Ritratto di donna

Tra le pagine più profumate di lirismo della prosa europea novecentesca, ci sono quelle della Recherche di Marcel Proust che, nello svolgimento di sette volumi, con l’invecchiamento dei personaggi fa affiorare sui loro volti i nodi esistenziali irrisolti, negati dal contesto familiare o sociale. Sbocciati questi fiori del male, deformano i loro sguardi e i loro sorrisi. La stessa proprietà liberatoria ha la poesia per Emanuela Niada in Specchi concavi,per la quale la sua funzione riflessiva e specchiante le consente di mettere a fuoco un vissuto spigoloso da accettare, i nitidi gradini della sua vita. Già dal titolo si desume, però, non si tratti di una superficie lineare, bensì di un ritorno d’immagine infedele e corrotto: infatti lo specchio è concavo e non convesso, ricurvo verso l’interno per difetto, quasi sia stato scavato, svuotato da ciò che ha riprodotto, o addirittura abbia sofferto di ciò che ha portato in grembo.

La prima sezione è dedicata alla madre dell’autrice e si apre con i frammenti di uno specchio irreparabile:«in un giuoco crudele» vita e morte della donna convivono nell’evidenza sofferta del Morbo d’Alzheimer di cui l’espressività è prigioniera: «linguaggi infiniti / di parole tronche, / sinuose». Nella «morsa» della malattia, la madre strattonata tra presente e passato, senza barriere né continuità, «naufraga / nel torvo oceano / della moquette / in sala». In Collezione di sabbia Italo Calvino paragonava la memoria storica dei Tuareg ai disegni geometrici sui loro tappeti, la mappa esistenziale di un popolo tramandata di generazione in generazione nella vastità del deserto del Sahara: «una cattura del tempo» (da Lezioni americane, pag. 46) reso spazio interiore. Ma «il filo si spezza» e la madre scende incosciente nel buio di un «pozzo madido», dove «non filtra più luce».

La seconda sezione si fa più autoriflessiva e simbolica, ricordando la pozzanghera della parola integerrima di Stendhal, oggettiva, ma coerente. Pare quasi una cascata di versi dinoccolati verso il basso, senza un punto che chiuda, un traguardo: la frana degli estremi lineamenti in dissolvenza, marcata nella sezione successiva. Così gli attributi scritti in verticale con le lettere in caduta libera (tributo alla rottura lessicale di Cummings); lo spazio tra i distici spezzati e le terzine monche è il vuoto d’aria tra un gradino e l’altro. «Sull’orlo affilato / di una lama» sta la sua audacia nell’affrontare «gli scorni e le beghe» quotidiane: Montale nominava «felicità» la sfida impossibile da vincere con se stessi, Niada invoca il tramite, il «coraggio» che, però, provoca sempre la perdita di una parte di lei «insanguinata». C’è ancora Proust «tra le due lastre / [ […]] i due piani / che s’avvicinano, / aderiscono», quello involontario del primo ricordo di un particolare che l’ha coinvolta e la sua evocazione successiva, meccanica, producendo di conseguenza una copia dell’emozione primigenia, poi sovrapposta all’originale. L’ «abbozzo» pulsante della «gravidanza» supera, vivendolo, l’immaginazione e l’autrice racchiude la venuta alla luce di suo figlio nell’ossimoro «divino, / banale»; da qui il ruolo s’inverte e da figlia qual è stata, emerge lei madre a sua volta, e il suo cuore, all’inseguimento de «la dimensione / ordinaria», si cheta di tanto in tanto dal galoppo. Madre e figlia sono ruoli azzardati, incerti, mai assicurati, e la poesia che li raccoglie non ha risposte, solo constatazioni, come vuole il titolo: Dobbiamo frequentare visi per percepire essenze? Per il quale mai si svelerà il confine tra le maschere indossate e la loro profonda ombra. Nelle ultime liriche Niada dichiara una poetica completamente esistenzialista: la sua cifra stilistica, di parole «troncate di netto», e un’ispirazione di «gesti mancati, / dolore implicito / amore negato». «Specchiandosi / su dorsi ocra» del corpo, rivela la sua «cavità interna»; però l’occhio cerca altrove. Giuseppe Ungaretti spalancò l’orizzonte stilistico della poesia italiana sbriciolando l’endecasillabo e dando un tono intimo a ciascuna parola, le cosiddette parole-verso, e Emanuela Niada ha interiorizzato la lezione del Maestro, tendendo ad una lirica vibrante ed impressionista, ma spesso sentenziosa, poiché tentativo ultimo di definire un presente in dolorosi frantumi.

Nella terza sezione risponde provvisoria alla domanda della precedente: «L’assenza / del mio viso // dà / consistenza / agli altri». Qui ricorre la parola «ritratto», ma non è quello di Dorian Gray, e il passato in fiore dentro la cornice di un quadro, «ragnatela» del destino, oggi è altro da lei, un cimelio tra tanti che spicca sul camino in sala. Disillusa sa che i petali in cima, di quelli appena sbocciati e sicuri nel vaso della loro vitalità, rimarranno «freschi / per poco». Il suo ritratto l’ha già tracciato, ora sta a chi c’è intorno e popola il suo sguardo. S’inceppa la memoria dell’autrice e cammeo diventa il «rosario / in testa» che per ore non si placa, a seguito dell’incidente di una persona cara e la sua convalescenza a letto, neanche mentre questi riprende i sensi e chiede «acqua». Allora il fischio del treno diurno, rigonfio nel ferro «di rabbia e stanchezza», perfora l’atmosfera leggera di quando da bimba poteva restare «a lungo / in aria / pure a stile libero» e ripiomba al suolo, dopo essersi alzata di qualche centimetro, come ruote di fieno:

«Covoni
come dinamici rulli
tronchi,
immoti.
In attesa
della fase successiva,
che ignorano.
Caricati su camion
viaggiano
su strada
dando spazio
al desiderio
inscritto nella forma».

Il viaggio del lettore attraverso la fotografia di Niada prosegue nella quarta sezione, pittogrammi: la pittografia è una forma di scrittura il cui segno grafico rappresenta il fenomeno visto e non quello udito, come invece avviene nelle scritture sillabiche, consonantiche ed alfabetiche. In pratica si tenta di riprodurre l’oggetto e non il suono con il quale è stato «chiamato». Se si disegna un “piede” per indicare il termine “piede”, il segno viene definito pittogramma. Se invece si disegna un “piede” per indicare il termine “camminare”, allora il segno viene definito ideogramma, dal momento che il significato è un concetto indicato dal codice e non dal disegno. La distinzione tra gli ideogrammi cinesi e i geroglifici dell’Antico Egitto è la medesima. Perciò l’autrice ha scelto come titolo un termine tecnico e specifico, per far sì che arrivi al lettore prima la pennellata di colore di ciò che ella ha attraversato e provato sotto la sua pelle durante viaggi concreti, fisici, i quali hanno lasciato un segno indelebile dentro di lei, ma inafferrabile se non tramite empatia.

Matteo Bianchi,

Parigi, agosto 2012

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Emanuela Niada, Specchi concavi, collana “Orizzonti”, Associazione Culturale “Il Foglio”, Piombino 2012, pp. 140, euro 12,00 – ISBN 9788876063848