi ideale etico di perfezione morale. Per via traslata Ibsen sancisce il fallimento di qualunque etica moderna. Il Podestà vorrebbe convincere Brand ad abbandonare la dura vita del fiordo ed a considerare la sua opera di predicatore più adatta alla gente della città, più avvezza a considerare le altezze dello spirito. Anche il dialogo tra Brand e il Podestà rievocante la storia della Norvegia sfocia nel ridefinire l’idea di moralità. Dice il Podestà:

«Se io non vi fraintendo, voi volete combinare la vita reale con l’ideale della vita; si tratterebbe in sostanza di fondere in un sol tutto, le lotte per la fede e la coltivazione delle patate, allo stesso modo che il carbone si unisce al salnitro e allo zolfo per formare la polvere da cannone.»

L’unità di “idea” e “azione” incarna quindi il concetto di moralità che persegue Brand. Naturalmente è necessario inserire questi concetti nell’ambito del protestantesimo luterano, ambito nel quale nessuna opera umana può contribuire alla salvezza eterna alla quale si perviene soltanto con la fede. Questo dialogo, al terzo atto, è in tutti i sensi il centro dell’opera e ha l’evidente obiettivo di sottolineare le contraddizioni chiave dell’idea luterana e la posizione non convenzionale di Brand stesso. Dice ancora il Podestà:

«Vie di comunicazione che uniscano gli uomini fra loro, ecco, quel che ci occorre innanzi tutto; e tutti eravamo d’accordo in questi concetti prima del vostro arrivo nella parrocchia, ma la vostra venuta ha sconvolto ogni piano. Ora, a causa vostra, si vedono brillare insieme la lampada del minatore e l’aurora boreale, e in questa falsa luce non sappiamo più distinguere la verità dall’errore e il male dal rimedio. Voi avete arruffato tutte le nostre relazioni e creato gruppi ostili in questa folla, che ben condotta avrebbe sempre vinto e progredito.»

A Brand resta l’attività di predicatore: fedele al proprio nome deve “infuocare” gli animi. Accetta questa sfida alla compostezza borghese dando libero sfogo alla propria inquietudine che, proprio per il carattere intrinseco del protestantesimo, risulta estremamente individuale e solitaria. E giunge alla conclusione che non è possibile conciliare la vita reale con un ideale di vita.

Traduzione di Arnaldo Cervesato che appare particolarmente convincente, con uno stile ben adatto all’atmosfera ibseniana, probabilmente per la collaborazione determinante di Tyra Kleen (1874-1951) artista svedese che riesce a combinare le sue grandi doti pittoriche e di illustratrice con la competenza etnografica acquisita in maniera autonoma; e sono certo che questa sua invidiabile formazione ha contribuito non poco a rendere robusta e non datata questa traduzione, che infatti viene riproposta anche in edizioni recenti, purtroppo escludendo il nome di questa grande autrice e propugnatrice dei diritti delle donne.

Sinossi a cura di Paolo Alberti

Dall’incipit del dramma:

ATTO PRIMO.
L’azione ha luogo ai nostri giorni e si svolge lungo la riva d’un fiord, in una provincia della Norvegia Occidentale.
Un altipiano coperto di neve; la nebbia vi è spessa e greve – piove; è quasi buio.
Brand, vestito di nero, uno zaino sulle spalle, cammina in direzione di occidente, avanzando a stento; ha un bastone alla mano. Dietro a lui, un contadino col suo figlio vanno nella stessa direzione.
CONTADINO.
Olà, quel forestiero, non andare così svelto! Dove sei, ora?
BRAND.
Sono qui.
CONTADINO (gridando).
Tu smarrisci la strada. Guarda come la nebbia si fa più densa; quasi non si vede la punta del proprio bastone.

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