«È il crepuscolo», mormorò Edward, lo sguardo
puntato a ovest, verso un orizzonte coperto di
nubi. (…). Per noi è il momento più sicuro della
giornata», disse, rispondendo alla domanda silenziosa
del mio sguardo. «L’ora più leggera, ma in un certo
senso, anche la più triste […] la fine di un altro giorno,
il ritorno della notte. L’oscurità è troppo prevedibile,
non credi?». E sorrise malinconico.
Stephenie Meyer, Twilight
Ultimo libro di Monia Andreani (uscito lo scorso novembre per la ev editrice), Twilight. Filosofia della vulnerabilità muove il lettore verso una pluralità di riflessioni con l’iperbolica trasposizione della figura del vampiro di ultima generazione, il quale, se allegorizza la paralisi di una postmodernità arrestata in moti non tendenziali, allo stesso tempo costituisce l’ipotesi per una solidarietà peculiare, diminuita del supporto di legami originari di parentela. Il libro si svolge in documentatissime argomentazioni di carattere filosofico (che tramano con quelle di ordine storico, sociologico, antropologico, psicologico, etico, bioetico, politico) che si intersecano a interludi di finissima analisi con la fabulazione della saga di Twilight – opera con la quale le pagine della Andreani sottilmente interagiscono. Una contaminazione di livelli espressivi, dunque, ma essenzialmente una pregnante assimilazione – come ha detto l’autrice – per un possibile deciframento e una focalizzazione circostanziale di una visione del mondo ancora per molti aspetti celata, benché largamente stratificata.
Il crepuscolo è l’ora labile e mutevole precorritrice della notte, ora delle presenze non marginabili che vede lo sfumare dei lineamenti delle cose: ciò che era riconoscibile appena, in virtù della persistente luminosità trattenuta dal tramonto, rapidamente cede alla impenetrabilità del buio. Crepuscolo, il progressivo defluire della luce e della possibilità di riconoscere le cose, dà, secondo la Andreani, l’esatta misura della discorde temperie dei nostri anni, i cui valori vacillano sulla dissoluzione dei presupposti in vista dei quali quegli stessi valori o paradigmi si erano istituiti. Ed è in questo orizzonte che parole come «felicità», «benessere», «perfettibilità» assumono la rilevanza di emissioni ecolaliche, di ripetizioni automatiche e insensate senza più referente intenzionale. Ma la dimensione crepuscolare, confluenza di notturno e solare – simbolicamente, di svanimento e di rinascita, del declinare e del riemergere di un fenomeno – suppone anche una prospettiva aurorale, il così detto crepuscolo mattutino che precede l’alba (come nelle parole di Bella a Edward, nelle pagine di chiusura della prima parte della saga di Stephenie Meyer): esso in questo libro è di marca etica, oltrestorica nella misura in cui si predispone ad accogliere le trame oscure dell’avvenire, e viene a configurarsi quale destinazione – e parimenti antidoto – a quella che Judith Butler definiva “comunità della perdita”. È la responsabilità implicata nella non eludibile, e propriamente umana, «esposizione all’altro» di cui parlava Lévinas – sebbene non perseguita, o eteroesposizione o esposizione talora immessa in un contesto di esiti ostili, essa ci chiama in causa.
Ex abrupto l’autrice rievoca alcune recenti e gravissime forme di violenza che per la loro efferatezza hanno nuovamente indotto l’umanità a prendere atto della dimensione collettiva di una vulnerabilità ecumenicamente condivisa. Lo stato di marginosità che prima (con e dopo Nietzsche, ad esempio) veniva ad assumere i contorni dell’espressione incompiuta di un essere in avanzamento – non adattabile all’ambiente, tanto da innescare tutta una riflessione sulla mutabilità ecologica -, nella posmodernità globalizzata si delinea come interdizione di ogni prospettiva a venire, come restrizione, preclusione, un esser situati allo sbaraglio, in una parola, come perdita in senso vasto. Vulnus, dice la Andreani, è ferita nel «senso fisico della violazione dell’integrità del corpo», ma induce a problematizzare la cognizione dell’offesa, della trafittura all’esperienza vissuta come lacerazione. Allora crepuscolare è anche aurorale, luce incerta e embrionale dell’inizio del giorno, dal momento che sussiste la possibilità di una – se è possibile dire con metafora leopardiana -, «ginestra», forse, per via delle complicazioni storiche e antropologiche intercorse dalla modernità alla posmodernità, ancora più ardua di quella leopardiana, una incrinatura nello scetticismo e nella stagnazione che apra a una risposta etica affermativa atta a recuperare, proprio a partire dalla percezione della nostra feribilità – dice la Andreani – «il senso di una vulnerabilità comune su cui riflettere per rilanciare le sfide etiche della responsabilità e dell’amore senza possesso, in cui maschile e femminile possano tracciare inediti legami.»
Che attinenza hanno i vampiri con tutto questo? Essi invero, scrive la Andreani, «sono come delle controfigure fantastiche dell’umanità occidentale divenuta consapevole di se stessa a partire dalla modernità», di una modernità emblematizzata dalla draculesca chiusura nella bara, e il fabulare della saga di Twilight («crepuscolo», appunto) delinea una esemplare metafora della nozione di crisi, e precisamente attraverso l’osservazione della mutazione storico-letteraria e semantica della figura del vampiro, del diverso, analisi che va dalla trasvalutazione della figura del Conte Dracula – principe delle tenebre e irremissibile parassita della vita, tutto all’interno di una visione hobbesiana dell’individuo nella diserzione dell’altro -, morto che vive uccidendo con soddisfazione macabra, personificazione del male per sé stesso quale fattore di conservazione, passando per The Hunger degli anni Ottanta del secolo scorso, dove l’esistenza vampirica è vista in tutta la sua decadenza e senza inclinazioni al gesto letale perpetrato con compiacimento malefico come accadeva con i loro antenati, fino ai vampiri di ultima generazione, i quali avvertono in misura diversissima la dannazione della propria disfunzione e tendono ad assomigliare agli umani (ad esempio, si espongono alla luce) e a operare in una configurazione emotivamente intenzionalizzata.
Lo statuto vampiresco implica la dilazione di una prospettiva non ultimata nella quale alla rimandatività non corrispondono obiettivi esistensivi: i vampiri, dice la Andreani, «sono esseri senza fine, che soffrono in silenzio una condizione di morte differita», senza che alcuna soluzione si prefiguri, là dove la stessa eternità è una persistenza di corruzione. Emblemi altresì del vitalismo e dell’immunità al disfacimento organico in quanto simbolizzano quella nozione di vita che è l’annoso obiettivo della ricerca medico-scientifica. Tuttavia – si chiede la Andreani – «si può parlare di invulnerabilità del vampiro o riferire questo termine solo alla vita che scorre nel suo corpo?». Al rifiuto dell’obsolescenza e della corruttibilità si correla l’esistenza sospesa delle società occidentali contemporanee, dove le tecnologie medico-scientifiche, se sono in grado di rinviare la morte organica, non altrettanto paiono fungibili a incidere su quella dello spirito. Il risultato di questa usatissima prassi (o sindrome) terapeutica è lo stazionamento del paziente nel preagonico stallo di una vita mummificata molto prossima alla morte. Si verifica, in altri termini, il trionfo di una vita innaturale sulla morte naturale, esito di una pulsione che è propria di una cultura troppo progredita e tesa a esaurirsi.
Ora, il vampiro, essere-non essere – assimilabile a un CsO, corpo senza organi, sulla scorta di Artaud, relativamente a chi ha avuto a che fare con la tortura – assomiglia all’uomo vulnerato: sarà possibile un riempimento di una nuova trama vitale, nella fattispecie, traducendo in termini di pienezza lo svuotamento seguìto all’esperienza della lesione fisica e del suo riflesso nella sfera esistenziale?
Vampiro è corpo vuoto, morto e al contempo immortale, o diversamente mortale, non esposto a vulnerabilità se non mentre giace dormiente nella propria bara un sonno affine a quello di un trapassato. È invulnerabile in quanto è situato al di qua di una prospettiva relazionale, prospettiva che ha un nesso decisivo con la vulnerabilità. Siamo esseri vulnerabili e differiamo dai vampiri perché ci esponiamo esprimendoci narrativamente: la nostra identità sarebbe fuori di noi, possiamo narrarla ma non conoscerla. Viceversa, conosciamo il sé narrabile dell’altro. Dunque, il nostro corpo è vulnerabile in quanto è esposto all’altro, è in vista, dunque indifeso e feribile, defraudato della propria singolarità come incarnazione di un «chi» comunque sessuato (a differenza del vampiro, di incerta identità sessuale). Il vampiro non ha statuto di essere relazionale, e sotto questo profilo è invulnerabile. Ma nella sua condizione arelazionale è condannato a eternizzarsi nell’infelicità. È questo lo status del vampirismo attuale, questo esperire di un senso di vulnerabilità in virtù dell’antinomizzarsi di «vita» e «condizione esistenziale». E in siffatta forma di vulnerabilità, secondo la Andreani, cioè «nella frattura aperta tra una vita biologica, oggettivamente indagabile, e una vita individuale della relazione, dell’esposizione e della vulnerabilità, soggettivamente esperita, si risolve tutta la parabola dell’individualismo moderno». La condizione veterovampiresca è invulnerabile, giacché, come anzidetto, difetta di comunicazione, dell’appartenenza a un ambito comunitario e relazionale, mentre in Twilight i vampiri si costruiscono una propria misura comunitaria, non tendono a vampirizzare (con estenuante sforzo, alla presenza di Bella Edward si limita a una vampirizzazione perlopiù di soli sguardi e a un vampeggiare di aromi seducenti) e si conformano a norme e a una prassi condivise. Pertanto non inerisce loro quel carattere di icona divoratrice che tradizionalmente viene ascritta al vampiro, il quale, volendo trasporre le riflessioni di Elias Canetti sulla sopravvivenza, è anche oggettivazione del senso del potere, giacché con la sua incolumità domina sulla morte altrui: il sopravvissuto fruisce di una aggiunzione di potere in seguito alla assimilazione della vitalità o comunque delle facoltà del morto o dello schiavizzato, accrescendo il proprio.
Il possesso di una vita eterna e di una posizione prossima a quella divina non paga il vampiro di quella felicità che potrebbe derivare dall’immortalità cui viceversa l’umanità occidentale persegue. Immortalismo che viene dunque avvertito come privilegio e insieme sanzione a una solitudine e una malinconia infinite. Una sovraumanità e una preservazione che poco hanno a che fare con la conservazione della vita ma che somigliano a un sopravvivere «sopra la morte». Un trasumanare inquietante, giacché inclusivo di vita e di morte: non del tutto morte perché ancora sussiste un intenzionare verso la vita. Non più vita, ma fluttuazione in un interregno di vita apparente, sebbene anch’essi abbiano una fine, commensurabile a quella riduzione in pezzi che quotidianamente ci viene sottoposta dalla riproduzione mediale, che globalizza l’evento nello stesso istante in cui – attraverso la sua ripetizione ossessiva sotto forma di immagine che surroga una voce narrante che faccia da tramite con l’accaduto, sottolineandone lo spessore reale – ne frantuma il significato, logorandolo e riducendolo a cenere, cioè a nulla, come una damnatio memoriae a libito commemorata nell’incenerimento del suo senso.
Lo status vampiresco è assunto come metafora della crisi. Ma quale crisi? Una crisi globale, dice la Andreani, non riferibile ai soli ambiti finanziario ed economico. Crisi relazionale, precarizzazione in «forme di soggettività globalizzate», nelle quali l’individuo è contestualmente irresponsabile e disaccordato «consumatore, spettatore, creatore», in una confusione di ruoli che finisce per annullare l’antitesi vero-falso e a ingenerare estraneità, distacco, inerte rassegnazione, abbandono di ogni prospettiva critica e progettuale. In tale condizione di morti viventi – che accomuna il comportamento dell’io globale a quello vampiresco – la figura di Bella è una delle poche che si sottrae alla generale omologazione, e a questa sua diversità – nota la Andreani – si può far risalire la seduzione che subisce dai diversi, il suo decedere dal mondo per eludere l’appiattimento di una vita stagnante e ossidata (anche per l’incorrispondenza tra il disagio e gli egemoni modelli di riferimento), da vivere da spiritualmente morta.
Twilight esemplifica l’aprogettuale io globale nella noia (che poi trasmuterà in partecipazione empatica al cospetto del diverso) dei Cullen, nel loro schermarsi ai margini della nebbiosa e monocroma Forks al di fuori di ogni panorama sia metropolitano sia solare, in una solitudine di natura cautelativa: essi non ambiscono a incidere nella società per trasformarla, né a un loro ingresso in un mondo adulto. Passivi e privi di aspettative, vivono dal punto di vista di un presente che sembra prolungarsi senza tuttavia prefigurarsi una alternativa futura.
Simile è il destino delle nuove generazioni, quel loro ondivagare (sintomatico, in tal senso, è il frequentissimo incespicare di Bella) nella incertezza di un avvenire avvertito come fatto nebuloso e inscrutabile: la condizione vampiresca partecipa di un dilazionato presente e trattiene caratteristiche della morte che è per definizione chiusura a ogni prospettiva a venire. Il vampiro è sempre giovane, dove il «sempre» equivale a una sinistra fissazione, a una ripetizione inespressiva, in ultima istanza, a una paralisi. Analogamente, una soggettività patologicamente e ottusamente narcisistica soppianta quella prometeica, ovvero, trasponendo i termini della questione, un futuro di possibilità è trasceso in un presente inarcato su sé stesso in un’ottica di allontanamento o di abolizione del problema esistenziale. Il soggetto si riferisce a sé e alla soddisfazione del proprio edonismo, è tendenzialmente incline a rimuovere ogni dissidio. Individualismo che sconfina nell’indifferentistico e scontornato postmoderno io globale – convergenza, osserva la Andreani, dell’io prometeico e di quello narcisistico – nel quale si consuma anche lo sgretolamento del modello patriarcale e con esso dell’identità maschile. E precisamente, nell’incrinarsi di quel principio di autorità, declino che ha ingenerato in molti giovani il senso dell’insussistenza di fattori vincolanti e il conseguente indebolimento delle condizioni per una costituzione identitaria, rendendo loro la percezione di una soggettività atrofica, sconfinata, ma dispersa e incapace di discriminare il confine tra sé e l’alterità, in cerca di una reggenza e di un riferimento sostitutivi per non lasciarsi andare in derive di percorsi non più in grado di intraprendere selettivamente. In altri termini, in un andare alla ricerca del limite come percorso di soggettivazione. Tuttavia, l’esercizio della autorità è intrinsecamente distinto dall’autoritarismo, il quale procede solo coattivamente senza supporre la condivisione di un termine comune e condiviso, un precetto che non sia solo unilateralmente funzionale.
Circostanza che troverà espressione nei Cullen di Twilight, i quali finiranno con l’amare la differenza e comunicare nella diversità, e con il prendersi cura in un rapporto di collaborazione e di amore tra vampiri, umani e licantropi, dunque tra esseri eterogenei, mostrando una empatia per la quale chi si è formato misconoscendo il limite finisce per autoimporselo. Indicando così equilibri alternativi nella deriva della globalizzazione. Senza legami di parentela fondano una forma comunitaria fondata sul semplice «essere in comune» che detta le norme per la coesistenza, là dove il «principio di autorità-anteriorità» diviene il medium per il durare, per la trasmissione di acquisizioni, di funzioni e di valori. Come i Cullen hanno stabilito tra di loro una specie di «comunità delle emozioni» fondata su vincoli autoimposti, così – scrive la Andreani – è possibile «un’aggregazione sociale che protegga i suoi membri e non ne soffochi la libertà di scelta, aperta alla differenza e paradossalmente infondente una sicurezza non legata al legame identitario, ma basata sulla semplice valorizzazione del legame sociale tra diversi, tutti imparentati allo stesso modo». Dunque, una fondazione dinamica della differenza.
Non allora una comunità estemporanea che si solidifichi solo nei momenti d’eccezione, ma che si esplichi in una integrazione tra diversi (che contempli anche la trasformazione ulteriore dei tradizionali paradigmi di maschilità e femminilità) nel riconoscimento di quella differenza che qualitativamente ci caratterizza (e che in Twilight è eminentemente simboleggiata dalla storia d’amore tra il vampiro Edward e l’umana Bella) in quanto personae (in latino, «maschere») piuttosto che della differenziazione che conduce a forme di individualismo in sé stesse concluse e occluse. Maschera sì – scrive la Andreani sulla scorta di Benasayag e Schmit -, ma non tale da essere assunta come emblema di nascondimento quanto come sfera dell’eventuale, consapevolezza della pluralizzazione di volti e delle referenze emozionali, ricettiva e edotta dei propri limiti, nonché della propria complessità che è varco verso il mondo, un farsi incontro alla vita di qualcuno diseguale dall’io. Opzionare per una «etica della cura» equivale a impegnare le risorse inconsumate dopo il cedimento dell’illusione della moderna e speciosa fiducia nel progressismo e nella perfettibilità, e su tale etica – che sorge dall’apprendimento e dall’esperienza della vulnerabilità – si costruisce la persona, dimostra la Andreani. E emblematicamente l’immagine inaugurale del libro (una infiorescenza, unico elemento iconico che si staglia su un tramonto vuoto, apparentemente elemento autosufficiente, seppure, a ben vedere, lievemente curvato), trasmuta, dopo le riflessioni dell’autrice, nella foto (entrambe di Marko Tardito) di chiusura nella configurazione capovolta di un insieme di fragilissimi steli sormontati da una piccola corolla, allusivo della vulnerabilità e insieme dell’esistenziare una visione comunitaria di personae sodali che hanno oltrepassato il crepuscolo e il perdersi degli archetipi.