Genova è vista in genere come città legata al mare, ai viaggi, al turismo balneare delle sue riviere. Meno spesso si ricollega nell’immaginario collettivo al suo montagnoso entroterra, alla durezza del lavoro, alla capacità di saper gestire il poco nel proprio sostentamento unita alla volontà di godere di ciò che la natura offre, non solo per il benessere del corpo ma anche dello spirito in uno scenario nel quale storia e mistero si rincorrono da sempre, dalla preistoria al medio evo, dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri.
La Croce di San Giorgio e il Grifone danno il titolo a questa raccolta di articoli, scritti nei primi anni del ventesimo secolo e pubblicati originariamente su vari giornali, ma in particolare su “La Liguria Illustrata” di cui Amedeo Pescio era direttore; Croce e Grifo, entrambi tutt’ora simboli della città. La prima immortalata nelle bandiere della Repubblica Marinara e presa a modello dagli inglesi perché era rassicurante innalzare sui propri pennoni un emblema simile a quello delle navi genovesi; il secondo, mitologico incrocio tra aquila e leone, è da sempre simbolo della città, e della sua squadra di calcio, fieramente rampante e con la coda alta – solo provvisoriamente l’arroganza di casa Savoia obbligò a raffigurare il Grifone con la coda abbassata – trainò persino il carro di Dante nel Purgatorio.
Pescio coglie con maestria e con l’amore per la sua terra tutti questi aspetti, conducendoci in un viaggio nella città storica e tra le sue bellezze più celate. Riscoprendo quelle che riemergono da antichità dimenticate e salutando con nostalgia quelle che stavano (cento anni fa…) per scomparire, già allora tra le accuse e i sospetti di incresciose speculazioni: la collina di Sant’Andrea e le sue carceri che vennero demolite (e la collina spianata) per far posto alla piazza che sarebbe diventata il centro della nuova città; la prigione dei debitori, La Malapaga, che Pescio vide in piedi prima della sua scomparsa. Ma forse a Pescio avrebbe fatto piacere sapere che il Chiostro di Sant’Andrea sarebbe stato davvero in gran parte salvato – oggi sta accanto alla casa di Colombo subito fuori Porta Soprana – e che le Mura di Malapaga, dopo essere stato scenario di un famoso film interpretato da Jean Gabin, sono oggi preservate nell’ambito della valorizzazione del Porto Antico. Forse per una sorta di contrappasso al posto delle carceri demolite c’è un nuovo palazzo della guardia di finanza…
Ogni angolo della città descritto da Pescio diventa pretesto per un excursus storico; la casa di Luciano Doria ci porta alle repubbliche marinare e alle battaglie di Zara e Pola fino alla morte eroica di Luciano Doria stesso; lo spianamento della rupe di San Benigno ci riconduce alla prigionia di Giano di Lusignano nella cella della Lanterna e alle altre vicende al noto simbolo di Genova legate e delle quali la rupe di San Benigno fu testimone.
Entriamo insieme a Pescio nella chiesa di San Pietro in Banchi, l’unica chiesa che sorge “al secondo piano” sopra i negozi con l’affitto dei quali ne venne finanziata la costruzione. Parlando di piazza Banchi, sede anche dell’antico palazzo della Borsa, Pescio ci parla del venditore di uccelli che esponeva la sua mercanzia sulle scale della chiesa stessa. Non ci narra però che di fronte alla chiesa venne arsa viva Cattarina da Rapallo, detta anche “la cagna Corsa”; ancora oggi nella piazza possiamo individuare la pietra annerita che ricorda il punto esatto nel quale venne innalzato il rogo.
Pescio parla, forse, soprattutto per i genovesi, e soprattutto per i genovesi di una volta, per cui lascia sottinteso e inespresso quello che probabilmente ai suoi tempi era comunemente conosciuto. L’accenno alla risposta del doge Francesco Maria Imperiale Lercari a Luigi XIV, il quale, dopo aver obbligato il doge stesso a una visita riparatrice a Versailles, gli domandò cosa lo avesse meravigliato maggiormente della sua reggia, credo sia infatti incomprensibile per chi non conosca la vicenda. Francesco Lercari rispose «Mi chi» (io qui, rigorosamente in lingua genovese), ma è certo che Pescio riesce, anche in questa un po’ fumosa rievocazione, a far trasparire il grande amore per la propria terra del quale Lercari si faceva interprete.
Conosciamo quindi non solo i nomi e i fatti delle grandi famiglie che hanno fatto la storia di Genova (Fieschi, Doria, Spinola) ma anche delle meno nobili ma non per questo incapaci di lasciare un segno profondo come Dodero a Boccadasse e Macciò a Masone. Proprio negli ultimi capitoli Pescio rivolge uno sguardo ammirato e commosso alle vallate dell’entroterra. Anche qui troviamo assieme alle bellezze naturali le vestigia superstiti di una storia lunga e leggendaria. Pescio non può quindi non accennare alla bella de Torriggia: tutti a vêuan e nisciûn s’a piggia, che identifica perentoriamente nella leggendaria Clementina, amante di Sinibaldo Fieschi; e a Beppin Musso, il gran diavolo, terribile brigante certamente ingaggiato da Luigi Domenico Assereto per le sue ambigue manovre durante il “blocco di Genova” a cavallo tra XVIII e XIX secolo.
Lo sguardo di Pescio sul cimitero monumentale di Staglieno si posa su due cari concittadini nel 1906 da poco defunti: il primo è Gandolin (Luigi Arnaldo Vassallo) e lo si ricorda ancora oggi – anche nella nostra biblioteca Manuzio – e il secondo è l’alpinista delle Apuane Emilio Questa che era da poco incorso nell’incidente mortale nell’ascesa alla Aiguille D’Arves, da lui stesso definita più facile rispetto a quella apuana dell’Alto di Sella. Oggi Emilio Questa lo ricorda chi giunge al rifugio al Lago delle Portelle, nel cuneese, a lui intitolato.
Il volume si conclude con un testo sull’antica città romana di Libarna (oggi amministrativamente in provincia di Alessandria) e alle sue vicissitudini dovute, tra l’altro, anche al passaggio della ferrovia. Quello che auspicava Pescio non è avvenuto e i reperti più preziosi reperiti in questa impresa archeologica non sono a Genova ma a Torino.
Il libro di Pescio ha chiaramente un taglio divulgativo e giornalistico, ma apre la strada a una conoscenza di Genova diversa e più attenta rispetto all’immagine vacanziera che spesso si ha in mente. Storia e leggenda sono dosate in maniera sapiente e avvincente, vicende avvolte spesso da mistero e da un alone quasi magico incantano la fantasia di chi legge. Ma non è difficile vedervi dietro un lungo lavoro fatto di letture, studio, accurata e minuziosa ricerca. Quasi in ogni capitolo scorgiamo senza esitazione l’applicazione seria e ben documentata che mai offusca con inutile pedanteria incanto, fantasia e suggestivo fascino.
Sinossi a cura di Paolo Alberti
Dall’incipit del libro:
Quando la Cortesina gaia e bella, fiore vermiglio di messer Martino, vergin reina della Domoculta, rise e pianse l’ultimo bacio della bocca pura sull’omero paterno, sopra il capo canuto, incline dolcemente alla carezza della bimba biondissima e leggiadra… quando la Cortesina uscì nel sole di sue nozze, e più non venne, dal gineceo dei D’Oria, cicaleccio e ridere malizioso d’ancelle, e tacque il donnesco stupor gentile attorno ai bei cofani incisi, morbidi di sete… il D’Oria bianco restò con dei fantasmi nella squallida casa dei suoi morti, nella squallida casa dei suoi anni, fatti ricordi e spasimi.
L’Evangelista in quel suo cuore stanco, dov’era un figlio morto e mai sepolto, mise il fervor di Dio, mise la speranza e la luce della morte: la verità della seconda vita…
Scarica gratis: Croce e Grifo di Amedeo Pescio.